Non avrai altra politica al di fuori dello spettacolo
In ordine logico, quello che ordina la comprensione dei fenomeni, le questioni possono essere analizzate solo analizzando il problema del rapporto tra politica e spettacolo. E qui, lo diciamo con franchezza come con enorme rispetto per le analisi dei compagni, un equivoco a livello di movimento va tolto una volta per tutte. Quello che vuole, ancora oggi dopo vent’anni di berlusconismo e di sviluppo di una società globale delle comunicazioni ad alta complessità, che lo spettacolo sia una funzione politicamente e socialmente sovrastrutturale. A tenere in vita questo equivoco contribuiscono delle vere e proprie paludi concettuali tenute assieme dalla forza residua del pensiero critico ma non dalla comprensione del funzionamento del mondo capitalistico. La prima sta sicuramente in un tutta una serie di interpetazioni di Debord, di fatto le più diffuse, decisamente esoteriche che hanno così reso impraticabile un uso dei suoi concetti per l’analisi funzionale del rapporto tra politica e spettacolo. Debord stesso ha contribuito in questa direzione, non solo per la forma esclusivamente assertiva e non analitica di affermazioni importanti, ma anche per una visione entropica dell’ultima parte del suo pensiero. L’idea del compiersi dell’epoca dello spettacolare integrato, espressa nei Commentaridella fine degli anni ‘80, ci rende un Debord che celebra la resa al dominio della politica dello spettacolo del capitale. Per cui politica, spettacolo e capitale non solo sono un fenomeno uno e trino ma divengono anche la direzione storica del declino del mondo. In questo senso parlare di spettacolo assume il solo significato di riflettere attorno ad una dimensione inautentica della vita sociale e, per di più, a diretto servizio dell’assoggettamento capitalistico.
In questo modo si corre in parallelo con il lascito francofortese delle analisi degli anni ’40 e ’50 sull’industria culturale. Si prendono così come referenti culturali immediati gli anatemi contro la società del loisirdella sinistra di movimento tedesca nata attorno al ’68. Anatemi che più che aiutare a comprendere il rapporto tra politica e spettacolo, nelle società capitalistiche, tendono a censurarlo in termini morali e ad aggredirlo nel solo linguaggio critico. Ma non dimentichiamo, specie se leggiamo Adorno, che gratta gratta nei francofortesi è presente una lettura delle società capitaliste in termini di declino. Per cui, e non solo in Adorno, lo spettacolo e l’industria culturale sono indice di una fase della civilizzazione, non tanto quella capitalistica ma proprio la civilizzazione tout court, dove dominano l’inautentico, la disgregazione dell’esperienza, la banalizzazione dei rapporti sociali. La politica, solo separandosi dallo spettacolo, in questa visione può avere un ruolo socialmente emancipatore. In questo senso le realtà di movimento, proprio perché oppongono la “politica dal basso” a quella del dominio che è “politica spettacolo”, possono trovarsi istintivamente su posizioni francofortesi nella convizione di poter spezzare quella catena di dominio evidenziata da Debord (fatta di spettacolo, politica e capitale). Il problema emerge però quando, nella quasi totalità dei casi, la “politica dal basso” si trova ad essere minoritaria rispetto alla “politica spettacolo”. In questo modo, alla registrazione della sconfitta politica si sovrappone l’idea che il tipo di civiltà vittoriosa si trovi in un declino che, assieme a sé, trascina nella disgregazione vincitori e vinti. Sconfitta politica e resa nichilistica si fondono in questo modo con un’accentuata velocità. Accellerata percettivamente dal carattere temporaneo, per non dire solubile all’istante, dei movimenti che evaporano velocemente a contatto con la complessità sociale.
E qui, al netto di una miriade di questioni di storiografiche da mettere tra parentesi in una discussione politica, non è che siamo di fronte ad analisi in sé sbagliate o a comportamenti irrazionali rispetto al rapporto tra politica e spettacolo. E’ che il rapporto tra politica e spettacolo, nel capitalismo contemporaneo, oggi si dà su un altro piano. E non solo non è un piano sovrastrutturale, per dirla in termini canonici, ma è strutturale in un modo da essere ineludibile per i movimenti. E per la loro evoluzione politica.
Intendiamoci, lo stesso capitale ha abbandonato al suo destino la sua miglior scienza borghese proprio quando incapace di leggere questa dimensione strutturale. Prendiamo le differenze tra Luhmann e Habermas sul concetto di opinione pubblica sviluppatesi nei famosi seminari di Starnberg all’inizio degli anni ’70. In estrema sintesi Habermas concepiva, come sostanzialmente ancora concepisce, un concetto di opinione pubblica legato ad una funzione critica rispetto al potere politico e a quello dell’amministrazione. Questa concezione, mito utile ai lettori di Repubblica e residuo teorico per i nostalgici della partecipazione democratica di un mondo che fu, per quanto produttiva sul piano etico era completamente inservibile all’ingegneria sociale del capitalismo già per come si sviluppava a quell’epoca. Perché è inutile a spiegare cosa stava e stia succedendo: l’opinione pubblica, una volta invasa dal linguaggio dello spettacolo, non ha una funzione critica rispetto al potere politico e amministrativo ma di produzione di consenso. Lo spettacolo, proprio perché assume in prima persona anche la funzione di creazione di opinione pubblica, genera altro che critica ma quella massa socialmente critica necessaria a produrre consenso istituzionale. Quando le istituzioni entrano in politicamente in crisi, possiamo dirlo con un’espressione debordiana, rappresentano quindi la crisi di uno spettacolo. Fenomeno che assume così il ruolo dell’ultima ratio di governo: oggi sappiamo benissimo che la coesione sociale capitalistica non è garantita né dal lavoro, che non c’è, né dalle istituzioni, che vivono una spirale autoreferenziale, ma dalla partecipazione di massa all’Isola dei Famosi e dei format spettacolari che verranno. E su un dato politico di questo genere bisognerebbe costruire una teoria, e una pratica, non elaborare il timore dell’abisso o la retorica della fuga di minoranze che non andranno verso nessun dove.
Comunque il capitale, che è cieco ma sa percepire il sapere di cui ha bisogno, ha messo ai margini il pensiero habermasiano: non spiegava né sviluppava l’enorme potenziale di connessione sociale, e di consenso istintivo verso il potere, garantito dallo spettacolo nella sua forma capitalistica contemporanea. Stesso destino è toccato anche a Luhmann che aveva una concezione dell’opinione pubblica non legata alla necessità di far emergere una funzione critica del potere ma quella di una di riduzione della complessità dei temi politici. Per cui l’opinione pubblica in Luhmann ha una funzione sociale, e un ruolo politico, non nel suo ruolo critico ma in quello della riduzione e della selezione dei temi politicamente rilevanti.
Il compito teorico luhmaniano, si sa, era quello di preservare le istituzioni dalla crisi di complessità sociale riducendo e neutralizzando le sue istanze verso le istituzioni. Solo che questo compito oggi lo assume lo spettacolo nel momento in cui ha sostituito, imponendosi come linguaggio socialmente egemone e allontanando le crisi di complessità politica dalle istituzioni, come strumento di riduzione della complessità sociale proprio l’opinione pubblica di tipo luhmaniano o habermasiano. E così i funzionari delle tecnologie sociali alla Luhmann hanno dovuto cedere il posto, nel ruolo dei guru della coesione sociale capitalistica, agli impresari dello spettacolo. Non ci si stupisca quindi che l’università liquida: Alfonso Signorini di Chi, quello dell’intervista a Ruby, ha un peso politico di massa maggiore di qualsiasi studioso italiano di Habermas e in televisione nelle trasmissioni politiche ci va Candia Morvillo, direttrice di Novella 2000, non gli storici collaboratori italiani di Luhmann. L’errore, a sinistra e nei movimenti, è pensare a questi fenomeni come stupidi e superficiali quando si tratta di indizi seri di una condizione strutturale. Di una egemonia dello spettacolo nel mantenimento di un campo di forza che assicuri l’idea complessiva di coesione sociale e di egemonia politica del capitalismo.
Il cerchio magico da spezzare, in questa dimensione di egemonia dello spettacolo come strumento di connessione della società operata dal capitalismo (quindi per niente sovrastrutturale), vive tutto nella concezione di ciò che concepiamo come spettacolare. Se prendono piede, in questa concezione, le idee di declino allora non solo politicamente è finita ma non si capisce nemmeno cosa stia accadendo nelle nostre società.
Lo spettacolo, come del resto la politica e la stessa economia, è un fenomeno anteriore al capitalismo. Identificarlo con una forma sociale di produzione, quella capitalistica appunto, è non capire che proprio per questa anteriorità storica lo spettacolo sfugge continuamente allo stesso capitalismo nel momento stesso in cui innova. Come è avvenuto per Internet che ha fatto riemergere, in mutata forma rispetto alle origini, ampie zone di economia del dono. Una forma di comunicazione e di economia del passato che, seppur a contatto con il mercato, oggi ha una funzione simile a quella assolta dal reddito di cittadinanza. Inondando di beni digitali (dalla musica, ai video, ai giochi, alle applicazioni, all’informazione) la società riducendo così drasticamente il costo di accesso a beni complessi e ad alta cognitività. Lo spettacolo è quindi un fenomeno instabile, per quanto governato dal capitalismo, le cui forme di connessione sociale non erano e non sono affatto attribuibili in eterno ai dispositivi di dominio del capitale. Per cui i movimenti, se vogliono avere un ruolo politico ed emancipatorio, devono dotarsi di una propria politica dello spettacolo. Pena il vedere i propri sforzi nascere e morire alla periferia della percezione sociale. Nella possibilità di generare una instabilità politica, nei confronti delle tecnologie oggi egemoni del dominio, di una intensità persa da diversi decenni.
La fine dell’esperienza di Silvio Berlusconi come presidente del consiglio in quest’ottica è quindi un problema esiziale. E’ importante in ottica contingente e si sa benissimo quanto questo conti sul piano politico dell’immediato. Ma senza una politica dello spettacolo, che condizioni il mainstream come favorisca la produzione di contenuti alternativi che diventano di massa, i movimenti sono destinati a rimanere anche nei prossimi anni o un fenomeno politicamente minore o uno transitorio. Perché la forma generale della connessione sociale non è, come abbiamo visto, l’opinione pubblica ma lo spettacolo. E non c’è movimento che diventi maggioritario ed antisistemico se non si immette nella forma generale della connessione sociale. Forma generale che, nelle società complesse, ha i codici dello spettacolare. Lo spettacolo non ha assunto quindi, come sosteneva Debord, la forma sociale dell’occupazione totale della vita da parte della merce. Ma si è imposto storicamente come fenomeno più radicale, e quindi più profondo rispetto allo stesso capitalismo, ovvero come forma complessiva della connessione sociale. Producendo, come Internet, anche il contrario dei codici di dominio o comunque una instabilità di forme e linguaggi, rispetto al dominio, che va solo favorita. Il grande Robert Altman, autore in tre anni di due film molto diversi ma entrambi grandiosi come Mash e Nashville, avendo occhio e ritmica del fuoriclasse dello spettacolo temeva la contaminazione di questo fenomeno con la politica. Diceva che si trattava di qualcosa di pericoloso perché la gente finiva per non capire dove fosse lo spettacolo e dove la politica. Nel ventunesimo secolo questa contaminazione non va temuta, è ormai una forma matura del ruolo globale dello spettacolo come della politica. Oggi si tratta solo di decidere per chi tutto questo debba essere pericoloso.
per Senza Soste, nique la police
13 aprile 2011
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