
Quella macchina rodata della critica

Il primo grande nodo consiste nell’espressione della necessità di rompere con la tradizione sempre parziale e settaria (quando non fosse introvabile) degli studi francesi su Marx. Qui invece Marx viene preso per intero, il filosofo l’economista il politico, ed è solo questa lettura, storicamente e filologicamente impiantata, senza «cesure» storiche né teoriche, che può permetterci di riprendere solidamente in mano l’interezza del discorso marxiano e di avanzare ipotesi nuove che si confrontino con quelle marxiane, attorno ad un progetto di emancipazione per l’attualità. Questa distanza critica dalla continuità della tradizione francese (ed in particolare dall’althusserismo), questo sentirsi in un’altra epoca dal XIX e XX secolo, non impedisce che gli autori si impegnino attorno a talune difficoltà ereditate dal passato. Solo per fare un paio di esempi, Dardot-Laval puntano criticamente molto in alto quando, ad esempio, in una polemica che sembra solo terminologica ma non lo è, traducono il concetto marxiano di Mehrwert, con plus-de-value. Non si tratta semplicemente di un’elegante reminiscenza lacaniana ma di una forte polemica, non solo contro un uso consolidato ma (sembra) anche contro le concezioni quasi metafisiche del plusvalore che tanto hanno afflitto i comunismi religiosi. Non meno decisiva sembra la presa di distanza, solo per fare un altro esempio, dalla discussione di un tema, indubbiamente centrale per i marxisti, sulla maggiore o minore rilevanza delle determinazioni oggettive o di quelle soggettive nella costruzione del progetto marxiano di comunismo.
 
Prospettive di emancipazione
 
Il   secondo nodo sta nell’esporre positivamente la novità del compito di   una lettura di Marx oggi. Deve essere una lettura che si confronta con   problemi contemporanei e ne propone soluzioni adeguate. Il percorso   marxiano va confrontato al fallimento del «socialismo reale», la   dialettica del materialismo storico va messa in tensione con le   metodologie genealogiche contemporanee, ed infine la critica economica e   le prospettive politiche del marxismo vanno fatte reagire non con   modelli astratti ma con le nuove pratiche politiche del proletariato. La   definizione del campo di ricerca, attorno alle nuove condizioni   dell’emancipazione, esibisce qui una forza critica esuberante, talora   distruttiva di vecchi miti, ma costruttiva d’ipotesi feconde. La   tensione che qui si apre è molto forte poiché lo stacco metodologico è   radicale. Dardot e Laval dichiarano che bisogna leggere Marx per rendere   conto di «quello che nel suo pensiero si è rifiutato d’essere pensato»  –  intendendo con ciò il rifiuto, l’esclusione dal materialismo storico  di  ogni tendenza evoluzionista, di ogni dialettica chiusa, di ogni   teleologia determinista. Perciò si riparte qui da La Sacra Famiglia: «La   storia non fa nulla, essa non ha dei fini perché essa non è null’altro   che l’attività degli uomini che perseguono i loro fini». Dunque «Il   Capitale» va sottoposto ad una critica serrata laddove esso espone una   legge che conduce il capitale alla sua propria distruzione.   L’affermazione che il capitale è l’ostacolo definitivo allo sviluppo   capitalistico e che ciò automaticamente apre al comunismo, negazione   della negazione, le determinazioni dall’accumulazione che conducono alla   soppressione del capitale – bene, queste sono tutte posizioni che il   pensiero marxiano ha subìto piuttosto che elaborato. L’evoluzionismo   radicale dell’epoca, una sorta di darwinismo che investe e naturalizza   la dialettica hegeliana, le metafore continuamente riprese   dall’ostetricia, laddove il capitale genera, concepisce, partorisce il   comunismo, si rivelano dannosi per comprendere lo sviluppo reale del   capitalismo. Per Dardot e Laval «Il Capitale» non è un trattato di   economia politica: è un trattato politico che costruisce una prospettiva   di emancipazione. 
Non bisogna credere che questo programma sia   facile da sviluppare. Si tratta, di impostare una lettura di Marx che   comprenda un progetto di una rivoluzione contro das Kapital (come ebbe –   felicemente – a scrivere Antonio Gramsci nel 1917). Che cosa significa   questo? Significa partire da una premessa fondamentale – ma estranea  ad  una troppo lunga tradizione – e cioè dalla demistificazione  dell’ipotesi  che la fine del capitalismo costituisca una necessità  iscritta nel suo  stesso sviluppo. In questo quadro il comunismo è  un’idea che si è  affermata fra l’ordine necessario dello sviluppo (e  della crisi) del  capitalismo e, d’altra parte, l’evento di una  rivoluzione altrettanto  necessaria, quasi naturalisticamente  predeterminata. Una volta invece  rotto questo nesso e accettata  l’ipotesi dell’insolubilità del rapporto  fra sviluppo teorico ed  effettività storica del comunismo, bisognerà  lavorare a definire un  nuovo terreno «antropologico» che dia base e  spazio all’ipotesi  comunista. Questa impostazione non è nuova in  Dardot-Laval. Già in  Sauver Marx? (scritto con El Mouhoub Mouhoud, La  Dècouverte) si erano  posti questo interrogativo andando oltre la  demistificazione  dell’ipotesi che la fine del capitalismo fosse iscritta  nel suo stesso  sviluppo. Ma rivendicando il fatto che la rivoluzione  non è necessaria,  che la dialettica del processo storico si presenta  irrisolta, per non  cadere in una deriva nihilista è necessario  reintrodurre una intuizione  strategica che eviti la retorica o l’utopia.  
L’eco della Comune
Tutto  dice che Marx abbia  sofferto questo limite della dialettica hegeliana  come uno vero e  proprio shock – che forse (aggiungono Dardot-Laval)  l’avrebbe costretto a  sospendere la scrittura del terzo volume de Il  Capitale e a rinunciare  alla stesura di quel capitolo sul concetto di  «classe» che doveva  rintrodurre la soggettività nel processo di  emancipazione  rivoluzionaria. Forse… È certo che negli anni 1870-80  Marx comincia a  studiare (accanto a mille altri argomenti) l’etnologia  – e si appassiona  allo studio delle forme di comunità estranee allo  sviluppo capitalista.  Sono state l’esperienza della Comune o quella  delle lotte in Russia  (che allora entrano nel giro socialista europeo)  che gli hanno fatto  sentire l’insufficienza delle piste definite nel  Capitale e l’urgenza di  mettere i piedi per terra, non attraverso la  dialettica ma attraverso  l’antropologia? Forse… È certo che ogni qual  volta ci si scontri con  le modificazioni del modo di produzione o con  le trasformazioni della  composizione di classe, coloro che insieme sono  comunisti e marxisti  sentono la necessità di rompere  quell’«incantesimo del metodo» di cui lo  stesso Marx è autore e  prigioniero.
«Io non sono marxista»: non è  dunque una boutade di  Marx contro i suoi fedeli e i suoi adulatori ma il  riconoscimento che  l’opera andava conclusa e che la sua conclusione  doveva andare oltre  l’opera stessa. Non curiamoci dunque dei filologi  marxisti che  accuseranno Dardot e Laval di avere spaccato in due Il  Capitale. Il  problema semmai, al contrario, è quello di chiedersi se non  abbiano  ancora abbastanza separato la classe dal capitale, se non  abbiano,  nell’attualità, sufficientemente «spezzato l’uno in due»: ma  questo è  un altro discorso e diventa legittimo farlo solo dentro le  lotte, una  volta che il cammino indicato da Dardot e Laval sia stato  percorso e  digerito. Quel che è sicuro è che questa introduzione critica  e  metodica risulta pregiudizialmente necessaria alla questione:  possiamo  uscire dal capitalismo? Per ora, se siamo riusciti a  disarticolare la  logica del capitale e la logica delle lotte, la  risposta definitiva ce  la daranno coloro che vogliono procedere sulla  via dell’emancipazione  collettiva, nella costruzione dunque del  comunismo. Queste riposte  saranno allora intese a rafforzare, non a  chiudere dentro un nesso  riformista (e dialettico), la tensione fra  Stato-capitale (strutture  ormai indistinguibili) e la forza-lavoro  globalmente sfruttata, fra  quel capitale-mondo (che i processi di  globalizzazione e di sussunzione  reale hanno costruito) ed una forza di  resistenza che si proponga a  quell’altezza. Ma tutto ciò non è ancora  sufficiente se non si apprende  a mettere in moto quei processi di  soggettivazione, descritti da  Foucault, «per mezzo dei quali gli  “attori” che sono impegnati nei  rapporti conflittuali trasformano se  stessi a misura dello sviluppo  della lotta, nel medesimo tempo in cui  essi trasformano la situazione e  creano così le condizioni di una loro  eventuale vittoria. Il legame  fra la natura “strategica” dei rapporti  sociali e la formazione delle  soggettività di classe è precisamente uno  degli aspetti più originali e  più interessanti del pensiero di Marx».
La storia del presente
Resta   un problema da discutere, quello cioè del rapporto fra logica  politica,  storica, dell’immanenza strategica delle lotte e logica di  sistema in  Marx. Ricomporre queste due logiche è, secondo Dardot e  Laval,  impossibile. Ma, aggiungono, è da questa impossibilità che nasce  oggi il  nostro compito politico di comunisti, non più costretti al  determinismo  bensì aperti all’attualizzazione del comunismo. Ma, si può  obbiettare,  questo dualismo non è eccessivo? Come si può negare che su  molti punti  (per esempio, la narrativa del passaggio dal plusvalore  assoluto al  plusvalore relativo, oppure quella della trasformazione  della  sussunzione da formale a reale, ecc.) le due logiche si  incrocino?  Dardot-Laval non lo negano ma ritengono questo incrocio  privo di  risonanze strutturali nello sviluppo del discorso marxiano.  Questa  conclusione sembra tuttavia povera. Se Marx è – come Dardot e  Laval  sostengono – «una macchina» di pensiero e di azione, anche il  rapporto  fra quelle due linee della critica dell’economica politica lo  deve  essere; e quando si incrociano, quelle due linee, non è  semplicemente  per scavalcarsi ma piuttosto per determinare nuovi punti  di partenza,  nuove aperture su nuove accumulazioni di eventi storici e  di  trasformazioni tecnologiche. 
La storia del tempo presente -in   maniera non determinista ma semplicemente perché è essa stessa   «storicità» – si nutre del tempo passato: della storia delle lotte come   dell’accumularsi delle trasformazioni tecnologiche. La «composizione   tecnica» del proletariato, quella della classe operaia, quella della   moltitudine, riposano su temporalità diverse, quindi su una storia di   lotte dentro diverse composizioni tecniche del comando capitalista – il   cui accumularsi, così come avviene per gli eventi storico-politici,   determina differenti processi di soggettivazione, diverse condensazioni   antropologiche, nuove «composizioni politiche». Il proletariato, oggi,   scopre la storia nel rapporto con la nuova «composizione organica» del   capitale che ha sussunto società e vita: è qui dentro che si ribella e   reinventa il comunismo. Siamo d’accordo con Dardot-Laval che qui dentro   c’è di nuovo Marx – non ci sono né Proudhon né i marxismi di una  vulgata  corrotta e traditrice. Ed è qui che il lavoro politico comune  può  procedere.
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