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Quel che accade a Milano

Tagli di nastri, passerelle di stato, mobilitazione mediatica: ma quel che accade a Milano, nei primi giorni di Expo, è anzitutto la trasfigurazione spettacolare di un modello di sfruttamento e controllo della forza lavoro italiana e migrante, totalmente in linea con le direttrici dell’Unione Europea. A questa trasfigurazione dobbiamo contrapporre l’evidenza di un rifiuto comune che si rende palese. Expo si costituisce tra una settimana come valorizzazione mitizzata delle figure sociali della forza lavoro contemporanea. Noi siamo quelle figure sociali, disperse sul tessuto produttivo ma riaggregate nella decisione comune di sottrarci a quel mito, alle dinamiche di quella valorizzazione. Unico valore che riconosciamo è la secessione autodeterminata dai piani criminali del nostro nemico. Andiamo a Milano con in mente le centinaia di morti nel canale di Sicilia. Pisapia ha detto che senza migranti al lavoro Expo non sarebbe stato pensabile. L’apparente cinismo di questa affermazione si vende al pubblico grazie all’illusione che la valorizzazione differenziale degli stranieri, operata dal capitale, anziché rappresentare un interesse di parte sia realizzata nel loro stesso interesse, in un interesse generale. Andiamo a ribaltare questa insopportabile ipocrisia, invadiamo il cemento in cui si è fatta materia.

Secondo la fallimentare mitologia sorridente di Expo gli operai, migranti e non, non si spezzano la schiena perché sono sfruttati, ma perché sono integrati nel contratto sociale di una civiltà aperta, che tuttavia deve governare con la morte i suoi flussi e le sue frontiere. Analogamente, i lavoratori del comune di Milano o delle aziende di trasporto pubblico (che avranno annullate le ferie, imposti gli straordinari, modificati in peggio turni e orari per mesi e mesi) non saranno sottoposti a sforzi e stress addizionali in cambio del nulla, come avviene in realtà (è stato già dichiarato sciopero dei trasporti locali il 30 aprile), ma collaboreranno al grande sforzo “della città” (non dei suoi potentati) per rendere Expo una manifestazione indimenticabile. Le ragazze e i ragazzi che lavoreranno gratis nei padiglioni non saranno, allo stesso modo, giovani schiavizzati dall’economia della promessa, ma sbarbini intelligenti che sanno come rendere invincibile il loro cv; e chi rifiuta certe offerte di lavoro, ritenendole una fregatura, non è una persona che – come chiunque farebbe – cerca di vederci chiaro nei termini della propria assunzione, ma un bamboccione “choosy” che non capisce quanto dovrebbe leccarsi le dita per aver trovato un posto, quale che sia.

L’idea-forza della visione renziana coniuga i padiglioni milanesi, un mucchio di quattrini che dal bilancio pubblico si trasferisce in mano ai privati, le vacanze “lavorative” di Poletti per gli studenti delle superiori e l’assenza di limiti allo sfruttamento spacciata per “tutele crescenti” nel Jobs Act. Le tutele, in effetti, sono crescenti: l’immigrato che si spezza la schiena nel cantiere Expo potrà avere (forse) il rinnovo del permesso di soggiorno (ammesso che ne abbia uno), lo studente che si abitua a lavorare gratis sarà un giorno assunto da qualche parte (ma potrà in ogni momento essere lasciato a casa) e chi non si farà troppe domande sulla sua assunzione potrà portare a casa una misera pagnotta. È l’economia del “merito”: là dove il merito, il premio, stanno tutti nel “rapporto” – su questo Renzi ha insistito moltissimo, in questi mesi – che il lavoratore è in grado di instaurare con il suo padrone. Un rapporto che deve saper coniugare la produttività (ossia la disciplina) con il basso costo (il sacrificio). Se sacrificati e disciplinati, sottopagati e rassegnati, avremo un lavoro e magari, se migranti, anche un pezzo di carta che allontani l’incubo della deportazione.

Obiettivo evidente del progetto renziano, transustanziato nelle forme propagandistiche dell’evento Expo, è approfondire il divario politico di potere tra forza-lavoro e impresa. Il concetto di “crisi”, che dobbiamo pensare come attrezzo ideologico permanente di un’epoca iniziata da tempo, è già di per sé strumento discorsivo per riorganizzare i rapporti in senso sfavorevole a chi vende il proprio tempo e la propria esistenza al capitale; con Expo Renzi intende dare rappresentazione mediatica totalizzante degli effetti politici di questo strumento, maneggiato da una classe dirigente che si presenta come nuova. Non è sufficiente, allora, attaccare il governo e la sua vetrina milanese con gli argomenti della corruzione e della disoccupazione; occorre sfoderare in tutta la sua chiarezza il rifiuto delle condizioni di lavoro che ci vengono proposte, o promesse.

La critica di questa organizzazione del lavoro non può separarsi da quella della trasformazione territoriale e urbanistica che ne è al tempo stesso presupposto e obiettivo. La gran parte delle persone impiegate in o per Expo sono state messe al lavoro per sventrare la città creando un mega-cantiere permanente (le nuove autostrade in provincia, o la nuova linea metropolitana, non sono state neanche iniziate). La trasformazione del territorio è tutt’uno con la rapina della ricchezza sociale. Oggi il capitale sottrae alla popolazione lavorativa una parte immensa di ricchezza sotto forma di tasse (ciò vale tanto per il lavoro dipendente quanto per parte di quello formalmente indipendente, di fatto sottomesso in molti casi alle forme reali dell’estrazione di valore). Neanche la minima parte di ricchezza prodotta, che viene restituita sotto forma di salario, può/deve restare nelle mani di chi lavora. Irpef, Iva, Imu nelle sue diverse forme, tasse sui rifiuti, RC auto e mille altri balzelli sottraggono a tutti noi moltissimo di quel poco che ci rimane per vivere.

Per cosa? Per rendere possibile il trasferimento della ricchezza che produciamo verso un welfare immaginario che lascia posto, nelle leggi di stabilità, all’altrove permanente di Expo, al Tav, alle nuove varianti urbanistiche e alle nuove autostrade, insomma ai buchi scavati per essere riempiti in una variante piuttosto ironica di keynesismo, dove non si tratta, come negli anni Trenta del New Deal, di elargire soldi al popolo giustificandoli con artificiose soluzioni lavorative (pena l’intuizione che il lavoro umano, nell’economia possibile contenuta in quella reale, serve, in tendenza, sempre meno) bensì elargire ricchezza socialmente prodotta all’impresa privata legale e illegale, giustificando questo storno continuo con una sottospecie di idea progressiva in cui senza grandi eventi e grandi opere l’economia nazionale finirebbe nel baratro dell’arretratezza e dell’isolamento internazionale.

Il consumo non viene rilanciato con più potere d’acquisto, perché esso ha luogo secondo investimenti psicosociali, se quel poco che resta alle famiglie viene speso nel grande evento che essi hanno contribuito a costruire direttamente o indirettamente con la fatica e il denaro che è stato loro estorto. L’onnipervasività del logo di Expo è espressione di un totalitarismo estetico che non si sviluppa certo oggi, ma oggi tenta di giocare tutte le sue carte iconologiche per produrre forme spurie di mobilitazione totale, in tempo di pace tendenziale sui nostri territori. Oggi il capitale non ci mobilita con le parate militari, i funerali di stato o le adunate oceaniche di fronte a un leader. Fa anche questo, certo, perché le forme tradizionali di auto-legittimazione non saranno mai completamente abbandonate; ma le vere adunate oceaniche contemporanee sono i saloni del gusto. Le qualità maggiori dell’intelligenza generale, organizzata in modo parassitario dal capitale, sono indirizzate alla creazione di esperienze di consumo (fiere, festival, sport, arte, eventi) attorno a cui costruire un indotto: se il papà invita la mamma a Expo, tutta la famiglia pagherà anche l’alta velocità, la metro, il parcheggio o l’autostrada, l’albergo e il fast-food.

Il sogno renziano di un’Italia “che ce la fa” non è allora che la riproposizione, per l’ennesima volta, del vecchio modello di fabbrica sociale dove si vive di lavoro e si lavora anche quando si consuma, almeno nel senso che l’accesso stesso ai beni è indirizzato e compartimentato secondo indicazioni unilaterali fornite dal mondo dell’informazione, sempre più appiattito sulla pura pubblicità. Niente di nuovo: solo una versione apparentemente più moderna, “di sinistra”, delle promesse berlusconiane di quindici o dieci anni fa, unite a una brutalizzazione dei rapporti sociali dove vige o l’obbedienza al padrone o la presa in carico dell’assistente sociale e della polizia. Da questo punto di vista la quantità di arresti avvenuta nei mondi dell’illegalità diffusa milanese in questi mesi è illuminante (persino il carcere di Cremona ha dovuto far posto a una parte di detenuti provenienti da una San Vittore esplosiva); e lo stesso utilizzo di oltre duecento detenuti nelle mansioni lavorative previste per Expo esprime la volontà di produrre una macchina complessiva dove tutti possono avere un posto nella produzione se accettano (magari, come in questo caso, perché vi sono obbligati) di far propria una logica premiale schiavistica che accomuna vecchi e giovani, italiani e stranieri, delinquenti e persone perbene.

Nonostante ciò, non dobbiamo commettere l’ingenuità di pensare Expo come la forma che ha assunto la nostra società, su un piano reale; giacché il piano reale si presenta come coriaceo e profondamente eccedente una simile visione, che resta all’ordine del giorno per la controparte nella dimensione del progetto. Expo è un tentativo. Per questo ha senso lanciare una sfida. Mettiamo alla prova il presidente del consiglio e la sua tronfiaggine, a Milano. È convinto di poter controllare con la propaganda il precariato sociale? È convinto di distribuirci come soldatini sul mercato del lavoro, di prospettarci l’unico futuro possibile cui saremmo già abituati? Mostriamo che non è così. Questo primo maggio, a Milano, non ci dovrà essere nessuna “festa” del lavoro e nessuna festa del lavoro offerto da Expo, ma tanti giovani abbastanza “choosy” da non accettare i ricatti di chi ha organizzato i rapporti sociali in questo modo insensato. Renzi/Expo è fragile. Attacchiamolo quando e dove possiamo fargli più male.

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