Renzi verso il referendum: autoriforma, assist (e un dribbling)
Matteo Renzi, vedendosi scivolare tra le mani il suo Partito liquido, ha tirato bordate a destra e manca e proseguito con la favola di un paese di marzapane in cui “piaccia o non piaccia” il governo ha “messo alle corde il precariato”. Ha poi annunciato che proseguirà nei prossimi mesi con la linea genuinamente tatcheriana a cui ci ha abituato, chiarendo che la cosa più di sinistra che si possa fare è di eliminare le distorsioni del mercato, “Jobs act investimenti e riduzione delle tasse: questa la direzione”.
Renzi ha parlato, ovviamente, anche del referendum costituzionale di ottobre (ma sarà ad ottobre? Chissà che non si rinvii sperando nell’arrivo del miracolo…) il cui lancio a campanile sta per ricadergli rovinosamente sulla testa. Renzi manda, innanzitutto, avvertimenti ai vari potentati, grumi di clientela e sinistra cadaverica che costituiscono il “vecchio PD” – quello organicamente legato alla parabola lunga PCI-DS-Ulivo – chiarendo che al centro del referendum non c’è solo la sua carriera ma tutta la “classe politica”. E in questo non si può che dargli ragione, la “personalizzazione” del referendum esiste ma se vincerà il No questo sarà un passaggio simbolico importante non soltanto di rifiuto del Premier ma di tutto il Partito Democratico, ormai percepito come sinonimo di malaffare, saccenza e ipocrisia da tutti i settori popolari. Bene.
Renzi ha poi chiarito che, se invece il referendum dovesse passare, questo evento rappresenterebbe, rullo di tamburi, “la più bella pagina di autoriforma in Occidente”. Un’espressione bellissima, una vetta inarrivabile di renzismo su cui vale la pena attardarsi. Senza entrare nel merito della riforma, è lapalissiano come davvero tutto si può dire di essa tranne che si tratti di un’autoriforma. La crisi è, per le classi dominati, un’occasione. Occasione per ristrutturare il sistema, eliminando quanto riuscto a strappare dalle lotte di chi sta in basso. Accompagnata dalla retorica dell’innovazione e dell’improcrastinabile necessità di aumentare l’efficienza, questa ristrutturazione si articola ovviamente su vari livelli. Una ristrutturazione in campo economico per rendere il mercato del lavoro sempre più flessibile per i loro interessi; una ristrutturazione in campo sociale per eliminare i residui di welfare e sussidi ai sempre più numerosi lavoratori in eccedenza rispetto alle necessità delle imprese; una ristrutturazione, infine, anche dell’architettura istituzionale.
È noto a tutti l’esemplificativo documento del 2013 redatto da JP Morgan nel quale il colosso finanziario si lamentava della forte influenza “socialista” presente in alcune costituzioni europee che rendono difficile fare ciò che è necessario (per i loro interessi, ovviamente). Inoltre, la lentezza dei processi decisionali italiani, con i suoi passaggi barocchi tra le camere e la sua instabilità governativa, è sempre stata un cruccio per la governance europea. Come dicono gli stessi promotori, la riforma costituzionale (accompagnata da una riforma elettorale fortemente accentratrice come l’italicum) serve a rendere più veloci i processi decisionali. Una democrazia più efficiente. La questione è che se, come abbiamo visto in questi anni, è ormai evidente che le decisioni “democratiche” consistono in una mera esecuzione di ciò che “i mercati” reputino consenta loro di meglio accumulare profitti, ci si rende facilmente conto che la riforma costituzionale non risponde ad altro che all’esigenza di facilitare il lavoro ai responsabili della nostra miseria. Un’autoriforma con la pistola puntata sulla testa imposta non tanto “da fuori”, come ripetono confusi sovranisti (di destra o di sinistra), ma da imprenditori e banchieri anche italianissimi. Non per niente Confindustria ha pubblicato pochi giorni fa uno “studio” (le virgolette sono d’obbligo) in cui paventa piaghe bibliche in caso di vittoria del No con tanto di fantasiosi numeri tirati fuori dal cilindro. In fondo non solo lo sa ma lo dice anche lo stesso Premier, quando, alla direzione PD, parla di necessità di un’Italia “forte e credibile”. Quale credibilità gli interessi è dimostrato dall’imbarazzante (e ben poco imbarazzato) silenzio sull’ennesima operazione giudiziaria che vede coinvolto il ministro degli interni del governo Renzi, Angelino Alfano, intento a piazzare il fratello alle poste grazie all’intermediazione di una conclamata associazione a delinquere. Ciò che conta, tanto, è avere l’approvazione da parte dei “poteri forti”, quelli veri, che hanno sempre visto nel Premier l’uomo capace di “modernizzare” l’Italia, eliminando scorie antistoriche come diritti sul lavoro, tutele dell’ambiente o sussidi per i più deboli. Ma soprattutto approvando una riforma che non è altro che un cavallo di Troika per tutte quelle che Renzi non ha ancora (potuto) fare: pubblica amministrazione, università, privatizzazioni, pensioni e tutti gli altri nodi che, in questa lunga crisi, verranno al pettine.
Renzi ha concluso il suo intervento citando Eric Cantona (!) per dire che non vede il referendum come un gol ma come “un passaggio” al resto del PD, ancora timido sull’appoggio alla fantomatica autoriforma della costituzione. Speriamo invece che la scadenza referendaria possa essere un assist per provare a coagulare la rabbia diffusa contro il Partito Democratico e ciò che rappresenta. Questo sarà possibile solo se riusciremo a dribblare tutte le forme di idiotismo movimentista, non accontentandoci di rappresentare gli scontenti del praticello della sinistra ma riuscendo ad intercettare, almeno in minima parte, chi abita le praterie sconosciute di una contrapposizione sociale che si sta per ora esprimendo solo nel (non)-voto. Non fare una finta ma metterla, per una volta, in rete e prepararsi per i festeggiamenti…
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