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Orientalismo all’italiana. Una genealogia del razzismo antimeridionale al tempo della crisi – I parte

 

Sai molto bene dove abbiamo trovato la nostra lotta di classe: negli storici francesi che raccontavano la lotta delle razze. [Lettera di K. Marx a J. Weydemeyer, 5 marzo 1852]

Dopo il brigantaggio queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni. [C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli]

 

1. Un piano del terrore: la ‘ndrangheta dietro a Prieti? Questo è il titolo ad effetto di una notizia girata in rete il 13 giugno scorso. Va da sé che il testo segua lo scoop, trovando conferma nelle parole di un “ex ‘ndranghetista di spicco”, che ipotizzi, anzi, ne è certo, che ad armare la mano di Luigi Pietri, ormai noto come l’“attentatore di Palazzo Chigi”, vi sia una “‘ndrina’ di Rosarno”. Seppur non voglia sostituirsi “all’attività investigativa”, da professionista del mestiere sa che “nessuna persona per bene, nessuna persona che non sappia di godere della ‘ndrangheta potrebbe anche solo pensare di partire da Rosarno e fare un atto del genere. Significherebbe condannare a morte non solo se stessi, ma anche la propria famiglia”. E prosegue: “a Rosarno ci sono clan molto propensi a ricorrere alla violenza e ad atti eclatanti”, uno di questi quindi avrebbe adoperato “un disoccupato, magari mentalmente instabile” e con il “vizio della cocaina”, per inaugurare “una stagione di destabilizzazione” o lanciare “un segnale a tutta la politica” (V. Valentini 2013). Lungi dai “luoghi comuni”, l’intervistato indispettito risponde: “Non è assolutamente vero. La Calabria è piena di persone per bene, onesti lavoratori. E lo stesso vale per Rosarno.” Proviamo a porre la cosa in altro modo, cancellando da questo discorso Rosarno e la Calabria, per così dire, il significante dell’articolo. E poi chiediamoci: se Luigi Prieti fosse nato e partito da qualsiasi altra regione d’Italia situata al Nord (secondo le coordinate di quella “geografia immaginaria” di Edward Said), questo sensazionalismo avrebbe avuto senso? La dimensione geografica, culturale, locale, sarebbe stata tirata in ballo?

A seguito dell’inaudito omicidio di Fabiana a Corigliano Calabro del 24 maggio scorso, alcuni articoli di commento hanno suscitato un intenso dibattito, in particolare sulla stampa locale e poi su quella nazionale. Due titoli tra i tanti: Calabria, la donna non vale nulla (D. Naso, 2013), Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana: io sono scappata, lei non c’è riuscita (F. Chaouqui 2013). E di seguito una serie di considerazioni con un significante geografico ben preciso, la Calabria, che motiva le cause dell’efferatezza, mentre la cultura locale quando non il contesto sociale informano l’immane tragedia. Accludiamo qui alcuni stralci: «questa è la condizione delle donne calabresi. Nessuno stupore, dunque. Ma solo una rassegnazione impotente che nessun discorso di circostanza potrà mai attenuare»; le “donne calabresi” in Calabria valgono “zero”; «ragazzine costrette a ritirarsi da scuola nonostante voti ottimi e menti brillanti, semplicemente perché la ‘famiglia’ aveva scelto per lei»; “le donne” calabresi “oggetti da usare a piacimento” degli uomini; “le impavide eroine che decidono “di ribellarsi e dire no”, subiscono “il ceffone, il pugno, il calcio”; “alcune ragazzine si sono emancipate e osano truccarsi e vestirsi come vogliono”. E ancora: la lettera al “Corriere della Sera” di una “trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale”, che in una confessione vergata di mestizia e di rassegnazione afferma di aver scelto di abbandonare “una terra splendida” in direzione di Bologna o Milano, dove “le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto”, mentre in Calabra, “terra matriarcale”, dove «la maggior parte degli avventori sono anziani», «se a 16 anni fai l’amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori»; la Calabria, terra in cui si cresce «sentendosi dire cittu ca tu si fimmina, non su cosi pi tia», dove «la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie», dove «sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa»; e infine un’osservazione, forse a voler confermare l’importante ruolo lavorativo da lei ricoperto, un classico quello della “donna in carriera”, ovvero la capacità di affrancarsi dalla saturazione culturale della “mentalità calabrese”, per cui non resta che la fuga: «sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo». Lungi da entrambe le riflessioni il pensiero di mostrare in tal modo atteggiamenti pregiudiziali o addirittura antimeridionali, cosa contro cui, anzi, puntualmente declamano, ribadendo che «chi conosce bene la realtà sociale calabrese non può accusarmi di sputare sulla mia terra». Poco male, poiché l’orrendo omicidio non fa che essere inscritto nel contesto geografico e culturale. E se da questo lo astraessimo? Se togliessimo di mezzo il significante Calabria? Di certo affiorerebbe una macchia nera, infame, incancellabile! Quella della crescente lista della violenza che sul corpo delle donne viene praticata in qualsiasi parte d’Italia, negli interstizi del privato quando non nel mainstream, dove la ricerca delle ragioni eccede tanto in facili banalità quanto in scorciatoie culturali e nei luoghi comuni. Sia chiaro: questa violenza andrebbe letta attraverso i meccanismi e i dispositivi che la generano, cioè allargando la prospettiva al campo di forze che oscilla tra le questioni del genere, della razza e della classe (Curcio, Mellino 2012), indagando i modi in cui il corpo della donna viene rappresentato, le politiche se non le retoriche che su di esso si istituiscono, la saturazione di immaginari di cui si alimenta l’organizzazione capitalistica della forza lavoro e le forme di precarizzazione e di gerarchizzazione che lungo le faglie della classe, del genere e della razza riproducono dispositivi di assoggettamento.

Ancora altri esempi che ci proiettano nella fabbrica delle rappresentazioni inferiorizzanti che hanno come oggetto il Mezzogiorno d’Italia e, a più ampio raggio, il sud dell’Europa. Il 14 giugno 2013, il presidente del consiglio Mario Monti, intervenendo all’inaugurazione della Fiera del Levante, esordiva: «Al Sud occorre cambiare mentalità». Un’esortazione che porta con sé qualcosa di implicito: una retorica che tende a marcare una mentalità superiore rispetto ad una inferiore. Analogamente, il paternalismo montiano prestava il destro a un’altra retorica, ormai scontata: quella di una visione dicotomica dell’Europa, la superiorità del Nord rispetto al Sud dell’Europa. Un Nord, guidato dalla Germania della Bundesbank, che tutto sommato tiene testa alla crisi, e i paesi dell’Europa mediterranea che questa crisi non la stanno solo subendo, ma ne sono considerati responsabili o corresponsabili. Sono i PIGS: Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, con quell’assonanza esplicita, più che casuale, con il termine inglese porci: i maiali d’Europa e dunque sporchi, ripugnanti, oziosi. Debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali e monetari, scarsa produttività e blocco della crescita, tutto all’insegna dello sperpero e della cattiva gestione politico-finanziaria: «questa la sporcizia che si annida in Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna. La causa è da ricondurre all’indolenza mediterranea, al vivere al di sopra delle proprie possibilità, alla corruzione, alla mancanza di regole, all’assenza di quell’etica del rigore e degli affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva come condizione sine qua non del capitalismo» (Curcio 2012).

Sempre nel giugno 2013 il ministro del lavoro Elsa Fornero fece sfoggio di altrettanti refrain, un po’ frusti di discorsi essenzializzanti e naturalizzanti. Nel rispondere a una precaria sul tema del salario minimo, del reddito garantito e di altri ammortizzatori sociali, affermò: «L’Italia è un Paese ricco di contraddizioni, che ha il sole per 9 mesi l’anno e che con un reddito base la gente si adagerebbe, si sederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro». Insomma, un’allusione, neanche tanto velata, alla “gente” del sud. Allusione per niente originale, quella di Elsa Fornero, anzi, un’immagine scontata, pittoresca, che si fa beffa di un secolo di storia, riportando alla memoria le stampe dell’Illustrazione Italiana di fine Ottocento, dove le genti del Sud sono rappresentante come “lazzari” e “lazzaroni” (spagnolismi logorati con cui si definisce da sempre il lumperproletariat napoletano) che mangiano con le mani pasta e pomodoro e si dilettano al sole, nella “controra”, adagiandosi nell’ozio (Dickie 1999, pp. 126-133).
Inoltre, all’insieme di questi stereotipi vanno affiancati quelli ormai celebri: il Sud, terra della sporcizia delle clientele, dello sperpero, dell’indolenza e dell’imbroglio. D’altronde anche lo spot pubblicitario contro l’evasione fiscale, ideato dal governo Monti, riproduce un frame su cui innestare un’allusione assai poco esplicita. «La carrellata di parassiti (c’è il parassita dei ruminanti, del legno, del cane, etc.) si conclude con il parassita della società: l’evasore fiscale. L’immagine dell’evasore non è però quella del finanziere che ci saremmo aspettati ma quella di un giovane, verosimilmente un precario, bruno, tarchiato, con folte sopracciglia e basette nere: l’iconografia di un terrone» (Curcio 2012).

Dinanzi al riproporsi ridonante di luoghi comuni da una parte, e, dall’altra parte, la tendenza risentita che suscita la reazione oppure la difesa da qualsiasi accusa di razzismo, crediamo sia estremamente istruttivo prendere le distanze da questi discorsi, interromperne i meccanismi di semplificazione, di essenzializzazione e di naturalizzazione, tentando di oltrepassare la soglia delle rappresentazioni per cercare di capire cosa si nasconda dietro di queste, in quale terreno affondino le proprie radici. Detto altrimenti: interrogare il luogo discorsivo, molteplice e variegato, ricostruire la catena deduttiva attraverso cui si è affermato tenacemente il paradigma di uno stereotipo, spogliandolo tanto dei contenuti descrittivi quanto di quelli scientifici. Adoperando qualche attrezzo della celebre cassetta di Foucault, sappiamo che ogni aspetto della nostra esperienza possiede una storia: anche le cose che consideriamo come salde, al di fuori del tempo, ovvio come uno stereotipo, sono attraversate da una storicità che non è né lineare, né progressiva. Il soggetto, la verità o la razionalità non sono valori universali che ci permettano di valutare, dall’esterno, il progresso della storia, ma elementi che mutano nel tempo, differenti in ogni successiva configurazione (Foucault 2001, pp. 43-64).

Dunque, l’esercizio che proponiamo di seguito è quello di seguire con metodo genealogico:
a. l’origine e l’applicazione dell’orientalismo nel Sud d’Italia, le ragioni che lo informino e che ne favoriscano l’utilizzo;
b. quindi, descrivere l’emergere dell’antimeridionalismo o, per la precisione, del razzismo antimeridionale, intendendo col termine di razza – e del suo farsi verbo, razzializzare – «la costruzione di discorsi e di pratiche, di processi economici e culturali di essenzializzazione e discriminazione che puntano alla subordinazione di un gruppo sociale da parte di un altro» (Fanon 1964; Curcio 2012);
c. le “contro-condotte” e le pratiche di sottrazione al dispositivo dell’orientalismo, allo stesso tempo i processi di soggettivazione che hanno innervato i movimenti e le resistenze popolari contro «il dominio dei modi tipicamente ‘moderni’ di esercitare il potere» (Mezzadra 2012, p. 137) nel Mezzogiorno italiano, la gestione speciale delle popolazioni e l’emergenza come tecnologia di governo, il punto d’innesto qui è lo scontro tra formazioni discorsive e l’esercizio del potere, ovvero retorica della modernità da una parte e democrazia diretta delle comunità locali, dall’altra.

2. Il Sud d’Italia è probabilmente la regione d’Europa più tenacemente avvolta in stereotipi interpretativi da almeno un paio di secoli: luogo per antonomasia dell’arretratezza, della diversità e dell’inferiorità rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Un tenace catalogo che oscilla lungo l’intersezione tra una diversità antropologica e certe dirette conseguenze in termini economiche, sociali e politici. I meridionali sono passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e, dunque, inabili alla formazione di una cultura razionale, civica, ordinata. Di conseguenza, il contesto sociale ed economico è sottosviluppato a causa del clientelismo politico, delle relazioni gerarchiche e patriarcali, e delle varie forme di manifestazione del crimine organizzato. Con buona approssimazione, la descrizione del Mezzogiorno potrebbe essere qui terminata per divenire cibo delle inchieste giornalistiche, delle fiction o dei documentari televisivi. All’interno di questo frame si inserisce il “dispositivo Saviano”: «a partire da una descrizione del territorio apparentemente accuratissima, pagina dopo pagina si fa descrizione morale di una popolazione preda inguaribile dei suoi incubi atavici, dunque lotta fra Bene e Male, ove il male è tanto assoluto da non potere postulare che un intervento radicale, ossia portato alle radici antropologiche della questione: un intervento dello stato-chirurgo sul cancro-popolazione» (Petrillo 2011, p. 46). Così la realtà romanzata fa buon gioco di stereotipi, corroborandosi in un atto di fede: a ben vedere, non è assai diverso da quanto in precedenza letto dai giornalisti e testimoni “diretti” sulla “realtà” calabrese.

Sebbene non manchi letteratura che faccia giustizia di questi cliché antimeridionali (un titolo fra i tanti: Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno), la ragione per cui siano ancor oggi in circolazione più prepotentemente di quanto non si voglia credere s’annida forse in quel “senso comune” sorretto dalle verità delle rappresentazioni, da immagini cristallizzate nel tempo e, semmai, corroborato persino da ricerche scientifiche.
Con Gramsci, sappiamo che il “senso comune” è “la concezione della vita”, “la morale più diffusa”, dentro una “sedimentazione” di “folklore” e di “filosofie precedenti”, ma è anche un campo “incessantemente” modificabile, penetrabile dai “luoghi comuni”, quindi ambivalente. Se è vero dunque che “la sfera del ‘buon senso’ o ‘senso comune’” è «l’opinione media di una certa società» in cui “modificare, svecchiare, introdurre nuovi ‘luoghi comuni’» (Gramsci 1977, pp. 65, 75-76), allora vale la pena interrogare come si muova questo “senso comune”, detto altrimenti: le ragioni che mantengano in vita i calchi e i modelli dell’antimeridionalismo.

Che il Settecento sia la stagione in cui tutti gli stereotipi sul carattere meridionale presero forma è ormai noto, così come i riflessi da essi provocati nelle idee e nella stampa dell’Ottocento, durante l’età delle “rivoluzioni borghesi” (1789-1848) e la Restaurazione (Hobsbawm 1963). In quei decenni, la storia si sarebbe incaricata di contenerli e rilanciarli, attutirli e ingigantirli, smorzarli e rinvigorirli, sempre a seconda dei differenti tempi della politica. Così, gli stessi topoi, da un lato sarebbero venuti utili a un mercato editoriale che sulla scoperta dell’esotico avrebbe puntato molto, da un altro avrebbero fatto il gioco di chi, nel Mezzogiorno stesso, aveva interesse a far mostra di tanta arretratezza per approfittarne prontamente, da un altro ancora avrebbero addirittura legittimato opzioni culturali tra loro diverse, quando non contrapposte, accomunando, negli stereotipi impiegati, la resistenza a ogni cambiamento sociale alla drammatica presa d’atto dell’impossibilità invece di riuscire a trasformare un mondo troppo arretrato (De Francesco 2012, p. 21).
Nondimeno, se non si tiene conto dei meccanismi interattivi che danno origine alle immagini è molto difficile comprendere cosa siano e come funzionino gli stereotipi intorno al Mezzogiorno, e più in generale la costruzione storica dell’identità e di cosa ci sia dietro essa. Che l’immagine del Sud si sia plasmata nel dialogo con il Nord del paese sembra un’osservazione ovvia, meno banale è invece scoprire che la sua identità si sia formata in negativo, come mancanza rispetto a un modello ideale. Edward Said con il suo Orientalismo ha offerto un’importante riconsiderazione a partire da come la civiltà europea nel corso del Settecento e dell’Ottocento abbia costruito la sua visione di un Altro, espressione ed esercizio della sua stessa supremazia mondiale, proprio a partire dalle mancanze. L’orientalismo è un esame delle innumerevoli modalità con cui una parte del mondo ne immagina un’altra per dominarla, dando vita a un tipo di analisi culturale in chiave geografica, dove la frammentazione interna dell’Europa (e nel nostro caso dell’Italia) lascia affiorare un significante pienamente coloniale.

Franco Cassano nel suo Pensiero meridiano sostiene che la categoria di Said è necessaria ma non sufficiente a capire la posizione subalterna del Sud, in quanto l’orientalismo aiuta sicuramente a costruire un’immagine dominante del Mezzogiorno italiano al contempo come paradiso turistico e inferno sociale, ma «la soggezione simbolica passa anche e soprattutto attraverso la sua definizione come luogo dell’arretratezza e del sottosviluppo, come forma incompiuta di nord» (Cassano 1996, p. 8). Quindi la costruzione concettuale del Sud da un lato aiuta il Nord europeo a percepirsi nella sua compiutezza di civiltà superiore, dall’altro, e soprattutto, a definire il Sud stesso come una sua copia imperfetta ovvero come una porzione della civiltà occidentale che non segue il ritmo del suo cuore pulsante, collocato lontano dalle rive mediterranee. Il Sud è un Nord “esterno” e “senza”, senza storia, senza progresso, senza la luce della ragione, senza futuro, insomma senza tutte quelle conquiste del Nord moderno. «L’idea di Sud come di non Nord, di un Sud pensato da altri, non più soggetto di pensiero, ma brutta copia di un’altra latitudine, è un processo facilmente percepibile all’interno del territorio italiano» (Cazzato 2012, p. 193). Lungo questa linea interpretativa, Iain Chambers richiama l’idea di una “prerogativa” dell’Europa settentrionale quando sostiene con insistenza che la divisione interna italiana è anche il risultato dell’intervento di forze esterne nel Mediterraneo: come territorio da “condizionare” dalla fine del Seicento, con la presenza della flotta mercantile e militare britannica a difesa degli interessi coloniali britannici nel Mediterraneo, come presidio del «disfacimento organico del rapporto complementare fra il Nord Italia commerciale e industriale e il Sud agricolo […] parimenti trasformati in riserve di materie prime per i mercati e la commercializzazione dell’Europa del nord e del litorale atlantico» (Chambers 2007, p. 119).

3. Questa prerogativa del Nord sarebbe certo comprensibile, in termini storici, se non si assuma come istitutiva l’idea che un territorio sia in grado di produrre delle azioni costituenti, vale a dire che le forme della rappresentazione abbiano effettivamente la capacità di intervenire sul reale, di interpretarlo e anche di costituirlo. Infatti la rappresentazione partecipa della stessa natura del potere, poiché entrambi hanno la capacità di istituire, sono in grado di autorizzare se non di legittimare. «La rappresentazione in generale ha un doppio potere: quello di rendere presente ciò che è assente e di costituire legittimità di questa presenza esibendo qualificazioni, giustificazioni, e titoli. Se la rappresentazione riproduce non soltanto di fatto, ma anche di diritto, le condizioni che rendono possibile la sua riproduzione, si capisce allora l’interesse del potere ad appropriarsene» (Lazzarato 2008, p. 219).

Il campo dell’“ideologia” e l’archivio dei “luoghi comuni” è stato dissodato approfonditamente da Gramsci, in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”, andando oltre cioè quel «preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante” e leggendo “gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata». I luoghi comuni quando non gli stereotipi vanno situati dentro determinate “totalità strutturate in modo complesso”, ovvero le “società” o le “formazioni sociale”. In queste, «differenti livelli di articolazione (le istanze economiche, politiche e ideologiche) si combinano in modi differenti», si «rispecchiano reciprocamente» e, con Althusser, si «surdeterminano reciprocamente» (Hall 2006, pp. 194-195). Oltretutto è proprio Althusser a citare un passo del “vecchio Engels”, che per mettere «le cose al loro posto contro i giovani ‘economicisti’» disse: «La produzione è il fattore determinante, ma solamente ‘in ultima istanza’. ‘Né Marx né io abbiamo affermato qualcosa di più’. Chi dovesse ‘torturare questa frase’ per farle dire che il fattore economico è il solo determinante ‘la renderà una frase vuota, astratta, assurda’». E sempre Althusser, in Per Marx, si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato «la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture» e «anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle ‘tradizioni’ come la ‘tradizione nazionale’». Risposta secca: «Ne conosco uno solo: Gramsci» (Althusser 2008, pp. 202-205). Dunque è l’approccio gramsciano che ci consente di definire i movimenti e l’uso del campo ideologico: la formazione e la trasformazione dello stesso sono determinati e dalla struttura e dalla sovrastruttura, in una combinazione di discorsi ideologici e meccanismi economici immediatamente produttivi di “senso comune”, immagini, abitudini, frame, luoghi comuni, stereotipi.

D’altro canto, nella storia d’Italia il pregiudizio o il razzismo antimeridionali sono stati sempre adoperati per soddisfare istanze economiche ma anche politiche e ideologiche. A questo punto anche la stessa “questione meridionale” è il prodotto della “surdeterminazione” di differenti istanze. Infatti, in Alcuni temi della quistione meridionale, proprio Gramsci segnala come «l’ideologia diffusa in forma capillare dai protagonisti della borghesia nelle masse del Settentrione» rappresenti “il Mezzogiorno” dentro il refrain di «palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia», perché «i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari» (Gramsci, 1930, p. 159).
Celebre questo brano del 1930, esemplare è l’esercizio gramsciano di decostruzione e dell’unificazione italiana e della “questione meridionale”. In quel pregiudizio, o meglio, in quel razzismo antimeridionale, solidificatosi in “senso comune”, Gramsci intravede il riflesso delle istanze economiche e delle istanze ideologiche, in un rispecchiamento “surdeterminato”. In questa sovrapposizione, il pregiudizio in termini di inferiorità biologica, vale a dire di naturalizzazione ed essenzializzazione, non fa che consolidarsi nelle forme del razzismo. Intrecciato alla vicenda storica del nazionalismo, il razzismo è però qualcosa che eccede il nazionalismo. Nel famoso testo Razzismo e nazionalismo, Etienne Balibar infatti sgombera il campo da certi equivoci lungo l’intersezione di nazionalismo e razzismo. Se i due termini si riflettano l’un l’altro, il razzismo è nondimeno qualcosa in più: «un supplemento interno al nazionalismo e sempre in eccesso rispetto ad esso, ma sempre indispensabile alla sua costituzione e tuttavia sempre ancora insufficiente per portare a termine la formazione di una nazione, o il progetto di nazionalizzazione della società» (Balibar 1996, p. 66). Beninteso: il razzismo è “sempre in eccesso rispetto” alle formazioni nazionalistiche e, svolgendo tale pensiero, “in eccesso rispetto” alle rappresentazioni e ai costumi delle identità nazionali.

Nel rileggere le lezioni del corso del 1976, Bisogna difendere la società, possiamo notare l’attenzione che presta Foucault alle mutazioni del discorso del razzismo in tecnologia di governo e gestione delle popolazioni, ovvero nel “bio-potere”. Apparso nel XVII secolo, “il discorso della lotta delle razze” diventerà “discorso del potere centralizzato e centralizzatore”, ovvero «di una razza che detiene il potere ed è titolare della norma, contro quelli che deviano rispetto a questa norma, contro quelli che costituiscono altrettanti pericoli per il patrimonio biologico […] appariranno tutti i discorsi biologici-razzisti sulla degenerazione, ma anche tutte le istituzioni che, all’interno del corpo sociale, faranno funzionare il discorso della lotta delle razze come principio di eliminazione, di segregazione, e infine di normalizzazione della società» (Foucault 2001, p. 58). Dalla genealogia foucaultiana ci appare in filigrana proprio la storia italiana di fine Ottocento, quella della “grande emigrazione” e, mezzo secolo più tardi, dell’emigrazione verso il triangolo industriale.

Tornando all’orientalismo, possiamo notare che sia Said che Foucault pongono in evidenza la visione binaria come dispositivo fondante del dominio sul piano culturale. E non soltanto, poiché con Gramsci abbiamo visto che i piani e le istanze si “surdeterminano”, il piano culturale, si combina con il piano economico e con il piano politico. L’orientalismo è un dispositivo che, da un esame delle modalità con cui una parte del mondo immagina un’altra per dominarla, produce una supremazia complessiva, dell’Occidente sull’Oriente, del Nord sul Sud. E Said, alla pari di Gramsci, è giunto all’orientalismo soltanto liberando «gli studi critici sul colonialismo dall’ipoteca che era stata a lungo esercitata da un’interpretazione rigida dei rapporti tra struttura e sovra-struttura, nonché del concetto di ideologia» (Mezzadra 2012, p. 134).

Le immagini di questo testo sono di due artisti di strada napoletani, Cyop e Kaf, impegnati nelle lotte ambientali e attivi nelle periferie metropolitane. Il loro sito è www.cyopekaf.org

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• V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma 2011 (1993).
• V. Valentini, Un piano del terrore: la ‘ndrangheta dietro a Preiti?, 13 giugno 2013, alt qui.

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