Razzializzazione e organizzazione d’impresa. L’antirazzismo oltre la dimensione etica e morale
Riportiamo uno degli interventi al tavolo “Transizioni di classe nella crisi capitalistica tra salario, sciopero, movimenti della forza lavoro” tenutosi il primo giorno del meeting cosentino Tracce.
In questo contributo proveremo a concentrarci sul tema della razza in relazione al mondo del lavoro e ai conflitti che lo attraversano. L’interesse sta tutto nell’istruire un punto di vista che ci permetta di restituire la questione della razza, e quindi del razzismo e dell’antirazzismo, alla materialità delle contraddizioni che oggi esprime oltre le dimensioni etiche/morali. Da questo presupposto passa la possibilità di un antirazzismo politico che sia utile ai processi di soggettivazione antagonista che possa essere agito nel quadro dei conflitti che sul terreno del salario vedono protagonisti i migranti. Ma anche la comprensione della razionalità e degli obiettivi dei menagement delle migrazioni e degli interventi legislativi che vanno a disciplinare le condizioni di esistenza della forza-lavoro migrante. Siamo solo all’inizio di una ricerca.
La razzializzazione del lavoro è semplicemente un fatto da rilevare. L’assegnazione ai migranti di determinate posizioni del mercato del lavoro che hanno a che fare con la “vecchia” (?) fatica operaia è solo una e la più banale delle determinazioni, tra l’altro già ampiamente parte della coscienza comune. Può essere interessante fare una parentesi provare ad andare più a fondo, per vedere le molteplici forme in cui la razzializzazione viene usata nell’organizzazione d’impresa al fine di rafforzare il comando sul lavoro. L’impiego di operai di una sola provenienza all’interno di un magazzino logistico, può essere il risultato di un organizzazione che affida al ruolo dei capi/caporali della stessa etnia la funzione di reclutamento sul criterio della ricerca della forza-lavoro maggiornamente controllabile, consegnando a loro l’opportunità di far valere il potere di una gerarchia interna alla comunità specifica e quindi “reclutare” ai fini di impresa legami e i vincoli gerarchici ad essa estranei (familiari/clanici) ma così messi a valore; oppure, la stratificazione sulla linea etnica che passa dall’ impiego di differenti gruppi etnici/nazionali (ognuno con i suoi “capi”) all’interno dello stesso magazzino viene perseguita con l’idea di scomporre la forza-lavoro, e allontanare le possibilità di unione. Differenti trattamenti, salariali e/o di trattamento a parità di mansioni vanno spesso insieme a un meccanismo che produce rivalità tra i vari “gruppi” di operai, le tensioni si direzionano in senso orizzontale, mentre si va a favorire un meccanismo che rafforza il ruolo del “capo” investendolo di una sorta di ruolo di rappresentanza del proprio gruppo etnico che custodisce attraverso lo scambio tra fedeltà ricevuta e distribuzione di piccoli favori e clientele.
Ai nostri occhi, queste sono solo alcune delle forme della razzializzazione nell’organizzazione del lavoro che le lotte operaie hanno illuminato nel momento stesso in cui le facevano saltare. Rivelandone la profonda ambivalenza. Le comunità che noi scopriamo dentro i processi di lotta ci restituiscono l’immagine di forti legami comunitari che diventano punto di forza per le lotte stesse e per l’affermazione collettiva di rigidità soggettive. Nei magazzini multi-etnici, allo stesso modo, la lotta rompe la segmentazione e il conflitto diventa il linguaggio che mette in comunicazione e costruisce il riconoscimento tra i diversi gruppi. Questo è quello che c’è dopo. Quello che c’era prima va ricostruito. E lì dove abbiamo provato a farlo con la conricerca condotta nel mentre della lotta, è sempre emerso questo fatto: nella normalità della vita lavorativa pacificata non c’è alcun automatismo tra presenza di forti gruppi etnici nello stesso magazzino e legami di solidarietà o generica coesione. Spesso il contrario. Non c’è spazio per nessun mito positivo della “comunità etnica” da contrapporre, di per se e a prescindere da quanto innescato dalle lotte, alla frammentazione dell’operaietà indigena. Comunità è vincolo. Che può essere legame – in senso positivo – o catena. L’organizzazione del lavoro razzializzato tende a valorizzarne l’essere catena. Le lotte operano nella direzione opposta. E nei magazzini razializzati lo fanno sistematicamente passando da un operazione di rottura delle gerarchie e scomposizione delle comunità stesse.
Non è la stessa “comunità” che – improvvisamente – da utile al capitale si trasforma in utile all’autonomia operaia. Le istanze di riscatto, piuttosto, tendono alla rottura della comunità spezzandola sulla linea della sua stratificazione verticale nello scontro con i capi o i veri e propri caporali. Spezzata su questa linea, della vecchia comunità restano le condizioni favorevoli ai legami di riconoscimento e di solidarietà reciproca, ma è una nuova comunità che si fa spazio, con nuovi criteri che ne definiscono il “dentro” e il “fuori”, amicizie e inimicizie. In un processo… La comunità etnica migrante, quindi, come ambivalenza e, in potenza, scomposta e ricomposta dalla lotta, condizione favorevole ma non sufficiente.
Con la vertenza conflittuale il facchino conquista un nuovo costo e un nuovo tempo per il proprio lavoro. I delegati migranti ai tavoli di trattativa spesso comprendono poco delle discussioni “tecniche” su inquadramenti e condizioni contrattuali tra sindacato e controparte. Sono concentrati a leggere lo sguardo, il tono e il comportamento del padrone. L’obiettivo è raggiunto quando leggono la preoccupazione, la paura. Quando la lotta riesce a ribaltare la realtà della vita lavorativa pacificata, dove è sempre l’operaio ad aver paura e dove non è mai l’operaio a determinare niente. Quella paura gli restituisce dignità. In quei momenti sono due muri a crollare: quello del mito dell’invincibilità del padrone e quello della disponibilità rassegnata senza alternativa per l’operaio migrante. Anche e soprattuto dal circolare di alcune storie mitiche – quelle che raccontano la paura passa dalla parte del padrone – che passa l’effetto contagio delle lotte…
Ci interessa mettere lo sguardo su alcuni comportamenti messi in campo dalla forza-lavoro migrante protagonista degli scioperi per ritracciarne il politico e abbozzarne ipotesi di sviluppo oltre la dimensione della vertenza. La rivendicazione della rimozione dei capi che negli anni hanno esercitato il loro ruolo attraverso le forme più bieche di umiliazione e deumanizzazione degli operai, quelli che “trattano come bestie”, è quasi sempre una delle prime rigidità che questa forza-lavoro pone all’inizio di ogni lotta. Ma non è raro che agitazioni e scioperi di questo tipo continuino dopo la fine della contrattazione economica contro i capi che non vogliono adeguare il loro modo di comandare al nuovo rapporto di forza determinato dalla lotta nel magazzino. Il conflitto con i capi, lì dove il loro ruolo non viene ridotto a zero (con la conseguente riduzione della produtività operaia che ne consegue), è il terreno quotidiano su cui in molti magazzini si esprime l’antagonismo tra questa composizione operaia e il comando d’impresa. Il “rispetto”, la “dignità” e la “libertà” diventano le parole con cui il facchino costruisce la legittimità del proprio contropotere collettivo contro il comando di azienda e la sua razionalità produttiva. Un antagonismo non mediabile, su cui si attrezzano nuovi strumenti di cattura verso un orizzonte di “interesse generale” in cui recuperare le spinte all’autonomia… il premio alla produttività, si chiedono dall’altra parte, potrà fare quello che le urla del capo area non possono più? La redistribuzione di una parte della ricchezza prodotta è obbligatoria in virtù di un nuovo rapporto di forza, ma il vero problema da parte padronale è la riaffermazione di alcuni livelli di governabilità e produttività.
Il politico delle lotte della forza-lavoro migrante di questi anni sta anche in fatti come questi. Più in generale nella potenza con cui queste lotte vanno a incidere nella ridifinizione dei rapporti di potere all’interno dei magazzini. Nemmeno tanto implicitamente.
Il comando che agisce sull’operaio migrante nel magazzino è specchio di quello che su di esso esercita lo Stato. E viceversa. Miseria del salario e negazione dell’accesso al welfare, flessibilità e precarietà permanente del proprio status, deumanizzazione… solo alcuni dei termini di una doppia subalternità che definisce questa condizione di vita proletaria. Definisce una posizione nella gerarchia sociale, perimetrata da muri alti e in cui le prospettive di mobilità si riducono quasi del tutto a quelle di espulsione al di là delle frontiere della clandestinità, ovvero nella condizioni massime di subalternità.
E la stratificazione gerarchica che riserva all’italiano un trattamento “privilegiato” e una posizione gerarchicamente superiore nell’organizzazione del lavoro rispetto ai migranti, fotografa bene il perchè, molto spesso, la categoria della “guerra tra poveri” risulta inadeguata a leggere tensioni tra proletariato bianco e migrante dentro, ma anche fuori dalla vita lavoratoriva, e come questa stratificazione sia utile alla pacificazione, dentro e fuori la vita lavorativa.
Il trattamento “da bestie” riservato dai capi fa specchio alla violenza simbolica che arriva dal discorso politico sovranista. E in effetti anche in magazzino chi “entra chiedendo per favore” e “si comporta per bene” si può guadagnare qualcosina (citando le retoriche che definiscono le condizioni razziste dell’integrazione, in linguaggi diversi, a destra come a sinistra). E’ il rifiuto di questo ordine delle cose, la rottura di questo disciplinamento che negli scioperi vediamo prendere forma. Quello che emerge dagli scioperi è il migrante che tradisce il suo ruolo, sfugge dal suo posto. Si nega. Si scopre – collettivamente – soggetto forte. E vuole riprendersi un po di potere.
Torniamo indietro. Sovrapposizione tra comando di stato e comando di azienda. Dove il primo serve il secondo. Ed entrambi definiscono la subalternità della vita piena dei migranti dentro e fuori le ore del lavoro. Avanziamo un ipotesi: l’insubordinazione al comando di azienda ci parla già anche di altro. Ci vediamo anche il terreno su cui si esprime l’insubordinazione al peculiare comando che lo Stato opera sui migranti, e quindi dell’insubordinazione a una condizione complessiva di subalternità della vita migrante. Ci vediamo il farsi soggetto contro il ridursi a oggetto dei processi di valorizzazione economica e politica che oggi assumono sempre più violenza nell’ipotesi sovranista. Non lo diciamo sulla base di facili e incoraggianti sillogismi astratti.
E’ vero: ci siamo avvicinati e poi immersi nei conflitti attratti da questa ipotesi. L’esperienza sul campo ci ha dato più conferme di quelle aspettavamo. Le energie politiche liberate dall’innesco del processo che ha portato in autunno allo sciopero generale del 26 e 27 ottobre nei magazzini e delle fabbriche coinvolte e scolvote dalle lotte del Si Cobas ci hanno dato prima misura di questo. Abbiamo osservato un fatto importante, qualitativamente più che quantitativamente. Il coinvolgimento vero e spontaneo, ad esempio degli ospiti dei centri di accoglienza nello sciopero generale, vedere il riprodurre gli stessi comportamenti e linguaggi dei facchini nelle proteste contro le nuove ordinanze restrittive delle libertà all’interno dei cas, crediamo di parlino di una domanda che c’è, e di una possibilità che si definisce lungo la linea della razza.
Come orientiamo questo protagonismo, ci chiedevamo nell’introduzione?
Non abbiamo risposte o formule già pronte. Possiamo fare un passo in avanti, intanto,definendo dove: nella direzione del protagonismo migrante nella costruzione di un antirazzismo politico che si componga e svillupi le istanze di insubordinazione ad una condizione di vita a 360° che si definisce nel campo della produzione, della riproduzione e della condizione giuridica.
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