Per una discussione collettiva su scuola e università
Che ci sia in giro per le nostre città una nuova effervescenza sociale, che si stiano dispiegando sempre più irriducibili conflitti, appare evidente anche al più disattento osservatore.
Che in questa fase politico-sociale i mutamenti di prospettiva, composizione, forza dei movimenti di massa stiano segnando e condizionando le scelte di exit strategy del grande capitale dalla crisi economica, diventa innegabile anche dal più disonesto commentatore.
Infine, che nell’ambito dell’istruzione (e dei suoi intestini conflitti) questa nuova forza si sia trasformata in “potenza” concreta, offensiva, radicale, è chiarissimo a chiunque!
Abbiamo alle spalle una serie di interventi governativi su scuola e università pubblica volti a completare un ventennale restyling del sistema pubblico di formazione. Tali provvedimenti pesano, ovviamente, come macigni sulle nostre schiene piegate già da una crisi globale i cui costi socializzati o ancora da ripagare sono la posta in palio della partita che ci apprestiamo a giocare.
Ma abbiamo dietro di noi – anche e soprattutto – una sequenza politica che, dal 2008 a oggi, ci consegna esperienze di movimenti massificati, nuove forme e luoghi della politica, rivolte e riots; siamo ormai giunti alla piena consapevolezza che nuovi attori sociali si stanno affacciando ai balconi della storia e che queste soggettività hanno dei chiari comuni denominatori: è l’emersione dei movimenti del “lavoro cognitivo” e della galassia il cui centro di gravità è rappresentata dalla “condizione precaria”.
Cosa è successo in questi anni sul fronte-formazione? Cosa di buono e cosa di cattivo ereditiamo da questa inaugurale fase di scontro? E per il futuro poi…
Iniziando con una polemica…”Chi di cultura ferisce, di cultura perisce”
Ovviamente non mi arrogherò alcuna pretesa di dare risposte univoche e compiute sul passato e sul futuro delle mobilitazioni sul campo dei saperi. Non sono di certo io colui che sa! Ma i miei “cattivi maestri” – che non sono i miei insegnanti di scuola né i miei docenti universitari – mi hanno insegnato che il compito di chi queste sequenze politiche le vuole studiare per estenderle ed edificarvi percorsi di lotta ed emancipazione sia quello di formulare ipotesi di orientamento, di analisi e pratiche, piuttosto che sventolare ogni volta il formulario delle risposte dogmatiche preconfezionate.
Eppure di individualità totalmente calate in questa parte, nel ruolo di maestri –e pure cattivi- perché rossi o anche solo rosseggianti ne abbiamo viste tante in questi anni di mobilitazione. E non lo dico per ribadire concetti di berlusconiana provenienza (a proposito del presunto monopolio comunista sulla scuola pubblica) ma perché, al contrario, troppe volte e in maniera, a mio avviso, impropria la classe docente “movimentista” si è autoproclamata controparte ufficiale nel processo di smantellamento della pubblica formazione: nei loro discorsi si configurava così, oltre ogni sensato limite, la propria centralità nella conduzione della battaglia “nel segno della cultura”.
Nulla di più sbagliato e fuorviante, credo. Trasformare questi anni di lotta studentesca in una battaglia in “difesa della cultura” è un’operazione banalizzante e semplicistica. Banalizzante in quanto riesce, al contempo, a negare il carattere “generalizzato” dei movimenti in questione e, allo stesso modo, a cancellare ogni concezione marxiana del concetto stesso di “cultura” – che viene ancora una volta presentata come un neutro feticcio innalzato al di sopra di noi come fosse un’idea platonica o, peggio, quel magico strumento preso il possesso del quale un popolo diventa immediatamente rivoluzionario – e del “sapere come merce” la cui espropriazione (attraverso sistemi di cattura quali proprietà intellettuali, brevetti, copyright…) da parte del capitale dovrebbe rappresentare il punto focale della nostra battaglia su questo fronte.
Ed è anche “semplicismo” non adeguare le analisi all’esistente: costituire la “cultura parte civile in tale processo di smantellamento” non permette di guardare nella giusta prospettiva la matrice economica di tali trasformazioni oltreché la funzionalità sistemica di tali interventi governativi. In altre parole, se l’asse Gelmini-Tremonti taglia tutti questi posti di lavoro nella scuola, non lo fa per paura di queste inesauribili fucine di rivoluzionari costituite dagli istituti pubblici bensì (quantomeno primariamente) in quanto settori troppo costosi per lo stato.
Questo tipo di impostazione rappresenta – e risiede qui il centro della mia critica – un insormontabile recinto ideologico che consente, da un lato, a certi docenti di parlare di una
Catene ideologiche che impediscono una corretta visione della realtà: non dire che in due anni di mobilitazione, tanto insegnanti di scuola quanto docenti e ricercatori delle università hanno man mano assunto ruoli marginali nella protesta mostrando tutti i loro limiti – proprio in relazione al potenziale devastante per l’intera macchina universitaria di una eventuale scelta radicale dei soggetti in questione – rappresenta una mistificazione della realtà.
I “saperi” in quanto merce – peculiare e gerarchizzante, risorsa e strumento centrale nella produzione biopolitica contemporanea – ma soprattutto” l’eccedenza del sapere vivo” rappresentano invece (a differenza e contro le narrazioni “ufficiali”) la posta in palio di uno scontro costantemente aperto tra sforzo di captazione ed estrazione di plusvalore da un lato, e mobilità di una forza lavoro caratterizzata da una incessante produzione di linguaggi, cooperazione e innovazione, dall’altro.
E’ l’attuale capitalismo cognitivo, caratterizzato da questa costante tensione tra sistemi di cattura – che sempre più, anche sul mercato della conoscenza, prendono la forma di “rendite” economiche che non della classica “proprietà privata”- e costruzione cooperativa dei saperi e delle tecniche. Fin quando un simile orizzonte non verrà accettato come tale, sarà, per i soggetti già citati, impossibile superare steccati ideologici che confinano all’anacronisticità, se non alla semplice retroguardia in nome di una battaglia puramente resistenziale.
Sogni infranti….
“E’ la genealogia del presente a renderci non solo immuni, ma anche nemici delle lacrime per il passato.”
Collettivo edu-factory in “Università gobale” AA.VV.
Ripercorriamo un attimo le tappe come se stessimo raccontando una breve favola di cui ancora non conosciamo il finale.
C’era una volta un fiorente mercato, quello della formazione, che, sulla spinta della massificazione delle utenze (degli accessi) e dei recenti mutamenti dei sistemi produttivi – attraverso la nuova centralità assunta dal lavoro cognitivo e dai sistemi capitalistici di cattura ed espropriazione – diviene il secondo mercato globale per quantità di denaro prodotto e messo più o meno direttamente in circolazione. La corsa inarrestabile di questa gigantesca costellazione di attività molto remunerative per il grande capitale internazionale sembrava non conoscere limiti. Questa inebriante sensazione induce il potere (nazionale e continentale) a buttarsi nell’inseguimento di quei modelli che avevano saputo mostrare e sfruttare la massima produttività sistemica (mondo anglosassone). Spuntano così anche nei dizionari di movimento locuzioni quali Bologna Process, aziendalizzazione, privatizzazione, autonomia economica.
Arriva poi il brusco risveglio di inizio millennio, il crollo dell’utopia neoliberista: è il tempo delle bolle speculative, della crisi globale e delle “immancabili” lotte sociali. E’ la fine della grande illusione del capitalismo cognitivo e “flessibile” come panacea a tutti i mali di una capitalismo novecentesco da rinnovare. Ma è soprattutto (in quanto è il tema in trattazione) la fine della corsa del mercato dell’istruzione (almeno nei contesti di riferimento in questa analisi: Stati Uniti, Europa) che, da adesso in poi, dovrà inderogabilmente abbassare i costi di produzione e aumentare i profitti diretti.
Cogliere il presente
Mutato nomine / de te fabula narratur.
Cambiato il nome, questa storia è la tua.
(Orazio, Satire)
Così, come nell’attualissima vicenda della manovra economica – finanziaria dettata dalla Bce (nelle persone di Draghi, Monti, Trichet), voluta dalla finanza internazionale, e attuata dai ministri-fantoccio italiani – il caso dei tagli all’istruzione pubblica italiana si iscrive perfettamente in un trend internazionale centrato su privatizzazione dei servizi e dei beni comuni e di tagli alla spesa sociale.
Ciò vuol negare “le colpe” di un governo non più sovrano sulla “cosa pubblica”? Assolutamente no. A ben guardare, infatti, i “meriti” (per noi le colpe) del governo in carica risultano evidenti non tanto nell’aver portato a compimento il processo di aziendalizzazione della formazione – processo avviato e fortemente voluto dal centrosinistra in primis – quanto nell’esser riuscito a mantenere, nel quadro delle trasformazioni in questione, quella commistione (tutta italiana) tra il compiuto “assetto privatistico” (che come vedremo in seguito non esclude di per sé la “componente pubblica”) e il vecchio assetto clientelar-feudale.
Se di queste peculiarità i movimenti si sono tendenzialmente accorti, ci sono ulteriori aspetti che meritano un ulteriore chiarimento inter nos.
Mi riferisco alla nostra capacità di aggiornare le analisi e, come conseguenza ovvia, anche pratiche, linguaggi, immaginari e discorsi. Se infatti (è innegabile) che, dai tempi della Pantera, i movimenti sviluppatisi in opposizione alle politiche sulla formazione pubblica hanno saputo anticipare concetti, trasformazioni, linee di sviluppo dei processi in questione, non significa che non si debba fare i conti con i mutamenti intervenuti a modificare i piani stessi del capitale.
La critica a aziendalizzazione e svendita dell’istruzione; la protesta contro l’inasprimento dei meccanismi di precarizzazione e sfruttamento della ricerca; la lotta contro la parcellizzazione di saperi sempre più destrutturati. Simili contenuti devono ovviamente continuare a in-formare i nostri ragionamenti odierni ma devono anche adeguarsi alla schizofrenia cronica di un capitalismo che conosce poche linee di continuità. Così , ad esempio, – e lo dico soprattutto ai “combattenti della sacra cultura” – diviene anacronistico proclamare la semplice opposizione alla “privatizzazione dei saperi” in quanto si ometterebbe la già consolidata (anche in Italia) pervasività del privato dentro la “cosa pubblica” (la ricerca è già da tempo condizionata dagli interessi privati) e viceversa:il modello anglosassone – in cui pubblico e privato sono tanto mischiati da confondersi – è in questo senso esemplificativo. Nostra capacità dovrebbe, a questo punto, essere quella di lasciarci definitivamente alle spalle la classica dicotomia pubblico-privato. Invertendo i termini utilizzati da quella sinistra con nostalgie del vecchio concetto di “pubblico”- capace di proclamare la propria avversione verso il modello che ci stiamo lasciando alle spalle (anche grazio al decisivo contributo di movimenti sociali in grado di far saltare il collo della bottiglia) ed allo stesso tempo saper riproporre come alternativa il semplice ritorno allo “statalismo”- definiremo insensato “l’appello allo Stato contro l’avanzata dei privati” in quanto sono le imprese ad aver importato modelli e logiche del lavoro/sfruttamento accademico così da avere gli strumenti necessari all’ultimo e decisivo sbarco sulla costa del mercato della conoscenza; ed, in questa operazione, lo Stato fa da garante (se non da pioniere) dell’aziendalizzazione con l’aiuto di quelle baronie impegnate anche esse a controllare che l’approdo su tali spiagge vada a buon fine.
E se domani … tornassimo al futuro?
“I know it’s only rock’n roll
but I like it, like it, yes, I do.”
Rolling Stones
Le ultime riforme sono state tutte regolarmente approvate: le lotte di questi anni non hanno arrestato il processo il cui apice è rappresentato dai nuovi statuti in stato d’approvazione nei vari atenei del paese. La scuola è stata rivoltata dai nuovi provvedimenti su assetto di governance e didattica mentre l’università, come largamente previsto, aprirà ai privati, accentuerà i poteri dei rettori e potenzierà i meccanismi di “inclusione differenziale”. Ciò avviene ad appena due anni dalla 133 e dalla definizione di quelle politiche del “taglio” che hanno comportato licenziamenti nella scuola e blocco del turnover possibile per gli atenei.
In più l’introduzione del cosiddetto “prestito d’onore” , oltre a inasprire la gerarchizzazione dell’accesso agli studi (come da tutti denunciato), introduce anche nella formazione pubblica italiana quell’”economia del debito” la cui universale estensione rappresenta il cardine delle vie d’uscita dalla crisi da parte del capitale: un nuovo “luogo”economico sacrificato sull’altare della finanziarizzazione.
Stiamo quindi dipingendo il quadro di una sonora vittoria del capitale sui movimenti del lavoro vivo? Dobbiamo unirci al coro melodrammatico di una certa sinistra incapace di vedere un possibile riscatto? Risponderò arrogandomi stavolta la pretesa ti presentare una premessa non come “ipotesi” ma come un “fatto”: ciò che in questi anni si è originato dentro scuole e università in termini di mobilitazione rappresenta l’unico elemento scompaginante nel quadro delle risposte sociali alla crisi e alle politiche d’austerity. Il conflitto e la radicalità di cui il movimento studentesco dello scorso autunno ha saputo farsi carico costituisce una novità tanto significativa da poter sperare/intuire che in realtà la partita si è appena aperta su un piano molto più generale della semplice rivendicazione studentista.
In pochi, dallo scorso dicembre hanno pianto “il dramma dell’ennesima sconfitta” contro l’odiato Berlusconi; tanti altri si sono invece, nonostante la fiducia prima (14 dicembre) e l’approvazione della riforma poi (22 dicembre), entusiasmati nell’essersi in poche settimane potuti riconoscere come soggetto/attore della vicenda, nell’accettare la logica dello scontro aperto senza compromessi ne mediazioni.
Così mentre la Gelmini cantava vittoria, per noi si apriva una nuova e promettente fase: l’assunzione della precarietà come drammatico paradigma generale imposto sulle nostre esistenze; il riconoscimento delle nuove forme di sfruttamento del lavoro cognitivo socialmente prodotto attraverso sofisticati meccanismi di cattura ed espropriazione; il rifiuto della logica delle “sante” privatizzazioni dei beni comuni; crescente e trasversale sfiducia verso l’intero sistema capitalista e verso le istituzioni dello stato; accentuarsi a tutti i livelli di una endemica crisi di rappresentanza; il protagonismo di giovani e giovanissimi che identificano unicamente in strade e piazze i luoghi della “loro”politica. Sono questi elementi di una miscela potenzialmente esplosiva.
In questo mix abbiamo visto il lavoratore cognitivo prendere coscienza della sua inoccultabile subalternità; che il precario inizia a sentirsi un po’ proletario; che lo studente si riconosce anche lavoratore produttore diretto di ricchezze “altrui”. E’ il decisivo passaggio alla classe “per sé” di marxiana memoria. Perché le lotte dello scorso autunno, aldilà di ogni scetticismo oltranzista, ci hanno mostrato assaggi veri di “ fenomeni di ricomposizione” come non eravamo più abituati a vedere: trasversalità sociale nella composizione e nelle rivendicazioni, nei linguaggi e nelle pratiche di quelle mobilitazioni ne sono la prova più convincente.
Grandi cambiamenti sotto questo cielo! Un cielo i cui confini sono in continuo allargamento: nuovi orizzonti si aprono di continuo sotto i colpi della crisi e delle sue contraddizioni. Così non possiamo, nella nostra disamina, non tenere conto di ultimo-non-ultimo elemento di novità ed esplosività senza precedenti recenti: la transnazionalità delle lotte.
C’è infatti un filo che unisce tanto le lotte europee sul fronte della formazione quanto quelle nordafricane giungendo fino alle lontane terre statunitensi e cilene; le tre tipologie di fibre intrecciate in questo lungo filo si chiamano composizione, linguaggi e pratiche.
Sulla composizione abbiamo già tanto detto a proposito del caso italiano: giovani e giovanissimi, spesso altamente scolarizzati, sicuramente schiacciati da un sistema non più in grado di offrire risposte a quegli stessi bisogni da esso indotti; una miseria del presente (non soltanto del futuro come piace dire a qualcuno nel nostro paese)che va di pari passo- con l’assoluta mancanza di accesso al potere decisionale e politico se non nella patetiche forme dell’attuale rappresentanza.
Sui linguaggi e sulle pratiche servirebbe più uno studio di virologia che una disamina politica: dal “que se vajan todos” di recente utilizzo locale alla “degage-mania” tunisina, così come book-block, attacchi a banche ed istituti di credito, assedi ai palazzi del potere, accampamenti di piazza, sono la dimostrazione che uno spazio transnazionale dello lotte non è più un miraggio da nostalgici dell’internazionalismo.
Così, in questi ultimi mesi, rivolte e riots, piazze come nuovi luoghi della politica, assedi come esaltante momento di vero esercizio democratico, irrompono nel cuore materiale (ma anche geografico) della crisi, rivoltando come un calzino la retorica costruitale intorno dalle narrazioni ufficiali, tanto politiche quanto massmediatiche. “I sacrifici toccano ad una classe dirigente ormai divenuta insopportabile” – sembrano gridare le piazze del vecchio e del nuovo continente!
Esplosioni di irrazionale violenza episodica? Fuochi d’artificio, botti e tanto rock’n’roll fine a se stesso? O primi “assoli” overture di una sinfonia la cui melodia scandirà i nuovi tempi della crisi? Se un fantasma caratterizza gli incubi dei potenti esso assume la forma della romana “piazza del popolo in un poco tranquillo pomeriggio di dicembre” i cui suoni sono coperti da boati di rabbia: visione premonitrice più che spiacevole ricordo del passato; è già il “domani” in anticipo rispetto a un futuro ineluttabile di conflitto generalizzato di cui le rivolte italiane, greche, tunisine, cilene e londinesi – mi riferisco qui a quelle studentesche autunnali; non cito le vicende estive in quanto, seppur assolutamente iscritte nelle nostre analisi sulla “crisi”, meritano un approfondimento maggiore (rimando in questo senso a tre articoli consultabili sul portale www.infoaut.org : “Il comune in rivolta”- Negri-Revel; “I rivoltosi londinesi e il diritto al lusso”- I. Gjergji; “Con i riots la storia cambia pagina; intervista a S.Sassen”- di B.Vecchi) – sono state solo prove generali. Se una rondine non fa “primavera”, decine di migliaia fuori dal Parlamento italiano, in Val Susa o dietro delle barricate in Grecia, ci indicano quantomeno la fine di un lungo inverno!
Da questo enorme bagaglio di entusiasmanti esperienze di lotte radicali ripartiamo oggi all’alba di un nuovo anno accademico e scolastico.
Se, sul fronte universitario, nella fase post-autunnale, il percorso di riassetto della governance dei vari atenei –attraverso le varie commissioni statuto – non ha costituito quel detonatore che molti settori di movimento auspicavano – anche toppando completamente l’approccio alla questione, troppe volte risolto in una mera richiesta di accesso “democratico” a tali organismi – ciò non può indurre ad una automatica (e dannosissima) sottovalutazione del potenziale antagonista che oggi più che mai cova nel tessuto studentesco e giovanile del paese.
Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti come, in questa fase politico-sociale, le concezioni cicliche – che vorrebbero un’annata di bassa dopo l’esplosione dello scorso anno – non siano più applicabili a movimenti sociali siffatti. La nostra capacità deve essere quella di continuare lungo una linea tracciata già negli scorsi mesi che permetta di approfondire e valorizzare, ovviamente non dal punto di vista economico bensì da quello soggettivo della lotta, quel terreno che lega i luoghi della formazione, in particolare l’università, alla metropoli ed ai tessuti cittadini di riferimento; così come fatto lo scorso anno la chiave starà nell’attitudine a parlare linguaggi generalizzabili e volti alla maggioranza (nel senso di piani di lotta capaci di essere riconosciuti e legittimati dai più) partendo proprio da quelle tematiche venute fuori, dall’ultima mobilitazione, solo in un secondo momento rispetto ad una riforma da considerare solo “causus belli”: reddito e precarietà, presente e futuro, salari e diritti, hanno potuto lì dove il “diritto allo studio” di storica parola d’ordine della sinistra istituzionale non è mai riuscito: creare opposizione sociale!
L’impossibilità per i governi di attuare nuove politiche di investimenti e rilancio, unita alla sempre crescente frustrazione dei più diversi strati sociali, ci darà in questo una mano.
Tanto dentro le università e le scuole quanto nelle metropoli la forza va esercitata nei termini della potenza tanto distruttrice quanto costituente. Un sistema formativo che va distrutto – perché non più (se mai lo è stato) riformabile dal suo interno come inemendabile sono state le riforme “step”del processo di aziendalizzazione – attraverso le pratiche autonome di riappropriazione di spazi, luoghi, agibilità e saperi: di contropotere insomma! Autoformazione, cooperazione nuovo e “comune” welfare studentesco, primato della politica sull’economia,tanto per iniziare. Ma soprattutto lotta al “debito”, a chi tenta di scaricarlo sui soliti noti; diritto all’insolvenza, del singolo studente e del singolo “contribuente” (così almeno vengono chiamati); diritto alla generale bancarotta, perché non ci siamo lasciati contagiare dalla “default-fobia”. Il tutto da riversare fuori il recinto dell’accademia, dentro le contraddizioni diffuse nei nostri territori nel nome dell’alternativa reale.
Su queste coordinate deve svilupparsi il nostro tentativo di cogliere il sempre sfuggente e mobile incrocio tra composizione tecnica e composizione politica nello spazio-tempo del “precariato cognitivo” , o forse, in termini sempre più reali, di una nuova forma di “proletariato cognitivo”. La “classe” è la posta in palio di una scommessa che qualcuno deve pur fare.
Abbiamo ben poco da perdere, tanto da doverci riprendere. A noi il coraggio di giocare questa partita!
Scritto per la rivista NoteBlock
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