L’Italia “ripudia” la guerra ma guadagna su quelle degli altri
Di coerenza la politica italiana non ne vuole proprio sentir parlare, se poi la cosa riguarda la vendita di armi negli altri paesi, allora avanti tutta! I guadagni in questo settore sono talmente alti che si fa di tutto per evitare qualsiasi limite, anche quello imposto dalla legge 185 del 1990, che vieta la vendita l’esportazione e il transito di armamenti verso i Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia ripudia la guerra in casa, per il resto vale tutto, tanto che la vendita di armamenti a visto un aumento del 200% nel 2015, a fronte dei 2,6 miliardi di euro del 2014 si è arrivati ai 7,9 miliardi dello scorso anno.
La maggior parte delle aziende italiane coinvolte in questo tipo di mercato (Alenia Aermacchi, GE AVIO, Oto Melara, Piaggio Aero Industries e Industrie Bitossi oltre a ricavare profitto basandosi su vendite prodotte dalle guerre, sono di proprietà o partecipate dal Gruppo Finmeccanica. Il principale azionista è il Ministero dell’Economia e delle finanze, che grazie a più del 30% contro i residui 1/2 punti percentuali degli altri azionisti, di fatto determina l’andamento delle scelte economiche e politiche del Gruppo.
Il ricavato maggiore di queste aziende proviene dalla vendita di: l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica), la cantieristica navale ed i sistemi d’arma (missili, artiglierie).
Gli otto miliardi di euro provenienti dall’indotto guerrafondaio, coinvolge diversi stati: gli Emirati sono al comando della classifica con 304 milioni.
Invece verso l’Arabia Saudita il “made in Italy” autorizzato nel 2015 è salito a 257 milioni dai 163 milioni del 2014. Un aumento del 58% figlio in gran parte delle tonnellate di bombe aeree prodotte nello stabilimento sardo di Domusnovas della Rwm Italia S.p.a. e spedite via aerea e navale da Cagliari tra molte le proteste e denunce – anche alla magistratura – di pacifisti e parlamentari. L’elenco parla 600 bombe Paveway da 500 libbre (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 da 500 e 2000 libre (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 da 2000 libre (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro).
A questo si aggiunge il forte incremento del valore delle esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita che rientrano tra i programmi intergovernativi di cooperazione militare, saliti nel 2015 a 212 milioni dai 172 milioni del 2014. Il principale programma riguarda i cacciabombardieri Eurofighter ( iniziata alcuni anni fa) usati ogni giorno dalla Royal Saudi Air Force nei suoi raid in Yemen.
Segue il Bahrein con una curva crescente da 24 a 54 milioni e subito dopo il Qatar che è passato da 1,6 a 35 milioni, mentre il Kuwait si è aggiudicato 28 cacciabombardieri prodotti direttamente da Finmeccanica.
Lunga è la lista dei clienti internazionali. Uno dei clienti più importanti entrato a far parte degli acquirenti è l’Iraq, che avanza ben 14 milioni di euro per l’acquisto di armi leggere e munizioni firmate Beretta. La Russia accredita armi per un valore di 25 milioni di euro solo nel 2015, che nonostante il continuo embargo post-Ucraina riceve blindati lince dalla Fiat-Iveco. Il Pakistan che solo nel 2014 investiva 16 milioni è arrivato a bruciare 120 milioni all’anno. Anche gli egiziani ringraziano l’Italia e a quest’economia di morte per avergli fornito armi per il valore di 37 milioni di euro.
Ultima ma non meno importante è l’India che solo nel 2015 ha dichiarato un acquisto per 85 milioni di euro utilizzati soprattutto per reprimere la ribellione contadina naxalita.
La Turchia merita un’attenzione maggiore poiché l’investimento di 129 milioni di euro nel 2015, sta di fatto determinando la continua persecuzione del popolo curdo poiché esso viene costantemente bombardato dagli stessi elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica.
Si evince infatti un forte conflitto di interessi politici ed economici intrinsechi a questa terribile vicenda. Da un lato l’Europa “sostiene” di intervenire a solo scopo di mediazione del conflitto portando però solo ulteriore guerra e morte, dall’altro l’Italia contribuisce allo sviluppo del conflitto armando la Turchia.
Gli intermediari finanziari che intervengono per tali acquisizioni sono le banche e per quanto le più influenti rimangano per il momento quelle straniere quali Crédit Agricole e Deutsche Bank, l’affermazione di quelle italiane è importante. Intesa Sanpaolo (dal 2 al 7,4%), Unicredit (dal 9 al 12%). A seguire con percentuali inferiori Bnl, Ubi ed un ampio numero di popolari tra cui l’Etruria, addirittura le Poste Italiane. Degna di menzione la Banca Ubae, controllata dalla Libyan Foreign Bank (specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia) dove tra gli azionisti figurano Unicredit, Intesa Sanpaolo, Montepaschi ed Eni. Un esempio questo di una trasversalità di interessi, dalle armi al petrolio.
Le decisioni prese dal Governo Renzi sono tutt’altro che di pace e di risoluzione dei conflitti, nonostante vengano spesso sbandierati sia da lui che dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quest’ultimo nel ruolo di Ministro della Difesa aveva duramente denunciato lo svuotamento della legge 185/1990, durante il mandato del ’99 dell’allora governo Dalema-Amato, proprio in merito a questo tipo di accordi intergovernativi stipulati nel campo della difesa e dell’import-export dei sistemi d’arma che permettono di raggirare la legge. Consentendo così il continuo bombardamento da parte del regime saudita ai danni dello Yemen: ospedali, scuole e città (tremila vittime di cui un quarto di bambini).
In conclusione la solita immagine del Bel Paese democratico che ripudia la guerra, ma sempre e solo all’interno dei propri territori, perché all’estero invece tutto pare essere lecito: questo è Renzi, questa la parte che gioca insieme al suo entourage.
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