Quale street art se la street non c’è più? Interviste a Soviet e Never2501 sul caso di Bologna
Che lettura dai a caldo, in prima battuta, della proposta del progetto Genius Bononiae di realizzare una mostra sulla “street art”, staccando le opere dalla “street” e inserendole all’interno di un museo, così astraendole dal contesto originale in cui erano state concepite e pensate dall’autore?
Never2501: Ad un prima lettura delle interviste rilasciate da Christian Omodeo e Roversi-Monaco la cosa che mi ha più colpito è stata la sicurezza, quasi sfociata in arroganza, con cui queste due persone hanno reso pubblico il loro intento di intervenire nella città di Bologna con una serie di strappi ai danni di Ericailcane e Blu. Pur NON essendo un diretto interessato (non sono neanche di Bologna) mi è sembrato chiaro fino da subito che l’intento, piuttosto che essere di documentazione, fosse un processo di sottrazione/saccheggio. Credo ci siano varie cose da analizzare.
La tecnica dello strappo o stacco, con cui peraltro ho abbastanza familiarità avendo strappato frammenti di miei muri che poi sono stati portati in una mostra a maggio 2015 a Wunderkammern Gallery a Roma a cura di G. Matta e Nina Bassoli (Coordinatrice scientifico della mostra Innesti/Grafting, Padiglione Italia, 14. Biennale di Architettura), non è a mio parere adatta alla conservazione di opere di così grosse dimensioni. Immaginatevi a strappare una parete di almeno un centinaio di metri quadri… sarebbe impossibile, dove la mettiamo? Mentre invece la fotografia si presta perfettamente, riportando sia l’opera in sè, sia il luogo in cui è stata concepita, adempiendo così ad un doppio ruolo, quello di documentazione sia artistica sia architettonico-sociale. Ricordiamoci che per questi artisti il luogo influenza attivamente il processo, quindi uno strappo di un frammento o anche di tutta la parete non presenterebbe l’opera in toto ma solo una mutilazione dell’opera originale privata del suo contesto/attivatore architettonico.
Soviet: Credo che innanzitutto si debba cercare di capire quali sono le motivazioni e gli interessi che stanno alla base di questa operazione, e detto in tutta franchezza da quello che ho potuto leggere fino ad oggi non ci vedo un granché di genuino. Quello che viene spacciato per un salvataggio di alcune opere dalla loro sparizione mi sembra la solita operazione commerciale, un saccheggio bello e buono spacciato successivamente per un’azione da filantropi. Va da sè che questi interventi artistici sul tessuto urbano vivono e hanno un senso proprio in relazione al luogo e al contesto in cui vengono realizzati, e la loro asportazione coatta e il loro allestimento all’interno di un museo ha poco a che vedere con quel concetto di fruizione libera e pubblica dell’opera in questione. Mettiamoci poi il fatto che la scelta di queste opere da salvare sarà appannaggio di una cerchia ristretta di esperti auto-dichiaratisi tali, che stranamente le opere di cui si parla sono quelle dal valore economico più alto, che i vari curatori hanno già dichiarato di fregarsene di un’ipotetico diritto d’autore, qualora gli autori delle opere dovessero provare a rivalersi di questo davanti alla magistratura… insomma è così difficile vedere che è solo un altro dei mille modi con cui il mondo del commercio dell’arte con tutta la sua pletora di esperti, galleristi, curatori e personaggi vari cerca di farsi altre quattro lire sul fenomeno della street art o arte pubblica del caso?
Da parte mia non ho mai particolarmente amato quando il mondo dell’aerosol art, dei graffiti o della street art entra nelle gallerie, anche se questo accade continuamente e in maniera puntuale dagli albori del fenomeno negli USA. Nessuno mette in discussione la qualità o il valore di alcuni artisti e delle loro opere, è che esse secondo il mio modesto parere hanno un senso proprio perché esistono al di fuori del mercato dell’arte riconosciuta e sono appunto pubbliche, oltre che spesso e volentieri anche illegali. Ed è qui che troviamo la particolarità del fenomeno e quella peculiarità che lo rende interessante: di bravi illustratori è pieno il mondo, ma c’è una bella differenza tra questi e chi si vuole definire “street artist”. Capisco e accetto che qualcuno si sia creato una professionalità partendo dal dipingere in strada, e che dopo anni diventi un artista riconosciuto dai circuiti mainstream e che il suo lavoro in questo senso si evolva in direzioni diverse, non ci vedo niente di male… però c’è una bella differenza tra la scelta di dipingere quello che si vuole dove si vuole come rivendicazione di una riappropriazione dello spazio urbano per la propria espressione creativa e il mettersi a fare quattro disegni su qualche muro per finire ad esporre in gallerie quotate.
In questo senso è ancora molto forte l’esempio del writing, che rispetto alla street art ha mantenuto quasi completamente il suo portato conflittuale, in cui la sfida alla città e alle autorità resta parte integrante dell’agire di chi dipinge. Prima che si sviluppassero i nuovi linguaggi della street art il writing si è diffuso a macchia d’olio nei cinque continenti sulla base dello spirito di emulazione, del senso della sfida e del rischio, della competizione e del senso di appartenenza alle proprie crew, non certo inseguendo un potenziale placement nel mondo degli artisti da galleria. E qui si trova quanto di realmente unico e interessante c’è in questo fenomeno, altrimenti avremmo avuto generazioni di grandi decoratori murali e il mercato dell’arte se ne sarebbe occupato per altri motivi. Insomma il mio punto di vista è che l’arte di strada o l’arte pubblica in strada acquista il senso che ha e in strada deve rimanere. Anche la temporaneità delle varie opere è parte integrante di questa realtà. I muri compaiono, scompaiono, vengono coperti, vengono ridipinti. E’ così che funziona. Posso capire che si possa provvedere a difendere qualcosa realizzato da persone scomparse o che in alcuni particolari casi, sempre che sia l’autore dell’opera a volerlo, si possa cercare qualche forma di tutela o di restauro per qualcosa di particolarmente importante e significativo, ma in linea di massima il fatto di essere anche effimera è una caratteristica a tutti gli effetti dei graffiti/murales/pezzi ecc. Ed è giusto così.
Quanto una idea di questo tipo devia rispetto all’origine concettuale della street art, ovvero una pratica artistica slegata dai circuiti del “mercato dell’arte” , con l’intenzione di essere fruita da tutti e vissuta ogni giorno dalle persone? Non c’è il rischio che questo tipo di pratica artistica possa essere in questa maniera distorta, al di là di quelli che possono essere altri ragionamenti come la necessità degli artisti di avere un reddito e così via?
Never2501: Credo che ci siano una serie di cose da puntualizzare a monte. La street art NON esiste. Questa parola tenta di racchiudere sotto uno stesso cappello molte realtà completamente scollegate tra di loro. Questa è una parola in perfetto stile pubblicitario per cercare di uniformare una serie di micro gruppi, che in realtà è una molteplicità di scene più o meno underground, raggruppandola in un unico macro gruppo. Quindi diciamo che la prima domanda cade sotto questi presupposti. La Street art non esiste quindi anche l’origine concettuale della SA a mio parere non esiste. Diciamo che più che altro considero sbagliato a priori appropriarsi della proprietà intellettuale e materiale di un opera.
Credo che per fare un operazione trasparente e onesta intellettualmente, i curatori e gli organizzatori di questa iniziativa avrebbero dovuto consultarsi preventivamente con gli artisti interessati, prima di cominciare un progetto di questo genere. Questa mostra sembra essere il solito espediente per monetizzare sia la parte fisica dell’opera che quella puramente intellettuale. Capiamoci meglio: le varie giunte hanno sempre ostacolato la creazione di opere pubbliche di determinati artisti e le pratiche portate avanti in determinati spazi (molte delle opere strappate vengono da spazi bolognesi precedentemente occupati), per poi proporre di musealizzare frammenti di opere, senza neanche cercare un confronto con chi quelle opere le ha create sia fisicamente, sia con quelle entità che hanno creato le possibilità per cui alcune di quelle stesse opere fossero create. Ricordiamoci che quei muri difficilmente sarebbero stati dipinti se non ci fossero stati in primis gli artisti e poi in alcuni casi anche determinati spazi. Quindi artisti e spazi occupati hanno fatto un gran favore alla città (visto che addirittura si sta proponendo la musealizzazione di questi frammenti) e la città li ripaga “strappando” opere e percorsi.
Soviet: In parte ho già risposto a riguardo nella domanda precedente, aggiungerei che il mercato dell’arte è appunto un mercato e come tale agisce e ragiona. Quando iniziarono a battere le opere di Banksy a cifre record i primi critici iniziarono ad interessarsi al fenomeno dei graffiti e della street art. Qualcuno ricorderà Sgarbi definire i pezzi sui muri del Leoncavallo una sorta di Cappella Sistina di Milano… a parte questa dichiarazione abbastanza improbabile era chiaro che si stava aprendo la strada allo sfruttamento da parte del mercato dell’arte di questo nuovo fenomeno. Quelli che a Milano erano dei veri e propri nemici pubblici numero uno (la guerra ai graffiti è stata il cavallo di battaglia di quasi tutte le amministrazioni di destra del capoluogo lombardo nell’arco degli anni) si trasformavano così in artisti da esporre in gallerie, in risorse per la città e quant’altro. Il circuito allora squisitamente underground che c’era a livello cittadino entrava quindi nel mondo del mainstream dalla porta principale. E così ti ritrovavi la street art e i graffiti nelle campagne di comunicazione, nelle pubblicità e nelle trasmissioni di vendita di quadri in tv…
Premesso che era ora che un’opinione pubblica assolutamente insensibile, ed educata all’odio verso chiunque decidesse di usare gli spazi urbani per dipingere al di fuori di ogni autorizzazione, si svegliasse e si adeguasse a quanto stava accadendo nel resto del mondo dove la presenza di graffiti e street art era una cosa accettata, tollerata e spesso apprezzata, sta di fatto che nell’arco di qualche anno il fenomeno è stato gonfiato, impacchettato e venduto. Tra le prime grandi mostre, tra cui quella al PAC che segnò un vero e proprio punto di svolta, e tutte le altre varie kermesse si può dire che si sono spremuti il limone fino alla buccia. Ben venga che quelli che ieri erano dei vandali da colpire e reprimere oggi siano degli artisti riconosciuti, l’unica cosa che un po’ mi spaventa di tutto questo è che il motore di tali cambiamenti non è quasi mai motivato da una qualche evoluzione culturale reale, quanto piuttosto dagli interessi del mercato. La certezza è che nonostante tutto nessuno riuscirà a fagocitare completamente questo mondo e schiere di ragazzini con le bombole continueranno, fortunatamente, a riprendersi gli spazi che vogliono sui muri delle città o sul metallo.
Non è un caso che molte delle opere che dovrebbero essere trasferite sono opere che alloggiano sulle murate esterne o interne di spazi sociali occupati, già sgomberati nella maggior parte dei casi. Si può leggere in questa “coincidenza” il fondersi di due percorsi di gentrificazione che mirano a dare profitto ai manovratori città sempre più rese deserto e private di spazi di socialità?
Never2501: Per quanto riguarda gli spazi per la socialità fino dalla fine degli anni 80 le nostre città sono diventate sempre più inospitali per quanto riguarda cultura e socialità. Si è andati in un’unica direzione: quella della socialità a pagamento e dell’omologazione del tempo libero. Perché i comuni delle città non cercano di confrontarsi con chi queste cose le ha fatte prima e meglio, invece di inserire personaggi che si occupano di curatela e organizzazione di eventi culturali i quali dimostrano sempre più spesso di non essere adatti per il ruolo che gli viene affidato?
Soviet: Il tutto è in effetti è abbastanza grottesco… le amministrazioni cittadine si schierano in prima linea contro tutti gli esperimenti di socialità dal basso aliene alla logica della mercificazione della cultura, osteggiando le esperienze di spazi occupati e autogestiti, combattendoli, reprimendoli e sgomberandoli per poi a lavoro finito rivalutare il valore artistico di posti rimasti vuoti e sintomatici del deserto culturale che hanno in mente. Fa un certo effetto quindi pensare che dopo le camionette e le ruspe arrivino gli “strappatori di affreschi” a difendere queste gemme d’arte regalate alla città, il tutto naturalmente sempre a spese dei contribuenti.Il problema del recupero delle controculture da parte del mondo mainstream è in realtà un problema endemico: lo abbiamo visto con il punk, con la cultura traveller la visual art e lo vediamo in maniera particolarmente evidente con tutto quello che riguarda graffiti/street art e cultura hiphop in senso più ampio. Quello che prima era una forma di comunicazione e di creatività solitamente fuori dalle logiche del mercato viene appunto fagocitata, digerita e riproposta a pagamento per il pubblico.
Insomma quando prima per trovare un certo tipo di fenomeni o esperienze dovevi varcare la soglia di spazi occupati e autogestiti adesso il tutto te lo ritrovi in vendita un po’ ovunque. Da questo punto di vista rimane indiscutibile il ruolo pionieristico dei CSOA rispetto alle tante tendenze culturali ed artistiche nate negli ultimi decenni.In fondo si tratta di ripartire proprio da qui, continuare a sviluppare, immaginare e inventare linguaggi espressivi, tendenze, controculture che sappiano essere rivoluzionarie dal punto di vista non soltanto artistico, ma che possano porsi ad argine contro il mercato, restando libere, gratuite e possibilmente anche antagoniste. Spesso i circuiti underground vengono descritti come una sorta di ghetto in cui ci si finisce per rinchiudere, io ritengo invece che sia tempo di rivendicare quei mondi che siamo stati in grado di costruire come delle oasi, e che sia tempo di difenderle.
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