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Raid USA sull’ISIS: il cerchio imperialista in Libia si chiude…per riaprirsi

I raid a stelle e strisce, che seguono quelli del novembre 2015 e del febbraio 2016 mirati alla leadership dell’ISIS, stavolta si preannunciano di durata indefinita; un’alta asticella comunicativa che cela il bisogno di successo e stabilizzazione dell’attuale amministrazione. La mossa statunitense produce infatti due importanti implicazioni: da una parte Obama intende chiudere la propria presidenza con un ISIS sconfitto, o quantomeno in pesante arretramento; se tale scenario appare ancora distante nel contesto siro-iracheno, esso è decisamente più prossimo in quello libico. Sebbene sia difficile stimare le risorse umane e materiali ancora a disposizione dei miliziani del califfato, è ragionevole aspettarsi una resistenza limitata nel tempo a Sirte e una difficile ritirata nelle aree interne del paese, data l’origine straniera di molti combattenti e dalla contemporanea presenza di una forte branca nordafricana di Al-Qaeda. Si chiuderebbe così il cerchio aperto dalla locale primavera araba, naufragata con l’intervento militare occidentale ed il suo codazzo di settarizzazione e tribalizzazione del conflitto che poi avrebbero preparato il campo per l’ISIS nel 2015. Con una rinnovata presenza statunitense sia sul piano militare (ora con i raid, domani con operazioni di “peace-keeping”) che economico – obiettivi falliti dall’allora Segretario di Stato Clinton culminando nell’uccisione del suo emissario Stevens a Bengasi nel 2012.

Dall’altra parte, i raid segnano il sostegno USA al GNA di Al-Serraj (supportato anche da ONU, Italia, Qatar e Turchia, sebbene impopolare, e contestato appena pochi giorni fa) “contro” il parlamento rivale di Tobruk, riconosciuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Francia. Nonostante il protagonismo del generale Haftar, uomo forte di Tobruk, le formazioni della Cirenaica (che già non avevano brillato per efficienza durante la sollevazione contro Gheddafi) non hanno contribuito all’operazione contro Sirte, trovandosi alle prese con la pacificazione dei loro stessi territori più sconvolti dal fenomeno jihadista come Bengasi e Derna; e a contendersi le aree petrolifere della costa con le Petroleum Facility Guards, milizia facente capo al signore della guerra Ibrahim Jadran – anch’esso alleato di comodo del GNA. Ma notizia di queste ore è la creazione di una dirigenza unica delle compagnie petrolifere (National Oil Company, NOC) dei due governi rivali, che porterebbero la produzione di greggio a 90000 barili l’anno entro la fine del 2016. Un passo nella direzione di una ricomposizione del paese, anche se ipotesi di spartizione della Libia (caldeggiate anche da figure come Scaroni, ex-AD dell’ENI) data la frammentazione tribale e le divisioni tra le potenze regionali interessate nel conflitto, non possono essere del tutto scartate. In particolare risaltano gli interessi del vicino Egitto di Al-Sisi che, nonostante i finanziamenti ed i sussidi petroliferi sauditi (concessi a prezzo della partecipazione alla coalizione militare pan-sunnita ed anti-iraniana all’opera in Yemen), si trova nella cronica necessità di approvvigionamenti energetici a buon mercato, dato il proprio disastroso stato economico.

In tutto ciò non manca l’osso lanciato dal banchetto al governo Renzi, che già vede la marescialla Pinotti sfregarsi le mani e lucidare le baionette. Dopo la debacle del 2011 (in cui il governo Berlusconi aveva finito per accodarsi ai bombardamenti sulla sponda sud del Mediterraneo, perdendo a scapito degli altri paesi occidentali coinvolti gran parte dei propri investimenti libici), la scommessa per ora vincente sul GNA ed il clima alimentato da stampa e think tank guerrafondai nostrani propiziano nuove forme di intervento bellico. Il portavoce Cook ha infatti richiamato i paesi NATO a farsi carico delle proprie responsabilità, che tradotto nel caso dell’alleato italiano equivale alla messa a disposizione delle basi di Sigonella ed Aviano ed alla partecipazione di contingenti a future operazioni di controllo militare del paese – ora per “ripristinare l’autorità del governo” ora per “controllare l’immigrazione clandestina”. Secondo le ricerche di Enrico Piovesana, autorevole cronista di settore, risulta che reparti del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (COFS – l’elite di esercito, marina, aeronautica e carabinieri) siano già all’opera sia in Libia che in Iraq. Una china pericolosa, che deve far riflettere sull’artificiosità delle cosiddette “crisi” alla luce dei (loro) “interessi nazionali” – o quantomeno fungere da utile promemoria davanti al prossimo taglio, alla prossima tassa, al prossimo rincaro o alla prossima, sedicente, “misura anti-furbetti”.

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