Mobilitarsi per il comune: alcune lezioni dall’Italia
Al di là delle spesso stucchevoli polemiche sorte nel post 12A, Roos legge infatti la sostanziale innovatività ed il piano della sfida che il processo in corso in Italia pone. A differenza di altri contesti, nei quali si sono verificate “esplosioni” sociali tendenzialmente inaspettate, nella penisola viene invece configurandosi il tentativo di comporre le lotte sociali e le esperienze di organizzazione autonoma per costituire uno spazio di movimento antagonista. Uno spazio strutturato, sostiene Roos, a partire dall’individuazione di alcuni elementi di vertenzialità che si danno immediatamente come terreni di rottura: in primo luogo quelli della casa e del reddito. Interessante al riguardo notare come egli legga questi elementi entro una cornice che li riporta ad una lettura dei commons che echeggia molto la concezione che emerge dal recente articolo che abbiamo pubblicato su Infoaut, e come de facto l’idea che Roos propone di common sia estremamente affine a quello che in Italia definiremmo come autonomia. Inoltre l’autore propone anche una lettura della lotta sulla casa molto stimolante, legandola all’ultimo libro di Harvey.
In conclusione, pur non condividendo tutti i passaggi dell’articolo (ad esempio la griglia di lettura un po’ banalizzante sulla composizione pacifica vs militante, che comunque essendo posta nei termini di differenti tattiche non ricalca il modo nel quale essa viene usualmente presentata in Italia; o ancora l’uso del termine alleanza, che non a caso l’autore usa per indicare come lo spazio di movimento aperto dalla Sollevazione consenta a tutti di mantenere le proprie pregresse identità, mentre siamo convinti che l’accostamento di differenti settori sociali e pratiche stia invece producendo un produttivo meticciamento che tende a mettere in discussione e scavalcarle… E che la forza di questo percorso stia proprio nel non definire a tavolino fra gruppi politici le scadenze ma nel dialogo che si insatura tra lotte sociali. Ciò che chiamiamo una politica di composizione delle lotte…), riteniamo utile una sua lettura appunto perché, da fuori le per lo più piccole e sterili beghe italiche, ci pare renda giustizia di un processo importante che sta superando molte delle empasse presenti in altri contesti e che per la prima volta è in grado di costruire progetto oltre le singole scadenze autunnali… Buona lettura.
La protesta di sabato a Roma è stata l’ultima di una serie di azioni attorno ad un progetto comune. Cosa può imparare chi si organizza altrove dai movimenti italiani?
Decine di migliaia di manifestanti hanno sfilato per Roma questo sabato per denunciare le misure di austerità e le riforme economiche del nuovo governo di Matteo Renzi e per ribadire il loro appello a reddito, casa e dignità per tutti. A decine sono stati feriti al momento dello scoppio di scontri verso la fine del corteo, con la polizia che ha violentemente caricato in mezzo alla folla, colpendo indiscriminatamente i manifestanti e calpestando chiunque si fosse venuto a trovare in mezzo. Ciò che la polizia non ha potuto calpestare, tuttavia, è stata la determinazione dei movimenti ad aumentare il livello della propria resistenza nella scia della sollevazione generale dello scorso ottobre, che portò centomila persone nelle strade di Roma.
Gli eventi di sabato sono particolarmente degni di nota per due motivi: innanzitutto, i movimenti italiani sono stati piuttosto scialbi nella risposta alla crisi europea del debito al suo insorgere nel 2010-11. Al di là di una gigantesca manifestazione a Roma il 15 ottobre 2011, velocemente degenerata nella violenza incondizionata, l’ondata indignados-Occupy ha sostanzialmente bypassato il paese, persino nel momento in cui un governo tecnico non eletto capeggiato dall’ex-consigliere di Goldman Sachs Mario Monti ha preso il potere. Questa storia recente, piuttosto ambivalente, rende le attuali mobilitazioni ancora più importanti; specialmente dato che da allora le crisi degli alloggi e della disoccupazione si sono significativamente approfondite.
Il secondo motivo per cui dovremmo prestare attenzione all’Italia, tuttavia, colpisce molti in maniera più ravvicinata. La protesta di sabato è avvenuta oppostamente ad un riflusso di relativa smobilitazione nel resto dell’Europa e del Nord America. Proprio quando altrove i movimenti anti-austerity sembrano battere in ritirata, i movimenti italiani stanno gradualmente incrementando la propria resistenza. Il che suscita una domanda interessante: c’è da imparare qualcosa dai processi di base ora in atto in Italia? Credo che la risposta sia sì – e penso che dovremmo prestare particolare attenzione alla composizione sociale allargata ed al “progetto comune” che sottende a questi processi di base.
Rilanciare la Resistenza
Ma facciamo un passo indietro per iniziare. La scorsa settimana, ho citato brevemente una serie di sfide che i movimenti internazionali affrontano nella propria fase attuale di relativa smobilitazione. Ho ipotizzato che alcune delle principali ragioni per la “mancanza di protesta” oggigiorno abbia a che vedere con (1) l’ atomizzazione sociale indotta dalla natura crescentemente precaria del lavoro nella crisi e sotto il capitalismo finanziarizzato più in generale; (2) gli effetti insulanti dell’ansietà generata dalle richieste neoliberaliste di connessione costante e di produttività permanente, combinate con la repressione poliziesca e la sopracitata ascesa della precarietà; (3) lo schiacciante senso di inutilità provato da ampie fasce di popolazione. A questi fattori, un lettore ha giustamente aggiunto lo sfinimento fisico e mentale derivante da forme di attivismo insostenibili.
Ora, se i movimenti sono interessati a rilanciare la resistenza altrove, credo che debbano trovare modi di prendere direttamente di mira questi fattori interconnessi – ed i movimenti italiani possono fornirci almeno un indizio su dove iniziare: sedendoci assieme e stilando con attenzione un progetto comune dietro al quale eterogenei gruppi politici, movimenti autonomi ed individui isolati possano unirsi. Ciò che occorre è un singolo striscione in grado di sostenere un’ampia alleanza popolare dietro un insieme di obiettivi e principi condivisi. In Italia si fa riferimento a questo progetto come a una sola grande opera: casa e reddito per tutti. Questo progetto a propria volta si fonda su di un decennio di esperienze locali di organizzazione riguardo al “diritto del comune” (per un’utile introduzione sull’argomento, consultate questa conferenza di Michael Hardt).
Mobilitarsi per il Comune
Il concetto del comune ha acquisito popolarità in anni recenti presso le cerchie di attivisti in giro per il mondo, ma forse sta venendo esplicato più chiaramente nel ciclo di lotte che si sta ora dando in Italia. Come il mio amico e compagno ricercatore all’EUI Alfredo Mazzamauro ha segnalato più addietro nell’anno in un eccellente articolo per ROAR , la cosa notevole della sollevazione generale del 19 ottobre 2013 è stata esattamente il fatto che abbia oltrepassato le linee divisorie che hanno per tanto tempo lasciato la sinistra italiana ed i suoi movimenti sociali divisi ed in lotta tra di essi. E’ stato in larga parte per mezzo dell’individuazione di un nemico comune (il capitalismo neoliberale) e la formulazione di un progetto comune (rispetto al reddito e all’abitare) che questi eterogenei gruppi abbiano potuto unire le forze ed ora inizino ad elaborare una strategia politica autonoma dal basso.
Che questa narrazione sia imperniata sostanzialmente sull’abitare ed il reddito non è una coincidenza: il 40% dei giovani italiani è attualmente senza lavoro e nel solo 2013 circa 68.000 famiglie hanno ricevuto notifiche di sfratto, il 90% delle quali per il mancato pagamento del proprio affitto o mutuo in conseguenza di un reddito insufficiente. Ma il grido di adunata per il reddito e l’abitare non è semplicemente una supplica moderata e riformista davanti ad una crisi devastante. Quando i manifestanti a Roma reclamano il reddito, la maggior parte di essi si riferisce al reddito di base incondizionato; e quando parlano dell’abitare vi fanno riferimento non semplicemente come ad un diritto umano, ma come a un bene comune. Perciò i movimenti non stanno semplicemente rivolgendo una richiesta al governo. Piuttosto, stanno ribadendo la finalità rivoluzionaria di separare il bisogno umano di rifugio e sostentamento dalla dipendenza sociale sul lavoro e lo scambio salariato. Ciò costituisce una re-immaginazione radicale del valore in sé e per sé.
Reddito di Base, Alloggi Popolari
La formulazione dell’alloggio come bene comune e del reddito come beneficio universale ha dunque la potenzialità di espandere assai i nostri orizzonti politici. Innanzitutto, il concetto di reddito di base frantuma l’idea sfruttatrice che le persone comuni debbano vendere la propria forza lavoro a qualche essere umano più fortunato (il proprio datore di lavoro), semplicemente per sopravvivere. Riconosce il fatto che le nostre società (almeno in Europa e Nord America) abbiano accumulato nelle epoche un capitale più che sufficiente per soddisfare almeno i bisogni minimi di un modesto sostentamento per tutti. E fornisce un’alternativa concreta per combattere il profondo senso di ansia creato dalla precarietà lavorativa. Non facciamo errori: rompere la dipendenza dal lavoro salariato per le necessità di base avrebbe profonde implicazioni di trasformazione per le relazioni sociali e la natura della vita quotidiana.
In secondo luogo, come David Harvey ha ripetutamente indicato negli anni recenti (inclusa la sua ultima conferenza alla LSE), il concetto dell’alloggio come bene comune possiede implicazioni similarmente radicali per il livello fondativo dell’economia capitalista. Rompendo la contraddizione tra il valore d’uso ed il valore di scambio, l’alloggio come bene comune riconosce il valore superiore del bisogno basilare di riparo e sicurezza rispetto al valore improduttivo e completamente fittizio dell’investimento speculativo nel mercato immobiliare. In quanto tale, si sbarazza dell’idea fondamentalista di mercato secondo la quale una casa sia innanzitutto un valore di scambio; una convinzione profondamente irrazionale, che ha prodotto un mondo in cui milioni di persone senza casa sono sedute fianco a fianco con milioni di case senza gente.
Costruire Alleanze Ampie
In Italia, inquadrare la lotta esplicitamente in questi termini ha permesso la costruzione di un’ampia alleanza che raggruppa alleati improbabili come i movimenti degli squatter e dei centri sociali delle grandi città ed il radicalmente autonomo movimento no-TAV (che lotta in difesa delle comunità locali e dei commons ambientali contro la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità attraverso la Val Susa) con i lavoratori precari del settore della logistica e gli italiani e migranti disoccupati che rischiano di essere sfrattati dalle loro case. Come scrive Alfredo Mazzamauro “[questi gruppi] hanno evidenziato assieme il contrasto nello spendere oltre 26 miliardi di euro di soldi pubblici per la costruzione di una linea ferroviaria – che destabilizza intere comunità e che rappresenta un beneficio opinabile per le classi a basso reddito nella regione – mentre contemporaneamente si rifiuta di allestire un piano di emergenza per risolvere la crisi abitativa.”
Simili ampie alleanze sono venute brevemente in essere altrove nel corso del 2011, ma in molti casi non si è potuto tenerle assieme, avendo queste rapidamente esaurito la propria energia negativa, fallendo per la maggior parte l’articolazione di una visione condivisa e di un progetto politico concreto a cui i manifestanti potessero aderire positivamente e continuare ad organizzarvisi attorno. Nell’assenza di un tale progetto comune, le alleanze del 2011 hanno assunto, per la maggior parte, una forma piuttosto effimera o transiente: è stato identificato un nemico comune (Mubarak, Wall Street, Erdoğan), ma oltre alla cruciale reinvenzione dell’assemblea popolare, pochi passi sono stati intrapresi per costruire un immaginario politico alternativo ed una strategia rivoluzionaria di lungo termine.
Diversità delle Tattiche
Sviluppare un tale progetto politico comune non è la stesso che stipare la moltitudine di forze sociali ed immaginari politici in una singola struttura unificata. Cosa più importante di tutte, non riguarda l’elaborazione di un partito politico dal mosaico dei movimenti sociali, come gli esponenti della sinistra più tradizionale insistono che si dovrebbe fare. Piuttosto, l’esempio del movimento italiano è istruttivo perché mostra come varie tendenze di sinistra possano mantenere assieme un’alleanza con successo rimanendo leali alle proprie convinzioni politiche. Alcuni elementi dentro i movimenti perseguono il lavoro politico, organizzandosi in partiti (sia pre-esistenti che nuovi), mentre altri elementi sottolineano la propria autonomia (sia moderata che radicale) dal sistema politico, concentrandosi piuttosto sulla costruzione di istituzioni alternative dal basso.
A questo proposito, andrebbe nuovamente sottolineato che un progetto comune non è lo stesso che un programma politico. Reclamare casa e reddito per tutti non è lo stesso che chiedere casa e reddito per tutti. Anzitutto, in pochi tra i manifestanti romani sarebbero così ingenui da credere che il governo Renzi possa mai implementare rivendicazioni talmente radicali. Questo è il punto in cui la diversità delle tattiche resta assai importante: per realizzare sia obiettivi immediati che di lungo termine, i movimenti devono essere strategicamente determinati ma tatticamente flessibili. L’azione diretta del movimento degli occupanti di case, ad esempio, sta già liberando spazi abitativi per le persone che sono state sfrattate dalle proprie abitazioni e che non possono permettersi di aspettare una riforma o rivoluzione futura. Nel frattempo, l’organizzazione più a lungo termine di altri gruppi può gettare le fondamenta per vittorie di più ampia scala attraverso canali maggiormente collaudati – come avvenuto con la clamorosa vittoria dei movimenti nei referendum del 2011, in cui il popolo italiano ha respinto in maniera schiacciante la privatizzazione dell’acqua, un altro bene comune.
Diversità delle tattiche vuol dire inoltre che gli attivisti più militanti non debbano mettere a repentaglio la sicurezza e l’integrità dei manifestanti pacifici (come fecero durante le controproducenti azioni militanti del 15 ottobre 2011), mentre i pacifisti del movimento dovrebbero allo stesso tempo lasciare spazi per l’azione militante e tattiche più aggressive. In Italia, questo strutturarsi informale di una diversità delle tattiche entro l’alleanza più ampia di forze sociali ha portato ad un interessante rovesciamento. Nell’ottobre 2011 i militanti coinvolgevano sconsideratamente i manifestanti pacifici negli scontri violenti con la polizia, mentre i manifestanti pacifici arrestavano spudoratamente i militanti e li consegnavano agli stessi poliziotti. Nell’ottobre 2013, al contrario, i militanti resistettero al Ministero dell’Economia e protessero la maggioranza pacifica dall’assalto della polizia. Il giorno successivo, la maggioranza pacifica si allineò dietro gli elementi più militanti per reclamare il rilascio di sei attivisti arrestati durante gli scontri. Questo è il modo in cui un movimento serra i suoi ranghi e disarma effettivamente la tattica del divide et impera dell’apparato ideologico e repressivo dello stato.
Adattarsi al Contesto
Non occorre dire che ciascun movimento emerge nel suo contesto peculiare, ed avrà perciò bisogno di concepire le sue particolari narrazioni, tattiche e strategie per costruire ampie alleanze attorno al bene comune. Ci sono segni promettenti che questo stia già iniziando ad accadere in alcuni luoghi. In Europa e Nord America, i movimenti spagnoli sono probabilmente i più avanzati sotto questo punto di vista. Prendete l’esempio ispiratore della Piattaforma delle Vittime delle Ipoteche (PAH) che ha raggruppato attivisti ed avvocati stagionati assieme a migranti, lavoratori e sfruttati – e che combina l’azione diretta (bloccando i pignoramenti immobiliari, occupando uffici bancari ed organizzando escraches davanti alle case dei politici) con tattiche di pressione più tradizionali per respingere le leggi anti-sociali o far passare proposte di legge in difesa dei proprietari di case. Allo stesso tempo, la PAH lavora in stretta cooperazione con altri gruppi e movimenti entro le varie coordinadoras nazionali. Come “la sola grande opera” in Italia, la PAH propone di considerare l’alloggio come un diritto umano ed un bene comune, ed in maniera simile rivendica un reddito di base.
In Nord America ed altri paesi europei, alleanze simili sono possibili finché gli attivisti riescono ad identificare le cause comuni su cui si può far leva per riunire gruppi di persone eterogenee che altrimenti non parlerebbero la stessa lingua politica e non sarebbero molto inclini a lavorare assieme. Il trucco è quello di identificare i punti deboli del sistema e localizzare le rimostranze quotidiane al centro dei nostri mali sociali e le basi per la riproduzione giornaliera del capitalismo. Questo permetterebbe ai movimenti di sfidare le relazioni di potere fondanti del sistema attraverso interventi altamente mirati i cui impatti possano essere avvertiti direttamente – si pensi ai movimenti a Cochabamba che hanno vinto le guerre dell’acqua boliviane, ad esempio. Vale la pena di notare che alcune di queste idee stanno già informando le lotte altrove. Come Risparmia Acqua Grecia, la campagna antiprivatizzazione ad Atene.
Ovviamente non dobbiamo leggere troppo addentro all’esempio italiano. Se i processi dal basso sembrano promettenti, la sinistra italiana sta ancora – come altrove – sta combattendo una battaglia difensiva contro un’offensiva neoliberale schiacciante. Tuttavia, mi sembra che vi sia un messaggio importante: forse un modo di superare la paralisi in cui molti movimenti ora si trovano sarebbe quello di iniziare creare una visione molto più chiara di dove vogliamo andare. Alcuni chiameranno questa visione anarchismo, altri potrebbero chiamarla socialismo o comunismo, e molte persone probabilmente non vorranno dargli alcun nome. Ma finché non iniziamo a tradurre questi concetti controversi in obiettivi concreti che possano effettivamente riunirci, piuttosto che ad astrazioni dogmatiche che continuano a dividerci, potrebbe trattarsi semplicemente di un utile primo passo nel superamento delle nostre infinite differenze, allargando i nostri orizzonti politici e riguadagnando un senso di orientamento per i duri anni che più avanti ci attendono.
Jerome Roos, 14 Aprile 2014
L’autore è candidato PhD in Economia Politica Internazionale allo European University Institute e fondatore della rivista ROAR.
Traduzione a cura della redazione di Infoaut.org
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