Liberi di uccidere
E dire che ci eravamo abituati al peggio. Ai presidi dei poliziotti sotto casa di Patrizia Aldrovandi, alle provocazioni di chi tenta di infangare il nome di Carlo Giuliani, persino agli applausi – infami, provocatori, assassini – di chi ha coperto i suoi colleghi fino allo stremo, senza curarsi del sangue che hanno sulle mani e sulla coscienza, con complicità. Ci ricordiamo anche di quando Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, fu querelata dal COISP per diffamazione dopo che aveva, invano, tentato di ristabilire un po’ di verità per sé, per i suoi familiari e per tutte le vittime della violenza cieca dello Stato.
Avremmo dovuto capire che al peggio, ormai, non c’è più limite quando uno degli agenti imputati per la morte di Stefano aveva rivolto ai suoi familiari il dito medio, dopo aver ricevuto la sentenza di assoluzione in primo grado. Quel gesto non aveva nulla di liberatorio e, soprattutto, nulla di assolutorio: era anzi il gesto di chi rivendicava la sua appartenenza, di chi si vedeva giustificato per avere, ancora una volta, “obbedito agli ordini”, era il gesto di chi sa di essere dalla parte dei garantiti sempre e comunque, di chi agisce in nome dello Stato e rivendica il suo ruolo forte dell’approvazione di quegli stessi poteri che gli hanno fornito la legittimità per uccidere impunemente.
La condanna in primo grado per la morte di Stefano era ricaduta solamente sui medici e sugli infermieri che lo avevano abbandonato dopo il pestaggio, lasciandolo morire di fame, di sete e di stenti. Già allora il tentativo di minimizzare l’operato delleforze dell’ordine era risultato palese, in qualche modo lasciava anche intendere che sì, forse Stefano poteva essere aiutato, ma comunque era un reietto, un drogato, un disadattato, uno a cui la vita prima o poi sarebbe stata tolta ugualmente.
Oggi la sentenza si ribalta e ci lascia con il più infame degli epiloghi: nessun colpevole, Stefano è morto da solo, in una cella del tribunale, senza che nessuno si accorgesse degli ematomi che lo ricoprivano su tutto il corpo.
Non sono colpevoli i poliziotti che lo arrestarono, né quelli che lo “accompagnarono” nelle camere di sicurezza, poichè “la loro specchiata carriera al servizio della legge e dello Stato senza mai essere stati coinvolti in fatti negativi” li rende immuni dalla possibilità di compiere qualsiasi reato.
E gongola Gianni Tonelli, segretario nazionale del SAP, perché sa che ancora una volta a farla franca non sono quei poliziotti, ma l’intero sistema di bugie, illazioni e insabbiamenti di cui sono i principali promotori. Lo stesso sistema che permette quello stesso sindacato di scrivere un comunicato in cui si accusa Stefano di avere avuto “disprezzo per la propria condizione di salute” e di avere pagato le conseguenze per la vita dissoluta che conduceva.
La mancata condanna di chi l’ha ucciso si trasforma così in un indice puntato contro chi ha pagato la pena più alta pur essendo innocente: il processo si trasforma in una diffida morale contro il diverso, contro quelle condizioni di vita che discordano con il modello socialmente accettato perché una persona possa godere degli stessi diritti di chi l’ha ammazzato in nome della legge che servirà ad assolverli.
Le lacrime dei familiari di Stefano, oggi, non sono più lacrime di dolore. Sono lacrime di rabbia, di chi ha capito che per opporsi ad un ingiustizia che si è fatta legge e potere assoluto bisogna opporre la pratica della resistenza quotidiana contro gli i soprusi del potere costituito.
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