Libertà per Nejib: “organizzare la rivoluzione tra il cyberspace e lo scontro”.
Cominciai a fare cyberattivismo nel corso delle manifestazioni precedenti al 14 gennaio, in sostegno alle proteste e alle rivendicazioni della rivolta scoppiata a Sidi Bouzid. In quei giorni, senza mai fermarmi, iniziai a pubblicare pagine d’informazione ed eventi su Facebook. Prima del 17 dicembre le mie attività si limitavano alla sfera culturale perché era impossibile riuscire a organizzarsi direttamente in collettivi o gruppi per esprimerci esplicitamente contro il regime. Non avevamo spazi dove incontrarci e organizzare la lotta. Il mio lavoro d’attivista, quindi, consisteva nell’organizzare concerti o proiezioni nei cineclub che avessero sempre uno spazio per il dibattito una volta terminato il film. In quel contesto riuscivo a incontrare altri ragazzi e a parlare della situazione politica, altrimenti gli unici altri spazi disponibili erano all’università con il sindacato studentesco.
Comunque c’erano moltissimi problemi per organizzare anche quelle attività. Non riuscivamo a fare niente tranquillamente e in libertà. C’era una grande paura della polizia, per questo mascheravamo i dibattiti politici con il cinema. In questo modo si riusciva ad attirare molta più gente rispetto a una riunione politica o sindacale. Qualcosa cambiò quando iniziarono a circolare le foto di Mohamed Bouazizi che si dava fuoco. Era finalmente arrivato il momento di agire. Da quel giorno non mi sono più fermato!
Ogni foto o video che proveniva dalla rivolta di Sidi Bouzid e dalle manifestazioni nelle altre città la ripubblicavo immediatamente sul web, invitando la gente a manifestare la propria solidarietà ovunque. Il motore mediatico della rivoluzione, secondo me, era qui a Tunisi.
Usavamo YouTube, Twitter e soprattutto Facebook. Tutti potevano vedere con i propri occhi cosa stava accadendo realmente, cresceva la consapevolezza che la situazione non poteva andare avanti così. Facevamo decine e decine di eventi su Facebook invitando la gente a scendere subito in piazza, contribuendo all’esplosione della collera nella capitale. Mentre la televisione non diceva niente della rivolta, noi raggiungevamo il nostro obiettivo: le foto e i video fatti circolare dai mediattivisti arrivavano sempre a più persone. Il nostro ruolo, a quel punto, non era più solo diffondere le informazioni ma anche incoraggiare la gente a non avere paura.
Nei primi giorni della rivolta di Sidi Bouzid il grosso del cyberattivismo erano spontaneo, successivamente sono iniziate le collaborazioni per organizzare meglio le attività. Una sera a casa mia ci incontrammo con altri mediattivisti scambiandoci molti materiali da far circolare nel web, condividendo i link di informazione e tutti i lanci delle manifestazioni a nostra conoscenza. Poco dopo entrammo in contatto con altri gruppi tramite telefono o via chat. Nel frattempo vedevamo moltiplicarsi gli appelli alla rivoluzione… E alla fine possiamo dire d’avercela fatta! Riuscendo anche a battere il sistema di censura Ammar404 la cui potenza, secondo me, era in parte gonfiata dai media. In realtà non era così difficile sfuggire alla censura visto che nella censura c’eravamo nati! Ognuno sapeva come fare per aggirare Ammar404!
Dal 24 dicembre siamo scesi in campo fisicamente e non solo in rete, in quel momento iniziammo a mettere davvero in crisi il sistema. Quel giorno avevamo lanciato un nostro flash mob, utile per diversificare il tipo di azioni e soprattutto per incoraggiare la gente, per mostrargli che la paura non c’era più. Filmammo l’azione pubblicandola immediatamente su internet.
Il 25 dicembre abbiamo sperimentato la prima diretta web. Si trattava di un presidio di solidarietà a Sidi Bouzid, nei pressi della sede del sindacato, nel centro di Tunisi. C’era tantissima gente e noi per la prima volta trasmettevamo in diretta, mostrando al resto del paese cosa stava succedendo anche qui nella capitale.
Questo è stato uno dei nostri punti di forza rispetto alla censura e alla propaganda del regime: la decentralizzazione alla base della società della comunicazione e dell’informazione. Tutti producevano informazione e ricevevano informazione dal basso, generando una sorta di aggiornamento continuo e in larga misura spontaneo. La propaganda del regime invece era centralizzata da radio e televisione, ma nessuno le seguiva più. Tutta la gente era impegnata a condividere le informazioni online che raccontavano cosa stava succedendo realmente in Tunisia, invitando all’azione per sostenere la rivolta di Sidi Bouzid, for- nendo luogo e ora esatti di quel presidio o di quell’altro corteo. Ormai la televisione parlava da sola.
L’informazione ha aiutato l’organizzazione della lotta. Il lavoro di mediattivismo non era più solo fare e condividere foto o video ma anche divenire admin che, in prima persona, lanciavano eventi e pagine Facebook per manifestazioni di ogni tipo. I media e soprattutto i social network erano diventati uno spazio alternativo per organizzare la battaglia. Per capire meglio bisogna guardare a cosa è successo a Gafsa nel 2008 dove le grandi manifestazioni rimasero circoscritte alla regione perché le persone non riuscivano a comunicare con il resto del paese. L’esatto contrario di quanto accaduto con la rivolta di Sidi Bouzid. Perché? Una risposta potrebbe essere che nel 2008 in Tunisia non era ancora maturo questo spazio mediatico capace di unire la gente contro il regime, mentre nel 2010 un social network come Facebook ha giocato un ruolo decisivo. Grazie anche alle pagine web preesistenti dedicate alla musica, al calcio e al cinema che, dal giorno alla notte, si trasformarono in gruppi online per la lotta.
Un altro esempio lampante si vide dopo il 14 gennaio, subito dopo la fuga Ben Ali. Tornai a casa verso sera e connettendomi trovai migliaia e migliaia di persone online che discutevano di cosa era successo durante il giorno. Si cercava di trarre delle conclusioni dagli eventi di quella giornata.
La cosa più importante è che quella sera tutti dicevano che il giorno dopo bisognava uscire ancora a manifestare, ognuno lo diceva all’altro e così via. Durante i presidi della Casbah si sviluppò la stessa dinamica, ma l’organizzazione era migliorata. Fin da subito erano state allestite tende e gruppi di lavoro che si occupavano di media, internet e attivismo in rete.
Per prima cosa si filmavano i partecipanti al presidio, come se si trattasse di un video messaggio al paese o al mondo, inoltre venivano riprese le interminabili discussioni tra manifestanti e, una volta montato tutto il materiale, si pubblicava subito sul web. C’era una diretta continua dalla Casbah verso il resto della Tunisia. Tutti potevano ascoltare senza nessuna censura il discorso spontaneo di qualche manifestante o un appello all’azione. L’opposto di quanto facevano le tv mainstream tunisine che filmavano da fuori il presidio senza potervi entrare. Nei giorni della Casbah tra mediattivisti e mainstream non c’erano proprio relazioni: i manifestanti non volevano che le tv, le radio, e i giornalisti che avevano lavorato per Ben Ali potessero entra- re nel sit-in permanente. Nessma Tv compresa, la televisione privata che trasmette nel Maghreb e di cui Berlusconi è uno dei principali investitori.
L’ultimo giorno della prima Casbah Nessma Tv filmò la repressione con tutti gli operatori posizionati dal lato della polizia. Quando vennero trasmesse le immagini degli scontri i telespettatori non videro altro che manifestanti andare all’at- tacco dei poliziotti… ma non era così! I manifestanti si stavano difendendo dalle provocazioni e delle aggressioni delle forze dell’ordine.
Per colpa di Nessma andava in tv il contrario della verità. Fu veramente grave per la Tunisia post Ben Ali: era come tornare indietro! Solo grazie ai mediattivisti e a chi fortunatamente aveva con sé un cellulare con videocamera che fu filmata la verità. Sul web emerse l’altro punto di vista, esattamente il contrario di quello trasmesso in televisione!
Quelli di Nessma arrivarono al punto di intervistare un si- gnore che diceva: “I manifestanti stanno attaccando la polizia!”. Dopo qualche minuto lo stesso signore veniva smascherato in rete perché riconosciuto in alcuni video con la divisa da poliziotto.
Durante la prima Casbah il mainstream tentò in tutti i modi di screditare il movimento e le manifestazioni ma il mediattivismo riuscì anche questa volta a contrastarli.
Alla seconda Casbah non osarono nemmeno! Noi eravamo organizzati molto meglio e i giornalisti avevano capito che non gli conveniva fare la guerra. Dopo quelle dirette di Nessma nessuno in Tunisia si fidava più dell’emittente e in tanti la criticavano o l’attaccavano. Il lavoro sporco di Nessma Tv si conferma nel modo con cui riprese gli scontri del 27 febbraio sull’avenue Bou- rguiba. Era il giorno della grande manifestazione che rovesciò il governo Gannouchi, si sapeva benissimo che ci sarebbero state provocazioni da parte della polizia. Guarda caso tutti gli operatori dell’emittente erano già schierati insieme alle forze dell’ordine nei pressi del ministero degli Interni. La verità del regime, anche in quell’occasione, andò in onda. Non riuscì però a cambiare la situazione politica perché il racconto della repressione omicida di quel giorno in Tunisia veniva letto e ascoltato su internet! La manipolazione delle notizie aveva prodotto la totale sfiducia nei confronti di Nessma e non nel movimento, al punto che, dopo quella importante giornata di lotta, il secondo governo di transizione si trovò costretto alle dimissioni.
All’inizio fare mediattivismo era in molti casi un gesto spontaneo, d’altronde basta un cellulare per fare un video da pubblicare. Ora le energie iniziano a essere meglio organizzate e tendono al citizen journalism: nascono i primi siti “ufficiali” di informazione dal basso, web tv, laboratori di montaggio video e piccole radio come radio Ahl Al-Kahf. Ora che Ben Ali è fuggito sta nascendo una cultura del citizen journalism e del mediattivismo molto più elaborata rispetto alle origini, anche se rimangono molti dei vecchi problemi. Per esempio un ragazzo che aveva trasmesso in streaming la seconda Casbah e il primo tentativo di conquista della terza è stato arrestato, e agli admin dei gruppi della rivoluzione su Facebook, come Takriz, sono nel mirino della repressione che vuole limitare le loro attività, e lo stesso vale per il resto dei mediattivisti! Ancora oggi in Tunisia se non lavori per Nessma, per le tv nazionali o le radio ufficiali corri costantemente il rischio d’essere pestato o arrestato dalla polizia. Come se non bastasse si aggiunge un vuoto giuridico: per le leggi che organizzano i media, infatti, è come se non esistesse il media elettronico e chi lavora nell’informazione via web non è considerato giuridicamente un giornalista.
Il nostro lavoro va avanti comunque, affrontando questo e altri problemi forse più gravi. Uno degli obiettivi principali è diffondere la cultura del mediattivismo e colpire l’ignoranza o la leggerezza con cui vengono usate le nuove tecnologie informatiche. Vogliamo evitare che accadano episodi come quello di Ennahdha, un movimento islamista che, sfruttando la scarsa conoscenza informatica degli utenti, è riuscita a comprarsi le password di pagine Facebook con migliaia di utenti iscritti. Con un po’ di soldi hanno quindi trasformato una pagina che sosteneva un calciatore in una gruppo di propaganda politica! C’è un grande bisogno di formazione politica e tecnica o si rischia di perdere tutto quello che abbiamo ottenuto! Io, per esempio, mi sto impegnando nel tenere corsi di formazione per ragazzi che vogliono fare mediattivismo, magari partendo proprio dalla gestione di una pagina Facebook.
“La rivoluzione di Facebook” è una definizione sbagliata, e su questo voglio fare un discorso chiaro, molto chiaro: il social network ha avuto e ha un ruolo importante, ma questa è la rivoluzione di chi ha sofferto la povertà e la marginalizzazione. L’immagine della rivoluzione dei blogger, che va tanto di moda in Europa, non è vera! Mi sembra solo uno strumento per classificarla, distogliendo così l’attenzione dalle pesanti questioni messe in evidenza dai giovani di Sidi Bouzid, di Redeyef e di Gafsa. Da parte nostra, come mediattivisti, facciamo proprio il lavoro contrario, andiamo lì dove i problemi sono stati sollevati.
Ora sto lavorando a un progetto per installare delle radio locali a Sidi Bouzid e prossimamente organizzeremo dei corsi di formazione aperti a chi vuole costruire simili apparecchiature. È un lavoro importante per la Tunisia fatto in collaborazione anche con i network internazionali, tra cui l’Italia. Queste collaborazioni sono molto utili per scambiare esperienze che magari altri hanno già maturato da tempo. Non solo per le radio indipendenti, ma penso anche ai quotidiani web o cartacei, tutti strumenti in cui lo scambio di esperienze e saperi è indispensabile. In Tunisia adesso c’è bisogno di mezzi e spazi nuovi. Durante le giornate di gennaio si era creata una dinamica veramente creativa tra la popolazione, ora stiamo rischiando di ricadere nella merda. Per questo il lavoro del mediattivista è indispensabile, per chiedere alla società: “Dove siamo arrivati?”, “Cosa vogliamo?”, “Cosa possiamo fare per andare avanti?”. Adesso è il momento giusto per porre i problemi, far parlare e confrontare la gente sulle svariate questioni irrisolte, per esempio la richiesta di giustizia rivendicata dai familiari dei martiri della rivoluzione, e organizzare subito nuove manifestazioni. Ora dobbiamo essere più attivi di prima e porre con forza la grande domanda: “Cosa abbiamo ottenuto con la nostra rivoluzione?” e cercare insieme le risposte per tornare all’azione.
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