Lo sgombero di Degage: il funerale dei (nostri) diritti
Mentre la banda intonava le note dolci-amare de “Il Padrino” e grandi striscioni rendevano omaggio al “re di Roma”, la pomposa scenografia barocca dell’evento funebre iniziava a disturbare i teofori della platonica compostezza occidentale, quella stessa fobia nei confronti dei corpi che, se già nella Grecia antica portava i filosofi a stigmatizzare il pianto straziante delle prefiche, oggi riserva il termine “dignitoso” soltanto per una classe altoborghese che, più che vivere e/o esternare le proprie emozioni, sembra impegnata a infilarsi su per il culo manici di scopa sempre più grossi.
Il discorso è complesso, quello che è sicuro, in ogni caso, è che non importa se sei negro, zingaro od occupante di case: potresti rischiare persino di essere tollerato purché tu viva nella più completa indigenza, portando la tua scodella davanti alla Caritas e interiorizzando il ruolo del poverino, dell’accattone o del “negro da cortile” (così definiva la situazione Malcom X) che i signori abituati a baciare in bocca i boss mafiosi, coloro che gestiscono la cosa pubblica (cioè la cosa loro) e/o i grandi centri per l’emergenza abitativa per conto degli appositi comitati d’affari (quelli a cui appartiene tutto), hanno previsto per te.
Rispetto a simile gentaglia, quelli a cui, come accade all’ex ministro Maurizio Lupi, facoltosi imprenditori non vedono l’ora di regalare massicci orologi d’oro… di fronte a questa piccola massa di fedeli pronti a genuflettersi davanti all’altare della Compagnia delle Opere di Comunione e Liberazione e capace persino di mettere le mani al portafoglio se si tratta di foraggiare, comprando una pagina del Corriere della Sera, l’andazzo del governo Renzi insieme alle sue privatizzazioni (leggi: espropri ai danni del popolo)… ecco, rispetto alla faccia (da culo) di simili personaggi i funerali di Don Vittorio – succede quando il livello di partenza è affine alla disperazione – sono paragonabili a un piacevole refolo di aria fresca, sprigionata dall’ennesima contraddizione in seno alla gestione del potere, questa volta emersa proprio grazie al gusto chiassoso del clan Casamonica, colpito dal lutto per la perdita di Don Vittorio.
A disagio di fronte all’inchino organizzato a Don Bosco, in una chiesa che non manca mai di trasformarsi in comoda garçonnière per chi davvero conta qualcosa, la stessa gestione politico-amministrativa romana e nazionale che ha prodotto, tra le tante altre belle (si fa per dire) cose, il sistema noto come “Mafia Capitale”, ha reagito con feroce durezza: l’elicotterista che ha lanciato i petali sul feretro è stato privato della licenza di volo, al cocchiere hanno sequestrato la livrea mentre i cavalli venivano torchiati per bene, per capire fino a che punto fossero complici dello scandalo…
L’osservazione della realtà dimostra che chi ha la faccia come il culo paga questa sovrabbondanza anatomica con la perdita del senso del ridicolo, niente di più naturale dunque che l’affaire Casamonica andasse avanti… come?
Prima di tutto, naturalmente, iniziando a gridare come ossessi il mantra “legalità! legalità!”… e le urla dovevano avere un tono forzatamente alto, considerando che se di legalità di vuole parlare è difficile farlo avendo negli occhi una famosa fotografia, quella in cui, comodamente seduti al tavolo di un bel ristoranti, pronti a farsi una panza come una capanna, sono accomodati proprio insieme a un illustre esponente del clan Casamonica nell’ordine (e tra gli altri): il ministro del lavoro Giuliano Poletti (quello che con il suo Jobs Act ha deciso che da oggi in poi si lavora gratis), l’ex assessore alla casa del comune di Roma Daniele Ozzimo (indagato per corruzione), l’ex ad di Ama, la compagnia municipale della raccolta dei rifiuti, Franco Panzironi (condannato a cinque anni per la vicenda clientelare di “parentopoli).
Tra i commensali, insieme al buon Salvatore Buzzi, uno dei vertici di Mafia Capitale, non poteva mancare un altro indagato eccellente, l’ex sindaco Gianni Alemanno, il numero due di un partito, “Fratelli d’Italia”, la cui leader, Giorgia Meloni, afferma senza problema alcuno: “Il funerale sceneggiata andava semplicemente impedito. Invece fonti del Campidoglio hanno fatto sapere che il Comune “non era al corrente”. Che strano… Nessun cedimento, da parte nostra, contro questa gente ma anche contro chi la spalleggia nelle Istituzioni. Di qualunque colore politico sia”.
La faccia come il culo, si potrebbe chiosare parafrasando il don Abbondio de “I promessi sposi”, se uno non ce l’ha non se la può dare… allora tanto vale continuare a gridare ancora più forte: “Legalità! Legalità!”.
Lo fa, per esempio, il preposto assessore Alfonso Sabella, dichiarando che il funerale: “Certamente si poteva e si doveva evitare. Se non si è evitato è perché Roma non ha ancora gli anticorpi necessari per comprendere e prevenire cose di questo tipo: l’esistenza della mafia è stata negata fino a pochissimo tempo fa”.
Alla stessa maniera, si potrebbe far notare a Sabella, che anche le pareti insanguinate di Bolzaneto, dove i suoi uomini, nel corso del G8 genovese del 2001, si abbandonarono, parola di Amnesty International, “alla più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” (e quindi dopo i campi di concentramento di Hitler…), vengono ancora tranquillamente negate. E, strana ironia della sorte, lui è stato nominato addirittura “assessore alla legalità”, mentre altre persone stanno scontando condanne a dieci anni, colpite dalla mirabolante accusa di avere rotto una vetrina…
Miracoli della faccia come il culo unita alla forza del grido di battaglia “legalità! legalità!”, fatto immediatamente proprio anche dal neo assessore ai trasporti Stefano Esposito, uno talmente legalitario da avere difeso a spada tratta le molestie sessuali subite da una ragazza in Val di Susa, un vero e proprio campione, capace di trasformare le connivenze tra amministrazione e il clan Casamonica in un problema di case popolari occupate “abusivamente”: “Entro 15 giorni controlli sugli affitti dati a tutti gli appartenenti alla famiglia”, promette Esposito. Ma non dice affatto chi è che avrebbe concesso queste case: forse per paura di tornare a mostrare gli stessi personaggi (e chissà quali altri nelle stanze dei bottoni…) a cena con Casamonica e immortalati nella foto già citata?
In verità, “del maiale non si butta via niente”, deve aver pensato il legalitario Esposito. A patto di considerate che in tutta questa vicenda il famigerato maiale non rappresenta affatto il tradizionale volto dei governanti, al contrario, il maiale è il corpo vivo del disagio sociale romano: una macchia d’olio sempre più vasta, in grado di avvolgere studenti, disoccupati, precari e sottocupati in una totale assenza di futuro e di costringerli a una vita sempre meno degna in una città come Roma, il luogo dove perfino la speranza di prendere un autobus si trasforma in lotta per il potere, nel senso che davvero soltanto a provare a prendere la metropolitana diventa evidente che dopo mezzo secolo di furti, ritardi e cazzate varie, in questa città o si va a piedi o si fa la rivoluzione…
Del maiale, dunque, non si butta via niente. E allora perché non approfittare dello scandaletto Casamonica per regolare i conti con chi, a Roma come altrove, non ha mai accettato di piegarsi alla rassegnazione di una vita da sfollati e ha reagito con spettacolari prove di riappropriazione collettiva di beni pubblici, occupazioni abitative e organizzazione dal basso di un fermento sociale deciso a continuare a essere quel movimento reale che cambia lo stato di cose presenti?
Infatti, rispetto alla promesso di Esposito, dalle sue dichiarazioni (23 agosto) di giorni ne sono passati solamente due e cosa succede?
Succede che l’indignazione nei confronti dei funerali hollywoodiani di Vittorio Casamonica diventa indignazione contro gli “abusivi” e che, soffiando sulla brace della “legalità”, la prefettura ha finito per muoversi: forse contro qualche politico responsabile degli inciuci con gli stessi Casamonica o di altre peggiori efferatezze?
Certo che no!
Altrimenti a cosa serve la faccia come il culo?
La realtà infatti è proprio questa. Sono stati minacciati il fuoco e le fiamme ma il primo e unico provvedimento preso a Roma dalla Prefettura dopo lo scandalo di quel funerale è stato, questa mattina, all’alba del 25 agosto, lo sgombero dello studentato occupato in via Musa da Degage – Casa per Tutti: quaranta studenti-lavoratori presi di peso insieme alle loro poche cose e buttati in mezzo alla strada, dove sono tutt’ora. Sempre nel nome della “legalità” (c’è nessuno al comune di Roma che si sia speso per il diritto alla studio alla casa? Ovvio che no!).
Ovviamente, per la fregola dello sgombero che ha assalito la Prefettura romana, braccio armato della guerra contro i poveri combattuta con alacrità da Renzi (il prefetto è un suo uomo, non va dimenticato), non è contato assolutamente nulla che: 1) lo stabile di via Musa sia stato inserito alla fine del 2013 in una delibera regionale che si impegnava ad arginare l’emergenza trovando soluzioni – cioè case popolari! – per tutte le occupazioni abitative romane; 2) lo stabile di via Musa sia al centro di una poco chiara operazione di compravendita che ha riguardato la defunta provincia di Roma e il fondo Upside della Paribas (sull’argomento inutile dire che è in corso un’inchiesta della magistratura…).
Seppellita ogni idea di giustizia, dunque (altro che “legalità”), di questa triste mattinata di sgombero, insieme alla convocazione per le 17 di un’assemblea pubblica presso lo spazio “Tre Serrande”, nella città universitaria, a cui spetta il compito di rilanciare la lotta, restano alcune scene memorabili. Un milite che urla “c’è una ragazza nuda! c’è una ragazza nuda!” quando fa irruzione alle sei del mattino in una stanza dello studentato occupato (lui dorme forse con il cappotto ad agosto?); un ambulanza che arriva per ricoverare al policlinico un ragazzo collassato per lo shock dello sgombero; alcuni giovani classificati come “extracomunitari” e attualmente a rischio CIE per irregolarità nel permesso di soggiorno; la paura di chi a Roma è espulso da qualunque idea di mercato in rapporto al diritto alla casa e ora ha davanti agli occhi immagini di celerini armati di tutto punto che pisciano nei lettini dove fanno dormire i figli e distruggono ogni cosa.
Ma è proprio da questa paura, in realtà, che è necessario ripartire: con chi ha la faccia come il culo, infatti, non c’è logica che tenga mentre la rabbia liberata nei loro confronti è senz’altro più efficace. Questa è la materia prima con la quale ricostruire rapporti di forza favorevoli all’insorgenza popolare, altrimenti il celerino è già lì che aspetta agitando il manganello in attesa di nuove albe e, inevitabilmente, di altre famiglie da sgomberare. Ma questo non è certo tutto, e non è soltanto di lotta per la casa che si sta parlando, anzi. Perché sarebbe ingenuo pensare che il funerale più spettacolare a cui stiamo assistendo sia quello tributato a Don Vittorio, pace all’anima sua. Il funerale che ci tocca, cioè il nostro funerale!, è quello a cui la cricca piddina sta sottoponendo tutto ciò che possa puzzare di bene comune, di welfare e di diritti sociali. E voi, ora che la scuola è stata azzerata, la sanità resa di fatto a pagamento, l’acqua ceduta ai privati, la possibilità di avere un tetto sulla testa affidata alla sola possibilità economica delle famiglie, il territorio sventrato da ogni genere di opere inutili e dannose (a chi le trivelle, a chi le discariche, a chi le radiazioni dei ripetitori, a chi i gasdotti, a chi le linee ad alta velocità)… non vi siete accorti di essere stati invitati?
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(*) Zadruga: Istituzione di carattere gentilizio che si incontra presso gli Slavi meridionali fin dall’epoca anteriore al loro stanziamento nei Balcani (sec. 6° e 7°). Può definirsi come una comunità rurale di vita, di beni e di lavoro tra famiglie e persone legate da un vincolo di parentela, che riconoscono l’autorità di un unico capo (kućegospodar, starješina, domaćin). Persona morale di diritto privato, questa comunità ha costituito la base del diritto di famiglia degli Slavi meridionali; sul finire del 19° sec. le z. erano composte da 20 a 30 membri. Stretta dagli sviluppi economici e sociali contemporanei (rapporti capitalistici nelle campagne, economia monetaria, specializzazione agricola), l’istituto della z. si è formalmente esaurito all’inizio del 20° sec., anche se alcuni studi antropologici contemporanei (R. Hammel, Alternative social structure in the Balkans, 1969) ne hanno dimostrato la vitalità ancora a metà degli anni 1960.
testo tratto da armati.info
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