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Repubblica e la guerra “italiana” all’Isis in Iraq

Sarebbe ingeneroso, tuttavia, sostenere che le truppe italiane non abbiano mai affrontato combattimenti in campo aperto. Si pensi a quelle che esercito e giornalisti hanno chiamato a loro tempo, senza timore del ridicolo, “battaglie dei ponti” a Nassiriya (giugno-luglio 2004): fuoco indiscriminato non soltanto sugli abitanti della città sciita che (ancora una volta: giustamente) avevano impugnato le armi contro un esercito occupante, ma contro passanti e ambulanze (una donna partoriente fu bruciata viva assieme alla madre, al marito e alla sorella grazie al fuoco automatico di Raffaele Allocca e Franco Stival, due dei “nostri ragazzi” in Iraq). Per carità, oggi è tutto cambiato. Oggi la guerra è giusta e necessaria, e non succederà nulla del genere. Anche allora, a ben vedere, era tutto cambiato, e anche la volta prima: ogni nuova guerra presenta la novità di essere giusta e inevitabile, soprattutto grazie alla completa disinformazione dei giornalisti sul suo contesto, per questo da considerare assassini molto più dei soldati.

Questa disinformazione ha due corni: quello che dice, e quello che non dice. Sotto il primo profilo, è ammirevole come l’embedded Gianluca Di Feo riesca frequentamente a vendere la merda come se fosse oro. Lo scorso dicembre magnificava su l’Espresso le doti marziali dei “piloti da remoto” che, seduti in una sala comandi in Puglia, telecomandano areoplanini fotografici che spiano quel che avviene nello stato islamico. Uno di essi dichiarava: “Anche se rimaniamo a distanza di centinaia o migliaia di chilometri, per noi è come essere laggiù. ‘Sentiamo’ il volo…”. Vedete, increduli bolscevichi? La stirpe italica non è poi così vigliacca. (E De Feo non mancava di insistere sul “fattore umano” di questi tizi pilotano da remoto. Mah…). Possiamo quindi comprendere l’esaltazione quando i piloti italiani sono pronti, addirittura, a recarsi sul terreno di guerra: “I peshmerga non hanno mai avuto un sostegno così potente”, leggiamo. Certo: che volete che sia il supporto dell’aviazione statunitense, delle basi di artiglieria e delle forze speciali a stelle e strisce, in confronto agli arditi fanti di Roma e a questi otto benedetti elicotteri che si porteranno appresso?

Veniamo a quel che Repubblica non dice. In medio oriente, oggi, non c’è “lo” stato islamico, ma “gli” stati islamici, in diversi casi supportati dal nostro governo. In Siria, da ormai un anno, la rivoluzione contro il presidente Assad è polarizzata in due campi definiti e contrapposti: il Fronte Islamico (i cui leader vogliono l’instaurazione di uno stato islamico, sebbene non accettino, per ragioni di competizione politica, il progetto del “califfo” Al-Baghdadi) e le forze democratiche siriane (Sdf), che rivendicano una Siria pluralista, federale e improntata all’autogoverno. Le Sdf sostengono sin dal 2014 il reale sforzo militare contro l’Is in Siria. L’Italia, però, nelle persone di Staffan de Mistura, Federica Mogherini, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, supporta in Siria il Fronte Islamico, ammettendolo come unica delegazione, sotto il nome di Hnc (“alto comitato per i negoziati”), ai colloqui di Ginevra con il governo di Assad.

Il servilismo e la codardia della nostra stampa non rendono pubblico che il portavoce dell’Hnc a Ginevra, Mohamed Alloush, è il leader del gruppo salafita siriano Jaish Al-Islam, e che mentre stringe le mani di De Mistura, Mogherini e soci fa bombardare con armi chimiche il quartiere Sexmasud di Aleppo, colpevole di ospitare minoranze armene, curde e cristiane che rifiutano una Siria fondata esclusivamente sulla legge coranica. Perché l’Italia adotta una simile politica? Deve rispettare il suo principale partner d’affari in medio oriente, che è il più violento, potente ed influente stato islamico del mondo, l’Arabia Saudita (vera e propria fabbrica di torture, abusi e decapitazioni pubbliche) che appoggia il Fronte Islamico; e il supporto alle forze siriane democratiche incontrerebbe l’opposizione di un altro partner d’affari, nella forma di passaggi di merci e blocco di esseri umani: la Turchia, che oltre ad appoggiare ufficialmente il Fronte Islamico, ufficiosamente Al-Nusra (Al-Qaeda in Siria) e segretamente, in diverse fasi, l’Is stesso, massacra la popolazione curda all’interno dei suoi confini e per questo non è disposta ad ammettere le Sdf (che sono a guida curda) ai colloqui di Ginevra.

Ma come: non stavamo inviando in Iraq i nostri intrepidi combattenti ad aiutare “i curdi”? Se i giornalisti italiani svolgessero la loro funzione deontologica, verremmo a sapere che i curdi, come tutti i popoli della terra, si differenziano in base alle opinioni politiche e religiose, all’appartenenza sociale e di classe, ecc.: l’Italia supporta una fazione curda molto particolare, il Pdk, che governa il Kurdistan iracheno in modo dispotico ed è diretto da un presidente non eletto, la cui famiglia controlla tutte le ricchezze e calpesta la costituzione, umiliando gli altri partiti e l’opposizione parlamentare, e instaurando una sorta di dittatura petrolifera grazie alla repressione di scioperi e manifestazioni e alla persecuzione di qualsiasi dissenso. Tuttavia a Renzi e Mogherini le dittature (e gli stati islamici: cfr. anche le ambiguità con il governo di Tripoli in Libia), quando sono “petroliferi”, piacciono, e questo nonostante il presidente del Pdk Barzani sia accusato da molte vittime dell’Is di aver letteralmente consegnato centri abitati e intere comunità religiose allo stato islamico nel 2014, permettendo abominevoli massacri.

De Feo ci spiega però su Repubblica, tutto inorgoglito, che il Pdk sta concentrando i propri sforzi attorno a Makhmur, a sud di Mosul, ma omette di ricordare che solo lo scorso agosto il Pdk ha abbandonato la popolazione dell’area nelle mani dell’Is, popolazione poi salvata da Pkk e Upk che, assieme alle Ybs (tutte forze d’opposizione al Pdk) combattono l’Is nel nord dell’Iraq, da Singal a Mosul e Tel Afar, fino a Kirkuk, e sono alleate delle Sdf siriane. Si sarà ritirato da Makhmur, il Pdk, perché non aveva la copertura dei nostri elicotteri? Ci sarebbe da dubitarne: neanche Pkk, Ybs e Upk avevano tale copertura, e la loro dotazione era molto più leggera. Appoggiare “i curdi” del Pdk significa per l’Italia, oltre a supportare una forza reazionaria ed ambigua, legittimare chi da due settimane pone sotto completo embargo, anche alimentare, la resistenza del Rojava contro lo stato islamico nella Siria settentrionale (su richiesta del padrino politico del Pdk, la Turchia). Lo stesso trattamento non è riservato da questo partito ai convogli di petrolio del’Is, filmati in questi mesi mentre passavano da Zakho (città sotto controllo di Barzani) per raggiungere la Turchia. Iracheni e siriani sanno benissimo che soltanto di questo si tratta: soldi, affari, petrolio; e questo rafforzerà politicamente tutte le ideologie da “stato islamico” della regione.

I militari italiani non proteggeranno i curdi, né gli arabi o gli italiani, né combatteranno l’Is; faranno da scorta mercenaria alla ditta Trevi presso la diga di Mosul. Poniamo fine alle invenzioni propagandistiche. Opera di bene? No. Purtroppo, anche stavolta, non siamo il faro della civiltà: la diga di Mosul non fu costruita su un sito inadatto e secondo tecniche irresponsabili da quei primitivi degli iracheni, ma dall’italiana Impregilo, che intascò i soldi per questo disastro da Saddam Hussein tra il 1981 e il 1986. Mettiamo una pezza? No: tutti gli studi asseriscono che la diga deve essere demolita e sostituita da un’altra più a sud, che aspetta di essere completata dal ’91; ma, si capisce, continuare a “soccorrere” e “restaurare” il mostro che abbiamo costruito è un affare lucroso, e l’Italia di queste cose (molto più che di battaglie “in prima linea”) se ne intende. La propaganda islamista non ha che da guadagnare, in termini politici, da simili esempi di corruzione; e come noto sa capitalizzare bene, con attacchi ai civili in Europa, il valore puramente mediatico delle retoriche di stato lo sfidano. Grazie, Repubblica: quando salteremo in aria in metropolitana a Roma o a Milano, ci ricorderemo (anche) di te.

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