Riot (la rivolta ai tempi della crisi)
di Guido Caldiron per Liberazione
«Le strade di Brooklands furono devastate dalla sommossa ancora per un’altra ora. Erano due le casacche indossate, quella della farsa e quella della crudeltà. Bande di tifosi di calcio entravano in ogni supermercato gestito da asiatici e facevano razzie sugli scaffali delle bevande alcoliche, e se la svignavano con casse di birra che poi ammassavano per le strade trasformate in bar che distribuivano bottiglie gratis alla gente che si trovava a passare. Tutti correvano, come se cercassero di scappare dalle loro paure. Il panico e la rabbia fuggivano in mille direzioni diverse. Sentivo il lamento dell’ambulanza che correva per le strade, il suono altalenante delle sirene della polizia. E oltre a quei rumori, rumori ancora più profondi, come il latrare della folla attorno alla porta dell’avversario. Le vetrine fracassate di un’agenzia di viaggi erano sparpagliate sul marciapiede davanti a me, una trappola di vetro pronta a mordere le caviglie di chiunque si trovasse a passare distrattamente da quelle parti. Avevo finalmente capito che eravamo stati tutti manipolati da un gruppetto sparuto di burattinai incapaci».
Nelle pagine di James Graham Ballard, lo scrittore inglese scomparso nell’aprile del 2009 che meglio di chiunque altro ha saputo descrivere, in un inedito mix tra fantascienza e critica sociale, il volto della metropoli e della società nell’era della globalizzazione, la sommossa compare spesso, anche se non ha il volto della rivolta degli esclusi, quanto piuttosto quello delle passioni tristi della crisi sociale: razzismo, intolleranza, sopraffazione. Per lui, le esplosioni di violenza urbana che gli anglosassoni definiscono con il termine di «riot», assumono il volto di una rivolta del ceto-medio, manovrata dall’alto e condotta nel nome del consumismo. «Nessuno crede più nelle ideologie politiche, oggi viviamo nella cultura dei consumi, non c’è nient’altro», aveva spiegato lo scrittore.
Eppure, sembra davvero difficile non scorgere nelle violenze degli ultrà del calcio di Brooklands, raccontate in Regno a venire (Feltrinelli, 2006), come anche nella crisi sociale e di valori che fa da sfondo ai terroristi «fai da te» protagonisti di Millennium People (Feltrinelli, 2004) – per non citare che due dei suoi più fortunati romanzi – un’eco della lunga serie di rivolte e violenze collettive che attraversano le metropoli occidentali con sempre maggiore frequenza. Solo che per Ballard – che pochi anni fa aveva affermato: «Il futuro è morto e noi siamo sonnambuli in un incubo» – si tratta di raccontare per questa via il lato oscuro del nostro tempo, l’orizzonte violento che scaturisce direttamente dalla centrifuga della società dei consumi che ha trasformato la merce in ideologia dell’esistenza: «Vedo periferie che si diffondono per il pianeta, la suburbanizzazione dell’anima, vite senza senso, noia assoluta… E poi, di tanto in tanto, bum! Un evento di una violenza assoluta, del tutto imprevedibile».
Roma, Atene, Londra, Santiago del Cile, Oakland, Parigi, Buenos Aires, Genova, Malmo, Berlino… Un lungo elenco di città che potrebbe continuare, accompagnato da immagini simili e ricorrenti, spesso a distanza di anni e di migliaia di chilometri da un caso all’altro: immagini di auto e blindati delle forze dell’ordine dati alle fiamme, di banche e negozi saccheggiati o distrutti, di merci rubate o sparpagliate a casaccio in mezzo a una strada, di scontri violenti e faccia a faccia brutali, di corpi feriti e violati, talvolta di morti. Se J.G. Ballard e la «fantascienza sociale» hanno raccontato da tempo «il futuro che è già tra noi» attraverso una versione tribale e selvaggia della realtà urbana e l’avvento di una sorta di «fascismo postmoderno» che dà voce alle frustrazioni che nascono nell’universo dei consumi, lo scenario della sommossa, del tumulto, del riot, si è fatto, nella realtà, sempre più concreto.
L’«età della crisi» è segnata dalla violenza sociale e dalla precarietà delle vite, dalla perdita di milioni di posti di lavoro, dalla disoccupazione di massa, dall’impoverimento di ampi settori del ceto medio, sospinto verso una drammatica proletarizzazione e dalla contemporanea comparsa, nel vecchio mondo operaio, della figura del «lavoratore povero», quella di chi, pur potendo contare su un salario, quasi non ce la fa a vivere e può ritrovarsi, da un momento all’altro, a perdere tutto. Ma a scandire il tempo del default sociale, quello che nelle biografie di tanti ha già anticipato il rischio di un crollo della Borsa o dell’economia nazionale, c’è anche, e sempre più spesso, la violenza della strada che assume le forme della furia devastatrice che si accanisce su cose o persone o che si declina nel saccheggio generalizzato, nella sospensione temporanea dell’ordine costituito cui si sostituiscono gli umori della folla e la sua brama di merci, senza però che a sostenerle vi sia, almeno in apparenza, una qualche forma di rivendicazione traducibile nel linguaggio conosciuto della politica.
Black bloc e banlieusard
È accaduto nel nostro paese, a Roma, nell’ottobre di quest’anno, ai margini della grande manifestazione degli «indignati», con ore di scontri, devastazioni e decine di feriti. Ma è successo, con esiti ancor più gravi, a Londra nel pieno della scorsa estate, con notti interminabili di saccheggi e incendi. Mentre ad Atene sono tre anni che al continuo peggiorare della situazione economica e politica del paese si accompagnano incidenti e violenze di piazza: oggi in pochi lo ricordano, ma le prime manifestazioni hanno avuto luogo nel paese dopo la morte di Alexis Grigoropoulos, un giovane minorenne ucciso dalla polizia nel quartiere ateniese di Exarchia nel dicembre del 2008. E nella Francia che si prepara a eleggere nella primavera del prossimo anno il suo presidente, le banlieue non hanno praticamente più smesso di bruciare da quella enorme rivolta che, nel 2005, offrì al ministro dell’Interno dell’epoca, Nicolas Sarkozy, una chance decisiva per presentarsi come «uomo d’ordine» e lanciare la propria candidatura per l’Eliseo. Ma era successo, nel 2008, anche nelle periferie dell’immigrazione di Malmö, la capitale industriale del Sud della Svezia, nelle stesse strade dove è cresciuto lo «zingaro» del football Zlatan Ibrahimovic´. Del resto, gli anni Duemila erano stati introdotti dal fuoco delle giornate genovesi del G8 del luglio del 2001 e dalle battaglie dei piqueteros nell’Argentina in bancarotta. E a più di dieci anni di distanza, dei cappucci neri dei black bloc si è tornati a parlare ancora poche settimane fa, all’inizio di novembre, quando, mentre l’accampamento di Zuccotti Park a Manhattan attirava l’attenzione dei media di tutto il mondo sul movimento Occupy Wall Street, per le strade della città di Oakland, che si affaccia sulla baia di San Francisco, le forze dell’ordine si scontravano per ore con centinaia di attivisti «radicali» che, hanno raccontato le cronache di stampa, «distruggevano tutto quello che avevano davanti». Nella stessa località californiana, un vero e proprio «riot» aveva avuto luogo già nel 2009, dopo che un giovane afroamericano era stato ucciso «per errore» da alcuni agenti dello speciale corpo di polizia che vigila sulla rete della metropolitana.
Ma cosa c’entrano i black bloc, nostrani o d’Oltreoceano, con le sommosse che vedono protagonisti nelle città della Francia come della Gran Bretagna o del Nord Europa quelle che vengono definite come le seconde e terze generazioni dell’immigrazione postcoloniale? Cosa possono avere in comune quelli che la stampa presenta come grotteschi epigoni della violenza politica degli anni Settanta con i protagonisti dei riot metropolitani, quei giovani che dai «ghetti» muovono all’assalto del centro delle città, saccheggiando supermercati e negozi di elettrodomestici? E, ancora, come paragonare Atene con Buenos Aires, Genova con Parigi o la Svezia con la California?
È naturale e legittimo che di fronte all’ipotesi di veder affrontare nel medesimo contesto eventi tra loro diversi e lontani che di comune sembrano avere solo il proprio carattere violento, si abbia l’impressione che il risultato non potrà che essere una gran confusione. Per evitare ogni fraintendimento, si deve perciò chiarire come il nesso che si può ipotizzare, e che diversi studiosi hanno già, come si vedrà tra breve, ipotizzato concretamente tra tutti questi fenomeni, non riguarda tanto i loro eventuali tratti similari, quanto piuttosto il loro rappresentare i diversi volti assunti da questa «età della crisi» in cui siamo oggi tutti irrimediabilmente immersi. In altre parole, a rendere immaginabile che si possa tentare una sorta di «analisi comparata» dei fatti di Roma, Londra, Atene o Parigi non è l’esistenza di una relazione diretta tra ciò che è avvenuto in queste città, bensì il comune profilo dello scenario che, a livello internazionale, vi ha fatto da sfondo. Quale sia questo scenario, è stato ben sintetizzato dal filosofo sloveno Slavoj Žižek, in un articolo pubblicato originariamente sul Guardian nel 2010 e riproposto di recente nell’Almanacco Guanda 2011 dedicato alla «politica della paura». «Dopo decenni di speranza sostenuta dallo Stato sociale, durante i quali i tagli finanziari venivano spacciati per temporanei, e compensati dalla promessa che le cose sarebbero presto tornate alla normalità», ha spiegato Žižek, «stiamo entrando in una nuova epoca nella quale la crisi – o, meglio, una specie di stato economico d’emergenza, con il relativo bisogno di misure d’austerità d’ogni tipo (tagli dei sussidi, riduzione dei servizi sanitari e scolastici, maggiore precarietà dei posti di lavoro) – si è fatta permanente. La crisi sta diventando uno stile di vita».
La politica della strada
È la way of life della crisi, radicale e spietata, che annuncia una sorta di «no future» sociale a fare da sfondo al moltiplicarsi dei riot, a una nuova stagione di violenze «di piazza», al diffondersi delle esplosioni di rabbia da parte di chi è, si percepisce, o si rappresenta come «un escluso». A segnalare un primo elemento su cui riflettere in questa direzione è Alain Bertho, uno dei più brillanti sociologi francesi che alla fine del 2009 ha dato alle stampe un volume che scommette proprio sul ruolo crescente di questi fenomeni e che non a caso si intitola Le temps des émeutes (Bayard), «il tempo delle sommosse». «Gli émeutes», spiega Bertho, «non rappresentano né il riemergere di forme arcaiche di rivolta, né il prolungamento senza fine di ciò che gli storici hanno chiamato “le emozioni popolari”. Sono al contrario uno dei volti che definiscono l’epoca in cui viviamo e una delle chiavi di lettura, nella loro dimensione, sia soggettiva che globalizzata, del presente».
Studioso delle periferie francesi, Bertho ha iniziato dapprima ad analizzare le ricorrenti esplosioni di rabbia delle banlieue per poi volgersi verso ogni forma di «rivolta» che attraversi lo spazio sociale in tutte le metropoli del mondo. Un percorso che lo ha condotto, dopo aver misurato il tipo di relazione che questi fenomeni hanno con la realtà sociale, con lo spazio urbano, con l’appartenenza generazionale dei loro protagonisti e con la stessa politica, ad affermare che la stagione degli émeutes rappresenta all’interno dell’odierno mondo globalizzato una sorta di «sequenza dello scontro», qualcosa di paragonabile a ciò che un tempo si sarebbe definito come un «ciclo rivoluzionario». La rivolta delle banlieue francesi del 2005 e il riot londinese della scorsa estate, e ciò che vi ha fatto seguito in molte altre metropoli, finiscono così per assumere agli occhi di Bertho caratteristiche paragonabili, con le dovute proporzioni, alla Primavera dei popoli del 1848, alla Rivoluzione del 1917 e alle sue conseguenze internazionali o agli avvenimenti del Sessantotto.
Il fatto che queste vicende siano spesso derubricate a puri fenomeni di ordine pubblico, non abbiano alcuna relazione diretta le une con le altre o non sembrino esprimere, al di là dell’incendio di qualche macchina, del saccheggio di un negozio o dello scontro con le forze dell’ordine, alcuna rivendicazione o alcun esplicito «messaggio» politico, non sembra turbare né suggerire maggiore cautela allo studioso francese. Rispondendo all’analisi corrente che legge nelle rivolte urbane un malessere sociale che la politica dovrebbe tentare di tradurre in rivendicazioni e proposte, Bertho conclude affermando invece l’assoluta novità di questo fenomeno. «L’émeute», spiega, «non enuncia un limite del campo politico che dovrebbe aprirsi per integrare nuove rivendicazioni, nuove sfide e nuovi attori sociali. In realtà, siamo in presenza di qualcosa di più profondo che indica l’esaurimento dello spazio pubblico moderno e delle forme di azione collettiva che vi si sono dispiegate fin qui. Possiamo ipotizzare che questa famosa “traduzione politica” sia oggi semplicemente impossibile. Questi giovani sembrano infatti dirci che le loro rivendicazioni e il loro farsi ascoltare dallo Stato non passano per la politica, ma per un “faccia a faccia” che può essere anche violento».
È in questo «confronto» dei giovani con lo Stato, quasi un’istantanea tratta da ogni rivolta urbana, che sembra prendere corpo ciò che Bertho definisce come «lo spazio necessario di un’interlocuzione»: una sorta di rifondazione dello spazio pubblico che passa per i corpi e per le strade, negando legittimità a quella rappresentanza politica che non appare più in grado di incontrare buona parte della società e certamente non i settori giovanili e quelli più soggetti alle forme di esclusione. Se gli émeutes «non comunicano», nessuno sembra del resto davvero interessato ad ascoltarli. La storia delle rivolte urbane racconta ovunque qualcosa di simile.
Londra e Parigi
In Francia – dopo che nell’ottobre del 2005 la morte accidentale a Clichy-sous-Bois, periferia Nord di Parigi, di due adolescenti, ragazzi francesi figli dell’emigrazione africana e maghrebina, che cercavano di sottrarsi a un controllo di polizia, fece da detonatore per l’inizio di scontri poi protrattisi per circa un mese e conclusisi con diverse centinaia di auto bruciate, più di cinquecento arrestati e la reintroduzione della legge sullo stato di emergenza varata nel 1955 durante la guerra d’Algeria – nulla sembra essere cambiato. Per i circa sei milioni di francesi che abitano nelle periferie urbane – quasi uno su due tra i cittadini d’Oltralpe che hanno meno di venticinque anni – povertà, disoccupazione e abbandono scolastico restano problemi quotidiani. Una situazione disastrosa, che ha prodotto un’altra mezza dozzina di émeutes, circa uno l’anno, nella stagione che va dal 2005 ad oggi, a cui si aggiungono le continue tensioni tra i giovani di questi quartieri e le forze dell’ordine e la comparsa di vere e proprie bande che si scontrano per il controllo del territorio.
Non è diverso anche lo scenario che ha fatto da sfondo alla rivolta scoppiata nell’agosto di quest’anno nelle città inglesi dopo che un ventinovenne nero era stato ucciso dalla polizia nel quartiere londinese di Tottenham. Per quattro notti consecutive gruppi di giovani si sono scontrati con le forze dell’ordine, hanno dato alle fiamme interi edifici, talvolta anche abitati, e hanno saccheggiato diversi negozi. Alla fine, il premier conservatore David Cameron ha scelto di schierare oltre 16 mila agenti in tutte le zone più calde del paese, riuscendo così a porre un limite alle violenze; oltre 1.100 persone sono state arrestate anche grazie ai filmati delle telecamere di sorveglianza, di cui il paese detiene il primato internazionale. Particolarmente violenta, la rivolta inglese ha però colpito gli osservatori anche per alcune sue caratteristiche «sociali»: tra i fermati per gli incidenti ci sono stati infatti anche ragazzini di poco più di dieci anni e in molti hanno raccontato ai cronisti accorsi di aver visto delle donne adulte che, fermata la macchina davanti a un grande magazzino assaltato dalla folla, reclamavano qualcosa anche per sé. Evidente anche il ruolo che le street gangs, censite a centinaia in tutto il paese da Steve Hackman, il giornalista autore di Young Guns (Milo Book, 2010), hanno avuto nei giorni della rivolta.
Hanif Kureishi – lo scrittore figlio di un pakistano e di un’inglese che con la sceneggiatura di My Beautiful Laundrette, film diretto nel 1985 da Stephen Frears, aveva raccontato il razzismo e la violenza nell’Inghilterra degli anni della Lady di ferro Margaret Thatcher – ha descritto in questi termini le zone in cui è accaduta la rivolta e i giovani che ne sono stati protagonisti: «Sono aree dove tantissimi ragazzi girano armati o fanno uso di droghe. I trentenni non hanno mai lavorato e mai lavoreranno, cittadini britannici, e non immigrati, che perlopiù sono dei paria di un sistema economico di cui non sono mai riusciti a far parte. Per molti il passatempo principale è il crimine, al massimo il rap. Vivono in quartieri dove la disoccupazione è tra le più alte del paese e con la consapevolezza che la loro condizione s’aggraverà sempre di più».
Complessivamente, ha spiegato il sociologo Agostino Petrillo, autore di Città in rivolta (ombre corte, 2004), «queste rivolte trovano spazio nell’ambito di una “nuova questione urbana” che si è sviluppata in rapporto ai processi di globalizzazione. E il filo che lega tra loro simili eventi è rappresentato proprio da queste trasformazioni: in particolare l’emergere di nuove diseguaglianze e polarizzazioni nelle metropoli, alle quali non è stata data ancora alcuna risposta in termini di governo e di gestione della città». Una condizione a cui negli ultimi anni, e con l’emergere della crisi globale, si è aggiunta una sorta di convergenza nella disperazione di un ceto medio sempre più declassato e privo di prospettive e di settori popolari – che nelle società degli ex paesi coloniali hanno soprattutto il volto dei figli dell’immigrazione – che vivono da tempo ai margini della realtà sociale o subiscono forme crescenti di esclusione. Scorrendo gli articoli di stampa che hanno tracciato una sorta di «sociologia» degli arrestati per gli incidenti di Roma dello scorso ottobre, emerge del resto un ritratto del genere. Circa metà degli arrestati sono minorenni, alcuni sono precari, alcuni vengono dalle periferie urbane. A dispetto della lettura che parla per quell’intera giornata di «violenze orchestrate da parte di gruppi organizzati», che in ogni caso ci sono state, alcune delle persone accusate di aver preso parte agli «scontri» appaiono lontane da qualunque coinvolgimento attivo in formazioni politiche, anche estremiste, mentre altri fanno sinceramente pensare alla marginalità e all’esclusione.
La stretta relazione tra questi ricorrenti scoppi di violenza e l’età della crisi non deve però far pensare che non esista anche una sorta di genealogia della rivolta, con due illustri precedenti: Brixton e Los Angeles. Proprio in occasione dei riot inglesi di quest’estate il Guardian aveva evocato quello scoppiato nel quartiere di Brixton, a Londra, nel 1981 dopo l’arresto di un giovane nero. Ed è a proposito di quella memorabile rivolta che lo storico Marco Crispigni aveva parlato, in La città senza luoghi (Costa & Nolan, 1997), di «conflitti impolitici», una definizione oggi tornata d’attualità: «Nel giro di pochi minuti, gioiellerie, negozi di abbigliamento e di elettrodomestici, un magazzino intero, vengono svaligiati, distrutti e poi incendiati. Il saccheggio e la riappropriazione delle merci coniugano la radicalità del conflitto all’accettazione del consumismo. Ciò che manca sono le usuali rivendicazioni della conflittualità sociale e politica». Qualcosa del genere sarebbe avvenuto anche a Los Angeles nella primavera del 1992 dopo il pestaggio di un automobilista afroamericano da parte della polizia. Per tre giorni decine di migliaia di persone daranno vita a scontri, incendi e saccheggi. Per il sociologo Massimo Ilardi (Ragazzi senza tempo, Costa & Nolan, 1993), «la miseria dei ghetti ha insegnato a questi giovani che i diritti, prima che su qualsiasi pezzo di carta, sono scritti sull’asfalto. È lì, tra i grandi centri commerciali e i supermercati scintillanti di merci che si gioca la partita».
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