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Possiamo ancora parlare della Cina come della “fabbrica del mondo”?

Riprendiamo dai compagn* e amic* di Chuang questo breve articolo che si sofferma sull’evoluzione del mercato del lavoro e del conflitto industriale in Cina nell’ultima decade.

L’articolo propone un’ottima sintesi di quanto successo nelle relazioni di produzione nella Repubblica Popolare dallo scoppio della Crisi Finanziaria Globale ad oggi ed ha il merito, a nostro avviso, di evidenziare alcuni critici luoghi comuni che caratterizzano il dibattito intorno al paese.

Simili luoghi comuni e analisi superficiali pensiamo abbiano fatto parte anche del dibattito italiano. Motivo in più per cimentarsi in questa breve lettura.

Chuang 22 maggio 2023.

Per la quinta parte della nostra serie di brevi risposte comuniste alle domande più comuni sulla Cina, rispondiamo a domande come: “La Cina non è piena di fabbriche fordiste ad alto sfruttamento di manodopera? I lavoratori cinesi non sono praticamente degli schiavi che producono vestiti e iPhone per i consumatori occidentali?”.

Come in qualsiasi altro Paese, anche in Cina esistono fabbriche dove le condizioni di lavoro si fondano su un elevato sfruttamento. Tuttavia, occupazioni quali il fattorino e l’impiegato sono più rappresentativi della struttura produttiva odierna rispetto ad un lavoratore migrante in una catena di montaggio che produce scarpe o elettronica per l’esportazione.

Il lavoro in fabbrica è giustamente aborrito per le condizioni deplorevoli, i bassi salari e i lunghi orari, ma queste caratteristiche non sono esclusive del lavoro in fabbrica, né l’industria manifatturiera è il principale luogo di resistenza dei lavoratori in Cina.

Una decina di anni fa, il settore manifatturiero aveva un ruolo maggiore nell’economia cinese, in termini di occupazione e produzione. Questo è il periodo da cui proviene l’immagine della “fabbrica del mondo”, poiché era il periodo in cui gran parte del lavoro manifatturiero a più alta intensità di manodopera del mondo era concentrato nel Paese.

Oggi, tuttavia, la produzione cinese è diventata più automatizzata e molte delle occupazioni a più alta intensità di lavoro sono state trasferite in paesi più poveri (ad esempio, le fabbriche tessili si stanno spostando in Cambogia e Bangladesh, o l’assemblaggio di prodotti elettronici di basso livello in Vietnam), il che significa che l’industria continua a essere una delle principali fonti di produzione economica per la Cina (come per tutti i Paesi “postindustriali”), anche se il Paese si sta “deindustrializzando”, nel senso che una quota minore dell’occupazione complessiva è coinvolta nel settore manifatturiero. Si tratta di uno schema generale dello sviluppo capitalistico, riprodotto più volte in tempi e luoghi diversi.

Eppure, se si tratta di qualcosa che è già accaduto in altri Paesi, perché continuiamo ad associare l’immagine di una produzione in condizioni di sfruttamento alla Cina?

La prima e più ovvia ragione è semplicemente perché molti dei prodotti a basso valore aggiunto del mondo sono stati, per circa vent’anni, “made in China”. La situazione sta cambiando (basta guardare i cartellini dei vostri capi d’abbigliamento, probabilmente prodotti altrove) ed è probabile che nel prossimo futuro inizieremo ad associare maggiormente queste immagini al Sud e al Sud-Est asiatico, così come un tempo era comune associare le stesse immagini a cartellini che recitavano “made in Mexico” o “made in Taiwan”.

D’altra parte, c’è una seconda importante ragione per cui questa immagine è così dura a morire: l’idea che i lavoratori cinesi siano degli “iSlaves” che muoiono per produrre il vostro iPhone. Questa immagine è anche il risultato di anni di propaganda da parte del complesso industriale delle ONG, concepita principalmente per colpevolizzare i consumatori statunitensi o tedeschi e per spingere Apple e i suoi fornitori a catene di produzione più “etiche”. Il movimento contro le condizioni di lavoro estreme nei Paesi ricchi è emerso come un povero sostituto dell’organizzazione dei lavoratori nel punto di produzione, dal momento che l’offshoring ha effettivamente ridotto il potere dei sindacati esistenti. L’impatto finale di tale movimento d’opinione sulle condizioni di lavoro è stato trascurabile. Invece, è servito soprattutto a reclutare studenti universitari idealisti nella politica istituzionale attraverso l’attivismo no-profit.

Non ci sono dubbi sull’esistenza di brutali pratiche di lavoro che sono tutt’ora presenti nel settore dell’assemblaggio elettronico, che ancora impiega ancora milioni di lavoratori in Cina. La catena di produzione dell’iPhone è diventata oggetto di attenzione, in parte, perché c’è stata una serie di suicidi di operai nell’impianto di Shenzhen dove venivano prodotti i telefoni.

Tuttavia, la realtà è che il lavoro uccide, in ogni paese e in molti settori. L’industria edile è molto più letale di quella manifatturiera, e basta leggere le notizie sull’informazione cinese per trovare almeno una volta al mese la morte di lavoratori che consegnano pacchi o cibo (1).

L’immagine della Cina come “fabbrica del mondo” è entrata nell’immaginario delle persone nei paesi ricchi perché era un bersaglio comodo per le campagne di politica dei consumatori. Queste campagne sono comuni nei paesi ricchi perché fanno leva sul senso di colpa della gente del “primo mondo”, invocano fantasie orientaliste su una popolazione asiatica inerme o sottoposta a lavaggio del cervello e sono anche relativamente poco incisive – contribuendo persino a far passare per “etiche” le aziende monopolistiche dei propri paesi. Eppure, non c’è alcuna differenza sostanziale nel grado di schiavitù tra i lavoratori cinesi che producono iPhone, i magazzinieri europei di Amazon e i lavoratori immigrati negli stabilimenti americani di confezionamento della carne.

Molti di coloro che credono che la Cina sia ancora unicamente fondata sulla catena di produzione fordista tendono a credere anche ad altre rappresentazioni obsolete e imprecise della Cina e delle sue dinamiche di lotta di classe.

Alcuni credono, ad esempio, che i lavoratori delle fabbriche ad alto utilizzo di manodopera, o i lavoratori delle fabbriche in generale, siano la frazione principale del proletariato cinese (o addirittura che “proletariato” sia sinonimo di lavoratori delle fabbriche) e che lo sviluppo di un “movimento operaio”, radicato in questa frazione, sia la chiave di ogni cambiamento progressivo o rivoluzionario. Questo punto di vista è comune a un’ampia gamma di persone all’interno e all’esterno della Cina, dagli entusiasti attivisti di sinistra agli accademici che studiano le relazioni di lavoro, o alle ONG come il China Labor Bulletin.

Per decenni si sono aspettati che gli scioperi nelle fabbriche del Delta del Fiume delle Perle (2) si innescassero un processo di sindacalizzazione autonoma (3), consentissero la contrattazione collettiva con i datori di lavoro o addirittura producessero partiti sindacali indipendenti di sinistra.

Tuttavia, niente di tutto ciò si è mai realizzato e il “movimento sindacale” in Cina è morto prima di nascere. In realtà, non esiste un’unica “frazione dirigente” (avanguardia) della classe operaia nel suo complesso o all’interno della Cina.

Questa stessa idea è di per se sciovinista, poichè rifiuta le lotte di alcuni proletari a favore di lotte che si adattano a uno schema ideologico predeterminato che ha poca relazione con la realtà. La prospettiva del movimento operaio ha sempre oscurato l’intero spettro della reale e mutevole cadenza della lotta di classe in Cina.

È difficile trovare dati affidabili e completi sulle proteste sociali, ma abbiamo fatto del nostro meglio per illustrare ciò che sappiamo nei nostri articoli “No Way Forward, No Way Back” e “Picking Quarrels“, nei numeri 1 e 2 della rivista Chuang (2016 e 2019, nota 4).

Un’analisi più attenta dei dati attuali mostra che non solo la struttura occupazionale della Cina si sta spostando dal lavoro in fabbrica ad alta intensità di manodopera verso una gamma più nebulosa di servizi e produzione ad alta tecnologia, ma anche che le proteste e le lotte sociali si stanno allontanando dai modelli degli anni 2000 e dei primi anni 2010. Quella stagione era infatti stata segnata dalle proteste rurali contro l’appropriazione della terra da parte dello Stato e dalle lotte industriali negli spazi urbani o periurbani. Le lotte nel settore manifatturiero sono diminuite drasticamente come percentuale di tutte le proteste, come affermano i dati di Wickedonna e altri database (nota 5) come quello redatto da China Labor Bulletin. Allo stesso tempo, altre forme di agitazione sociale, come lotte intorno al tema abitativo portate avanti da strati sociali più abbienti, sono in crescita e negli ultimi anni hanno spesso superato le vertenze industriali.

Nel frattempo, le forme della lotta di classe si sono diversificate. L’introduzione di contratti di lavoro flessibili e di varie forme di lavoro nella “gig economy” hanno aumentato sia la precarietà sia gli orari di lavoro in un’ampia gamma di settori, portando nuove questioni alla ribalta.

Come avevamo scritto nel nostro approfondimento “Picking Quarrels”:

Invece che coalizzarsi intorno ad una supposta identità “operaia”, si stanno formando soggettività di tipo diverso in relazione all’attuale struttura dell’economia cinese. Una prospettiva comunista, se possibile, deve essere costruita collettivamente, piuttosto che importata da circoli di attivisti o da accademici isolati. Inoltre, la prospettiva comunista deve unire segmenti profondamente fratturati del proletariato, nonostante vi possano essere interessi contrastanti al loro interno. Infatti, oggi non ci sembra possibile poter contare su un unico soggetto egemonico che rappresenti gli interessi della classe nel suo complesso, come l’operaio massa ha fatto (per breve tempo e con risultati discutibili) per il movimento operaio di un tempo. Se questo orizzonte comunista arriverà, quasi certamente assumerà una forma inizialmente estranea alle nostre aspettative, adattando le identità preesistenti in modi imprevedibili e persino sgradevoli.

Queste tendenze caotiche sono anche il riflesso dei cambiamenti nella struttura occupazionale della Cina. Questa nel prossimo futuro assomiglierà sempre di più a quella dei paesi “più sviluppati” e “postindustriali”, molti dei quali sono ancora i principali produttori di beni industriali del mondo, anche se tale produzione è stata esternalizzata. I lavori di merda nell’industria dei servizi dominano già l’economia cinese, e l’occupazione sta diventando sempre più precaria e poco retribuita, mentre il costo della vita cresce.

La struttura occupazionale della Cina sta diventando sempre più dipendente dal settore dei servizi e si sta allontanando dall’agricoltura, dall’industria mineraria, dalla produzione e dall’edilizia. Come nei paesi più ricchi, anche nelle principali città cinesi il mercato del lavoro si sta biforcando: la maggioranza dei residenti è impiegata in servizi e lavori logistici a bassa retribuzione e a bassa qualifica, mentre una minoranza è impiegata in lavori a più alta retribuzione e maggiormente qualificati.

Quanto scritto sinora non significa che tutto ciò che riguarda l’immagine della “fabbrica globale” sia sbagliato. Tale immagine affonda le sue radici negli sviluppi economici reali degli anni novanta e duemila. I posti di lavoro nel settore manifatturiero sono cresciuti drasticamente negli anni successivi all’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001.

Il capitale straniero si è riversato nelle regioni costiere, imponendo un massiccio trasferimento di forza lavoro dal settore agricolo a quello manifatturiero o nel settore dell’edilizia.

Molti dei primi grandi scioperi e proteste nel settore manifatturiero si sono svolti proprio contro le condizioni di lavoro insopportabili della catena di montaggio, come il cibo insalubre delle mense, i bassi salari e la gestione aziendale militaresca.

Le condizioni peggiori si riscontravano nei settori a più alta intensità di lavoro come quello tessile. Anche in questo caso, però, nulla di tutto ciò è stata una peculiarità cinese. Simili fabbriche hanno operato (e spesso continuano a operare) nei precedenti centri di produzione di abbigliamento, anche all’interno dei paesi ricchi. Nel corso degli anni duemila, tuttavia, la graduale eliminazione del “Multi Fibre Arrangement” (MFA), che aveva imposto quote che limitavano la quantità di esportazioni di abbigliamento verso i paesi ricchi, ha finito per concentrare ancora di più la produzione tessile, con la Cina che ha avuto la meglio sulla maggior parte degli altri concorrenti.

Questa confluenza di fattori ha fatto sì che le zone industriali cinesi diventassero il paradigma globale dello sfruttamento del lavoro per gran parte del mondo.

Eppure, dopo un decennio di migrazione di massa verso le zone di produzione costiere, il costo del lavoro ha iniziato a salire. Quando ciò accade, i capitalisti si trovano di fronte a due scelte: l’aggiornamento tecnologico per aumentare la produttività o la delocalizzazione alla ricerca di manodopera più economica. Entrambe queste tendenze hanno iniziato ad accelerare in Cina nel corso degli anni ‘10. L’espansione dei posti di lavoro nel settore manifatturiero ha raggiunto il suo picco nei primi anni del decennio e da allora è diminuita (sia in termini di numero totale di lavoratori del settore che di quota dell’occupazione totale). A ciò è corrisposto un calo più contenuto della quota del settore manifatturiero sulla produzione economica totale: Dal 2010 al 2019, il contributo del settore al PIL è sceso dal 31,61% al 27,17%. Allo stesso tempo, molte delle industrie a più alta intensità di manodopera, con le paradigmatiche condizioni di sfruttamento alla catena di montaggio, si sono trasferite fuori dalla Cina o più in profondità nell’entroterra cinese (internal relocation), dove la manodopera e la terra sono più economiche, le normative ambientali più permissive e i governi locali più disposti a sovvenzionare il capitale industriale.

Altre industrie hanno seguito un percorso diverso, effettuando costosi aggiornamenti tecnologici e licenziando i lavoratori man mano che entravano in linee di produzione di fascia più alta.

Per un’illustrazione più completa dello sviluppo industriale della Cina tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, si vedano i nostri data brief: “The changing geography of Chinese industry” e “Measuring the profitability of Chinese industry“.

Queste statistiche molto generali sottovalutano quanto la struttura occupazionale in Cina si sia spostata dal settore manifatturiero “fordista” a quello dei servizi precari. Secondo le più recenti indagini sui lavoratori migranti, i posti di lavoro nel settore manifatturiero, pur diminuendo di numero ogni anno, hanno anche registrato una crescita salariale più alta rispetto agli altri settori. Al contrario, il settore dei servizi, che oggi impiega il maggior numero di persone, ha salari più bassi e una crescita salariale più lenta. I salari dei lavoratori migranti sono cresciuti più rapidamente nel settore manifatturiero, a un tasso del 3,5%, mentre i quelli nei servizi a basso valore aggiunto sono cresciuti tra l’1,7% e il 2,1%.

Per quanto riguarda il tempo di lavoro, gli stereotipi sui lavoratori delle fabbriche ad alta intensità di manodopera evocano immagini di orari estenuanti per svolgere compiti monotoni nelle catene di montaggio. I lavoratori del settore manifatturiero lavorano sicuramente a lungo, ma quelli dei servizi lavorano ancora di più in un paese in cui gli orari di lavoro stanno raggiungendo livelli senza precedenti.  Se dieci o vent’anni fa era comune che i lavoratori migranti dell’edilizia e dell’industria manifatturiera morissero per esaurimento o per eccesso di lavoro, oggi è più frequente sentire di che incidenti di questo tipo si verifichino nelle industrie tecnologiche. L’eccessivo orario di lavoro è alla base delle parole d’ordine di protesta sul web come “sdraiarsi” (tangping 躺平) o il sistema “996”, in cui i datori di lavoro si aspettano che i dipendenti lavorino dalle 9 alle 21 per sei giorni alla settimana.

I dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese (NBSC) mostrano nel corso degli anni un chiaro aumento dell’orario di lavoro. Secondo le indagini sull’orario medio settimanale di tutti gli occupati, le ore di lavoro sono aumentate costantemente negli anni duemila, raggiungendo un picco iniziale nel 2005. Questo dato è poi calato durante la crisi finanziaria globale del 2008-2009, per poi ricominciare a salire, prima gradualmente e poi in modo più marcato negli ultimi anni.

L’ufficio ha iniziato a pubblicare dati su base mensile alla fine del 2019, da cui è emerso che le ore di lavoro settimanali hanno raggiunto la cifra più alta mai registrata nell’ottobre del 2021, quando l’economia cinese era andata in tilt nel bel mezzo della ripresa post-covid.

Altri dati raccontano una storia simile e mostrano che il lento e costante aumento delle ore di lavoro è un fatto cronico. L’ufficio statistico nazionale cinese ha pubblicato nel 2017 una “Time Use Survey”, un secondo rapporto dopo quello pubblicato nel 2008. I risultati hanno mostrato che la percentuale di lavoratori che fanno straordinari è aumentata dal 12%, portando questo dato al 42% totale dei lavoratori. L’indagine ha anche dimostrato che la Cina ha orari di lavoro più lunghi di qualsiasi altro paese con dati comparabili, ad eccezione della Colombia, e orari di lavoro più lunghi di qualsiasi Paese dell’OCSE, ad eccezione della Turchia.

In conclusione, né la condizione del proletariato cinese né le sue lotte possono oggi essere racchiuse unicamente nell’immagine della “fabbrica del mondo”. Infatti, la sua composizione di classe e le sue lotte sono sempre più simili a quelle di altri paesi “più sviluppati”. Per capirlo, dobbiamo superare molti dei luoghi comuni che dipingono la Cina come fondamentalmente diversa dal resto. Questo esercizio è fondamentale al fine di poter realizzare insieme il nostro destino comune e sostenerci meglio a vicenda nella nostra lotta comune.


Nota 1: Non esistono statistiche ufficiali dettagliate sulle morti dei lavoratori nel settore logistico, o manifatturiero. Tuttavia, i telegiornali cinesi riportano regolarmente incidenti sul lavoro, ferite orribili e decessi. Progetti come il China Labour Bulletin’s Workplace Accident Map hanno registrato centinaia di gravi incidenti sul lavoro all’anno, con morti o feriti multipli. Nel 2019, prima della pandemia e in condizioni più “normali” per i fattorini, il CLB ha registrato 15 decessi di fattorini.

Nota 2, aggiunta dal traduttore: l’area del delta del fiume delle perle è la macro area nella provincia del Guangdong che al suo interno comprende città divenute famose come Shenzhen, Dongguan, Foshan o luoghi storicamente più noti come Canton, Hong e Macao. Quest’area conta circa 60 milioni di abitanti.

Nota 3, aggiunta dal traduttore: in Cina non esiste libertà di rappresentanza sindacale, ossia tutti i lavoratori che vogliono essere sindacalizzati devono farlo attraverso l’All-China Federation Trade Union. Altresì detto sindacato unico, strettamente legato al Partito Comunista, secondo il vecchio schema di “cinghia di trasmissione” tra Partito e masse operaie.

Nota 4, aggiunta dal traduttore, ricordiamo che un lungo articolo della prima rivista dei Chuang pubblicata nel 2016 è stato tradotto e stampato dagli amic* di Porfido. Il testo è il “Sorgo e Acciaio: il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea”  (Sorghum and Steal: The Socialist Developmental Regimen and the Forging of China).

Nota 5, in Cina non vi è un diritto di sciopero formalmente garantito.

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