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Oltre le strette di mano. E’ davvero vicina la pace in Corea?

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Lo storico vertice tra le massime autorità delle due Coree dello scorso venerdì è stato senza dubbio un evento importante, che descrive importanti evoluzioni rispetto al futuro di una delle aree più calde dal punto di vista politico del mondo. Abbiamo chiesto ad Alessandro Albana, dottorando dell’Università degli Studi di Bologna, un commento sui principali elementi emersi dalla giornata e alcuni valutazioni e previsioni per il futuro. Buona lettura.

A pochi giorni dal summit che ha visto il leader nordcoreano Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in incontrarsi, stringersi la mano e persino abbracciarsi, una previsione realistica di quello che accadrà da qui in avanti rimane molto complessa. Gli impegni sottoscritti nella dichiarazione congiunta che è emersa dal summit del 27 aprile apre spiragli sicuramente positivi per il riavvicinamento delle due Coree. Dei diversi punti su cui Nord e Sud hanno trovato un accordo, i principali sono sicuramente quelli che riguardano la fine dello stato di guerra entro questanno, la cessazione delle ostilità e la denuclearizzazione della penisola. Seoul e Pyongyang non hanno firmato alcun trattato di pace a conclusione della guerra di Corea (1950-1953); l’armistizio che ha posto fine al conflitto ha lasciato i due Paesi tecnicamente in stato di guerra per quasi settant’anni. Nord e Sud si sono impegnati, a partire dal 1 maggio, a porre fine alle azioni ostili nella zona demilitarizzata, sul confine intercoreano, nonostante mosse in questa direzione si siano registrate già nelle passate settimane. Infine, il nodo della denuclearizzazione della penisola che è, nella sostanza, la denuclearizzazione della Corea del Nord pare risolvere con un colpo di spugna una questione di lunga data, che negli ultimi due anni ha provocato più di un dilemma per la comunità internazionale.

Il comprensibile entusiasmo per un summit che ha visto i leader di Seoul e Pyongyang tornare a parlarsi dopo più di dieci anni non può non fare i conti con quello che la dichiarazione congiunta, da sola, non risolve. La questione del nucleare nordcoreano è aperta oggi quanto lo era prima del 27 aprile. L’impegno sottoscritto da Kim, infatti, è positivo ma generico. Sospendere e smantellare un programma nucleare sono due cose molto diverse, e l’annuncio che Pyongyang sospenderà i test missilistici e nucleari non equivale in alcun modo alla rinuncia ai dispositivi nucleari che il Nord ha in dotazione. Letto sull’orizzonte temporale degli ultimi due anni, il processo ha visto la Corea del Nord prima accreditare il proprio status di potenza nucleare e, dopo aver raggiunto quell’obiettivo, mostrarsi disponibile per una ripresa del dialogo con Seoul e addirittura con gli Stati Uniti. Sotto il profilo politico, cè una sostanziale continuità tra il raggiungimento degli obiettivi militari con la fase di tensione e instabilità che ne è derivata e l’apertura al dialogo: raggiunto il primo traguardo, il regime nordcoreano vorrebbe ora passare al secondo.

I precedenti, inoltre, invitano alla prudenza. Dichiarazioni nel senso di una sospensione del programma nucleare nordcoreano si sono registrate già in altre occasioni; nel 2000 e nel 2007, nel corso dei due precedenti incontri tra i leader del Nord e del Sud, un impegno in questo senso veniva stabilito per poi essere disatteso. Con un accordo del 2012, inoltre, Pyongyang dichiarava la sospensione dei test missilistici: sei settimane dopo l’accordo era già stato violato. Prima ancora, nel 1992, la firma di un accordo di riconciliazione, non aggressione, scambio e cooperazione non era riuscito a prevenire ulteriori tensioni sulla penisola coreana. Insomma, è tutto da vedere.

L’altro passaggio cardinale di questo summit è rappresentato dall’impegno a sottoscrivere un trattato di pace che ponga fine alle ostilità e cancelli l’ultimo e più longevo prodotto della Guerra Fredda. Anche su questo punto, però, c’è più di un rilievo critico. Il primo riguarda i negoziati che dovrebbero portare alla definizione del trattato: la dichiarazione congiunta lascia aperta la possibilità che ai negoziati prendano parte Corea del Nord, Corea del Sud e Stati Uniti, o che a loro si aggiunga la Cina. Un tavolo a quattro è quanto nordcoreani e naturalmente cinesi ambiscono ad ottenere; anche in questo caso, la dichiarazione lascia però ampi margini di manovra e non stabilisce un percorso definito. Diversamente da quanto accaduto per i six-party talks (i negoziati intavolati tra 2003 e 2009), comunque, Giappone e Russia non compaiono nella lista degli invitati, segno inequivocabile che il loro peso specifico sulla questione coreana si è fortemente ridimensionato. Che l’accordo raggiunto riguardi la firma di un trattato di pace è, infine, un punto ancora da chiarire. Il testo della dichiarazione in lingua coreana parla, secondo gli osservatori, della comune volontà di instaurare un trattato di pace, mentre le traduzioni in inglese si riferiscono a un regime di pace, che per sua formulazione rappresenta un impegno più generico.

Le questioni irrisolte sono quindi tutt’altro che marginali. Aspettando lincontro tra Kim e Trump, di cui è lecito dubitare se si realizzerà e a quali obiettivi risponderà, il summit del 27 aprile rimane comunque un evento molto significativo per le due Coree e non solo. Non va trascurato che il riavvicinamento tra Seoul e Pyongyang è prevalentemente il frutto dello sforzo messo in atto dalle leadership delle due Coree, un quadro in cui il patrocinio degli Stati Uniti probabilmente è presente ma ha un’influenza minore rispetto al passato. L’imprevedibilità della presidenza Trump mostra in maniera sempre più evidente che l’amministrazione statunitense non ha ancora una chiara strategia per negoziare o dialogare con Pyongyang. Mentre il presidente statunitense canta vittoria su Twitter KOREAN WAR TO END! ha dichiarato sul social media a summit non ancora concluso il futuro rimane un percorso intricato e certamente non in discesa.

 

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