Resistere all’agroindustria: Mais, transgenici e transnazionali
di Silvia Ribeiro da ECOR Network
Una raccolta di articoli che si basa sul lavoro collettivo del gruppo ETC per un periodo di 15 anni, a partire dalla scoperta della contaminazione transgenica del mais in Messico. È uno strumento prezioso per comprendere il contesto storico e la situazione attuale dell’agricoltura e dell’alimentazione, le manovre del potere aziendale e politico a livello nazionale e internazionale, nonché le lotte di resistenza dei popoli contadini e indigeni, movimenti e organizzazioni sociali.
Questo libro ci avvicina alla conoscenza dei meccanismi del sistema agroalimentare, del controllo esercitato attraverso le aziende agroalimentari e degli impatti sociali e ambientali di strumenti come i semi transgenici e altre tecnologie.
Nel bel mezzo della pandemia Covid-19 che colpisce ogni angolo del pianeta, questa pubblicazione è particolarmente rilevante perché queste pagine mostrano come questo sistema alimentare gioca un ruolo chiave nella generazione delle pandemie e delle principali malattie delle persone e del pianeta, risulta quindi urgente discuterne ampiamente.
I dati che offre sono il prodotto di una ricerca rigorosa, che può essere comprovata, e sono destinati ad essere usati dalle organizzazioni e dalle comunità come strumenti per la resistenza. Mostrano che, sebbene il sistema alimentare industriale e aziendale monopolizzi la maggior parte della terra e dell’acqua, sono le reti contadine rurali e urbane che alimentano la maggior parte della popolazione.
Maíz, transgénicos y transnacionales
Silvia Ribeiro
Heinrich Böll Stiftung Ciudad de México – México y El Caribe, Grupo ETC, Editorial Itaca, Diciembre de 2020 – 329 pp.
Del testo condividiamo con piacere la prefazione di Gloria Muñoz Ramírez.
Strumenti per la resistenza *
Queste pagine scritte da Silvia Ribeiro hanno, come tutto ciò che ha fatto nella sua vita, un’identità collettiva. Questa volta, come parte del Gruppo di Azione su Erosione Tecnologia e Concentrazione (ETC) nel suo ruolo di direttrice per l’America Latina, e della Rete in Difesa del Mais quale spazio di cui fanno parte comunità indigene meticce e contadine, e di centinaia di organizzazioni che agiscono in un fronte di lotta per l’autonomia e la sovranità alimentare.
La pandemia da Covid-19 mette Ribeiro al centro dei riferimenti in America Latina. I suoi articoli, ricchi di dati prodotti da ETC, sono diventati una lettura obbligatoria per cercare di capire l’origine di un momento così incerto. Lontano dalla vulgata comune che punta il dito contro un pipistrello della città cinese di Whuan, Silvia Ribeiro spiega che lì si è manifestato il virus per la prima volta ma non necessariamente è quella la sua origine. “Non date la colpa al pipistrello” è il titolo dell’intervista realizzata in Argentina con la popolare educatrice e attivista femminista Claudia Korol.
Quello di Silvia è un lavoro a lungo termine, avanza, prevede la calamità causata dall’agroindustria e dall’allevamento intensivo degli animali; ma parla anche delle alternative, dell’intenso lavoro delle comunità originarie, della loro conoscenza e della loro resistenza. La sua conoscenza è generosa e si rivolge alle persone che sostengono il mondo, a quelle dal basso, ai contadini e alle contadine che producono alimenti per la maggior parte dell’umanità, che conservano proprie forme di organizzazione e che hanno forme di società che definiscono la vita. Non è un caso, dice Ribeiro, che nell’attuale pandemia siano le comunità quelle che si sono autorganizzate per proteggersi dalla malattia, tanto di questa quanto di altre che le sono state portate.
La parola scritta di Silvia Ribeiro, ora raccolta in questo volume, contiene dati prodotto di una ricerca rigorosa che, pur sfidando le istituzioni accademiche scientifiche e politiche, non dice nulla che non possa essere corroborato. Anche per questo è così importante che questi dati servano alle organizzazione popolari e siano essi stessi strumenti per la resistenza. Niente di più, niente di meno.
Con i suoi articoli e le sue conferenze sulla sovranità alimentare, l’autonomia comunitaria, gli impatti sull’ambiente e sulla salute dei nuovi sviluppi tecnologici, Silvia Ribeiro sfida i poteri economici e de facto. Va controcorrente, mette a nudo le menzogne delle transazionali e dimostra, per fare un esempio, che non è vero che la catena industriale ci nutre ma ci fa solo ammalare. E’ così che Silvia disinforma, demolisce i miti su cui è basato il sistema capitalista.
Ciò che scrive è lo stesso di cui parla in una conferenza davanti alla comunità accademica o davanti ad un’assemblea di indigeni e contadini, dai quali prende riferimenti organizzativi e, allo stesso tempo, fornisce loro dati per capire la dimensione dell’assalto neoliberale sui loro territori. I suoi articoli sono anche letti da reti urbane e accademiche che recepiscono, in maniera chiara sulla questione dei transgenici, il messaggio non di rado scomodo per settori dell’establishment scientifico.
Il lavoro di Ribeiro converge con i movimenti della scienza dignitosa o critica il cui referente è il ricercatore argentino Andrés Carrasco, colui che ha messo in scacco il sistema scientifico sovvenzionato dallo Stato in collusione con le imprese. Silvia fa parte di questo altro modo di fare scienza, sempre in dialogo con altre forme di conoscenze e prospettive, dai sentimenti ai bisogni delle comunità urbane e rurali.
Silvia Ribeiro fa parte dell’Unione degli Scienziati Impegnati con la Società e la Natura dell’America Latina (UCCNAL, acronimo spagnolo, ndt), un’associazione che riconosce centri di ricerca indipendenti come ETC, ed esiste un dialogo tra la scienza dignitosa all’interno degli spazi accademici.
In questo suo primo libro coesistono tutte le Silvie: la ricercatrice, la giornalista, l’attivista, la donna latinoamericana impegnata nella costruzione di un mondo migliore e più dignitoso.
La comunità del Sud di Montevideo
Il certificato di nascita di Silvia Ribeiro dice che è nata in Uruguay e il suo accento, nonostante che per 21 anni abbia vissuto prodotto e lottato dal Messico, lo conferma. La sua nazionalità, in ogni forma, l’ha segnata e costruita e l’ha, inoltre, obbligata da giovanissima a lasciare il paese quando in Uruguay si instaurò il totalitarismo e la sua vita, come quella di migliaia di uruguayani, viene messa in pericolo.
Nel 1973 in Uruguay regna l’oscurità, seguendo il ritmo dittatoriale del Cile e dell’Argentina. Silvia ha solo 16 anni ed è militante nel movimento studentesco. E’ l’epoca in cui gli uruguayani sono classificati in categorie A, B e C. Nella classe C ci sono i sovversivi, nella B coloro che si sospetta lo siano, nella A coloro che ancora non si sapeva se fossero o no sovversivi. Nessuno è fuori dal sospetto.
In precedenza, a soli 13 anni, la Silvia adolescente viene arrestata per aver distribuito in strada volantini su rivendicazioni studentesche. E’ l’epoca in cui il movimento studentesco in Uruguay è molto forte. Tutto il paese è in ebollizione, nello stesso momento in cui stava nascendo il movimento guerrigliero dei Tupamaros.
Silvia Ribeiro frequenta il liceo e da quel momento sceglie il metodo scientifico, partecipa al movimento studentesco e si impegna nella Comunità del Sud, una cooperative integrale di vita e lavoro che ha anche una casa editrice e una tipografia che pubblica la maggior parte dei libri della piccola editoria in Uruguay. Così Silvia diventa tipografa.
La Comunità del Sud, dove rimane per 20 anni, è la base del lavoro successivo di Ribeiro. L’organizzazione, per il solo fatto di avere una tipografia e di avere dei giovani che vivono insieme, è considerata sovversiva e costantemente perseguitata dallo Stato.
Il picco della repressione si ha quando “scoprirono” (era pubblica e nota) una fattoria con tre ettari di terra in un sobborgo di Montevideo. L’esercito li accusa di essere un centro di addestramento per la guerriglia, cosa assolutamente falsa ma la verità non era importante. E’ il 1976, tre anni dopo il golpe militare che impone una dittatura durata fino al 1985, quando Silvia diciannovenne lascia il paese.
Con il golpe inizia una catena di repressione: prima contro il movimento dei Tuparamos (Movimiento de Liberaciòn Nacional-Tupamaros), dopo contro il Partito Comunista; seguono gli anarchici e poi il resto dei collettivi e delle organizzazioni. Silvia e i suoi compagni lasciano l’Uruguay verso il Perù dover restano un anno. Ma anche nel paese andino si produce un golpe militare e di nuovo sono costretti ad andarsene. Presso gli uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) vengono date loro due opzioni, la Svezia o il Canada. E scelgono la prima.
Come la maggior parte dei rifugiati anche Silvia pensa che l’esilio sarà questione di mesi. Invece passarono 14 anni, anni in cui ha studiato e, insieme ai suoi compagni della Comunità, lavora con organizzazioni locali, ricostruisce una cooperativa e avvia una casa editrice chiamata “Nordan”. Lì conosce personalmente e si forma nei dibattiti comunitari con pensatori come Murray Bookchin, Cornelius Castoriadis, René Lourau, Marianne Enckell, Eduardo Colombo, Heloísa Castellanos.
Ecologia sociale versus ambientalismo
Durante l’esilio Silvia Ribeiro incontra una delle sue principali referenti in ecologia e ambiente, Brigitta Wrenfelt, fondatrice degli Amici della Terra Svezia, organizzazione con radici nel movimento ambientalista radicale degli anni ’70.
Silvia si identifica allora con la corrente che contesta i movimenti ambientalisti europei, a partire dall’apporto del pensiero latinoamericano che propone l’ecologia sociale, lontana dall’ambientalismo ma vicina a ciò che pensano la gente e le comunità.
E da qui arriva per lei l’ispirazione, dall’etnologo, antropologo e scrittore messicano Guillermo Bonfil Batalla, con il quale scopre il mondo indigeno. In questo momento la Comunità ha ben chiaro che il capitalismo non è solo un fenomeno di sfruttamento economico e sociale, ma che è intimamente associato alla devastazione e allo sfruttamento dell’ambiente e di ogni forma di diversità, sia culturale che biologica.
Finalmente nel 1992, sette anni dopo la caduta della dittatura, il gruppo ritorna in Uruguay, ristabiliscono la Comunità del Sud e creano una fattoria di produzione agroecologica e dimostrativa dove si tengono corsi agli studenti di Montevideo per insegnare a produrre ecologicamente. In questo spazio costruiscono anche case di fango per recuperare le tradizioni contadine e indigene, in modo che la formazione dei membri della Comunità non sia solo accademica o autodidatta, ma anche legata alla risoluzione di una vita più giusta, più libera e in accordo con la natura.
Poco dopo il suo ritorno a Montevideo, Silvia entra a far parte dell’organizzazione ecologica REDES- Amigos de la Tierra. Contemporaneamente collabora con Tierra Amiga, la prima rivista ecologista in Uruguay, pubblicata per un decennio e del cui team editoriale facevano parte Raúl Zibechi, Carlos Amorín, Aníbal Paiva, Ruben Prieto y Jorge Barreiro. Qualche tempo dopo Ribeiro diventa la prima direttrice della rivista Biodiversidad, Sustento y Cultura, incarico che attualmente ricopre uno dei suoi principali colleghi in Messico, Ramón Vera Herrera. A quel tempo, sotto la direzione di Joan Martínez Alier, economista ecologico catalano che viveva in Ecuador, la Comunità del Sud crea l’Istituto Latinoamericano di Ecologia Sociale.
L’insurrezione zapatista
Silvia crede che in Uruguay ci fosse una mancanza di conoscenza o cecità, al limite del razzismo, sull’esistenza di altre realtà culturali, cosa che ora, con le nuove generazioni, è molto cambiata. Anche da qui si vede la storia come discendenti di migranti europei. Per questo per lei è stata una valanga di emozioni e pensieri comprovare l’esistenza di altri mondi vivi e in resistenza, con la loro enorme complessità e saggezza. Lei, discriminata per essere bianca in Perù e per aver subito il razzismo per non essere bionda in Svezia, si rese conto di averlo sempre vissuto nel suo paese di origine.
E in questa complessità è stata colta di sorpresa, come il resto del mondo, dalla rivolta indigena zapatista in Messico il 1 gennaio 1994, un evento che, secondo Ribeiro, ha cambiato la discussione politica, ideologica, sociale e culturale del pianeta. Una rivolta che, aggiunge, è una delle più lunghe in termini di resistenza e creazione, e una delle più importanti nella storia del secolo scorso, insieme ai movimenti dei palestinesi, dei saharawi e dei curdi. L’improvvisa apparizione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) scosse il mondo intero e l’Uruguay non fece eccezione. La chiave per Silvia è stata che la rivolta ha avuto un impatto indicando non solo che i più oppressi e i più dimenticati non sono i più poveri, ma anche che sono capaci di porre una grande sfida al sistema capitalista, così come di decidere dei loro territori e di come vogliono viverci.
Nei mesi e negli anni successivi arrivano gli incontro internazionali convocati dagli zapatisti a cui Ribeiro partecipa con diverse reti sociali messicane. Nel 1999 arriva in Messico con la prospettiva di capire e relazionarsi con i movimenti contadini, indigeni e ambientalisti. Nell’effervescenza del movimento indigeno ritrova Guillermo Bonfil Batalla e si rende conto che tutto il Messico è popolato da persone “normali e ordinaria ma assolutamente incredibili”, che sono i comuneros e le comunità contadine e indigene.
Con l’arrivo in Messico inizia il suo lavoro con ETC, collaborando anche con il Centro Studi per il Cambiamento nel Campo Messicano (CECCAM) e con il Gruppo di Studi Ambientali GEA. Nel 2002 entra nella redazione del quotidiano La Jornada di cui ancora fa parte. Attualmente ha anche una rubrica nel portale Desinformémonos.
Il grande tema con cui Silvia Ribeiro si immerga nel cuore e nella cultura messicana è la contaminazione transgenica del mais. ETC, quando si chiamava RAFI (Rural Advancement Foundation International), è la prima organizzazione al mondo a discutere di OGM, la prima a richiamare l’attenzione sull’esistenza di compagnie transnazionali che comprano semi da altre compagnie, appropriandosi e brevettando semi dei contadini di tutto il mondo. All’epoca si parlava già di aziende che manipolavano geneticamente i semi per renderli resistenti ai loro pesticidi. Questo è uno dei temi principali che Silvia affronta e si riflette in tutte queste pagine.
All’inizio di questo secolo in Messico erano due i temi in ebollizione sui quali lavorava il gruppo ETC: la contaminazione transgenica del mais, riscontrata in Oaxaca nel 2001, e quattro grandi contratti di biopirateria con cui aziende e università statunitensi si appropriavano della conoscenza e delle piante di comunità indigene per poi brevettarle in quel paese. Una questione su cui lavora con Andrés Barreda. Per denunciare queste problematiche si forma la Red en Defensa del Maiz, a cui Silvia si riferisce nel primo articolo del suo libro come una manifestazione di qualcosa di molto più esteso e profondo: il ruolo dei popoli indigeni nella produzione di alimenti, tenendo il mais e la milpa in primo piano.
Quando Silvia Ribeiro espone i temi in cui è specialista non parla mai al singolare, coniuga tutto in collettivo, perché fin da giovane ha fatto parte di costruzioni comunitarie. All’interno di ETC denuncia come operano le imprese con il più grande mercato di semi e pesticidi, come il cento per cento dei semi transgenici non solo calpestano e disprezzano le comunità ma “sono entrati nei luoghi più intimi di tutti, perché ogni persona che mangia qualcosa di industrializzato sta riempiendo il suo corpo di sostanze chimiche, e poi arrivano malattie come il diabete o l’obesità, tra le tante”.
Le aziende di sementi come Monsanto e Bayer, che ETC segue con attenzione, sono la chiave dell’intera catena alimentare. Senza semi, dice Silvia, “tutto il resto non funziona, lo sanno ed è per questo che cercano di eliminare i semi dei contadini”.
L’allevamento industriale degli animali
Silvia Ribeiro spiega che negli ultimi decenni, al pari dell’espansione dell’agricoltura industriale, è aumentato l’allevamento intensivo di polli, maiali e mucche in luoghi confinati, creando una generazione di animali geneticamente uniformati in quanto non si riproducono in forma naturale, luoghi che si trasformano in vere fabbriche di virus e di batteri resistenti agli antibiotici.
La scienziata, editorialista e attivista chiarisce che non si riferisce all’origine specifica del coronavirus ma, dice, l’influenza suina e l’influenza aviaria, tra le altre malattie, sono prodotte in questi luoghi di reclusione. E cita i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la quale avverte che il 75% delle nuove malattie infettive sono di origine animale, e la maggior parte di esse provengono da allevamenti industriali, soprattutto di polli e maiali.
In poche parole, spiega l’esperta, sono le transnazionali dell’alimentazione a stare dietro la maggior parte delle malattie a causa delle quali la gente muore. Ribeiro sostiene che il 72 per cento della popolazione mondiale muore di malattie non trasmissibili, come il diabete, disturbi cardiovascolari come l’ipertensione, tumori in particolare dell’apparato digerente, e “tutti sono legati alla produzione di cibo spazzatura, industrializzati e pieni di pesticidi”. E inoltre, spiega, anche l’altro 28 per cento è legato al sistema alimentare, perché la maggior parte deriva da malattie infettive causate dalla produzione sistematica di virus e batteri resistenti agli antibiotici nei grandi allevamenti industriali di animali.
Per lei è chiaro che il problema con le transnazionali non è soltanto lo sfruttamento diretto dei lavoratori ma anche lo sfruttamento della salute e del corpo stesso delle persone. Rappresentano, in somma, la distruzione delle comunità e di tutte le relazioni che producono in altra maniera.
Il paradosso è che il ruolo dell’ETC è stato quello di denunciare il ruolo dei sistemi alimentari e delle corporazioni della catena agro-industriale, ma ha anche dimostrato, attraverso i suoi dati e quelli di altre organizzazioni, che la maggioranza della popolazione mondiale dipende, per il suo cibo, dalle reti contadine, dalla produzione nelle campagne e negli orti urbani, dai pastori e dai pescatori, e persino dalla raccolta e dalla caccia tradizionali. E’ da qui che continua a nutrirsi, nonostante tutto, la maggior parte della popolazione mondiale.
L’ETC ha pubblicato tre aggiornamenti in cui mostra che le corporazioni transnazionali – che possiedono più del 70 per cento della terra, dell’acqua e delle risorse del mondo – nutrono solo l’equivalente del 30 per cento della popolazione mondiale. Ma, spiega Silvia, “per ogni peso che paghiamo per il cibo industrializzato, paghiamo due pesos in costi sanitari e ambientali, e questo non è pagato dalle industrie ma dalla gente.
Per fortuna, come dice Silvia, lungi dal chiedere l’elemosina all’aggressore, “c’è un altro processo che sta crescendo continuamente, dal basso, intessuto da molte maglie, diverse come quello che difendono, dove il popolo del mais si organizza, discute e manifesta”. Ed è per loro che offre questi scritti avvolti come un tamal.
Gloria Muñoz Ramírez – Città del Messico, ottobre 2020
*Traduzione di Marina Zenobio.
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