Sainte-Soline: proposte per un’autonomia delle lotte
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa serie di traduzioni che partendo dalle lotte contro il mega-bacino idrico a Sainte-Soline aprono il dibattito sull’interpretazione dell’ecologismo e su quali strategie per un’autonomia delle lotte. Ci pare un dibattito interessante che pone alcuni interrogativi con cui sarebbe utile interagire, intanto buona lettura!
Introduzione.
Per una nuova autonomia delle lotte, oltre ambientalismo. Lezioni da Sainte-Soline.
Traduzioni a cura di Torino Classe Contro e Immoi
Pubblicati prima e dopo l’importante giornata che il 29 ottobre ha di fatto rallentato e fermato i lavori per la costruzione di un mega-bacino idrico a Sainte-Soline1, questi due interventi avanzano una stimolante proposta di approccio a quelle lotte che spesso vengono etichettate come ecologiste2.
Questi testi si posizionano all’interno del solco di una serie di discorsi che hanno avuto e tutt’ora hanno una forte diffusione in Francia3.
Ciò che viene proposto non è un insieme di cose da fare, di questioni chiave sulle quali organizzarsi, ma semplicemente una strategia, un modo di organizzarsi nelle lotte, perché sfuggano ad un addomesticamento che ne indebolisce il portato conflittuale. Addomesticamento che qui viene individuato nelle forme politiche rappresentative di cui si fanno portatrici quelle forze di sinistra che intrattengono un rapporto simbiotico con le istituzioni “democratiche”.
Ad un lettore italiano potrà risultare poco chiaro il senso di diffondere questo testo francese.
Si potrebbe obiettare che in Italia ci troviamo in una situazione diversa, da una parte siamo in assenza di grandi momenti di lotta che diano un appiglio empirico a questo tipo di discorsi, dall’altra l’assenza, il collasso, la nullità della sinistra è tale, da non porre nemmeno un problema di un suo recupero istituzionale delle lotte.
Crediamo che invece questi testi costringano a smuovere un dibattito che in Italia troviamo piuttosto stagnante, e soprattutto riteniamo valido il suggerimento di una postura nelle lotte che sia autonoma rispetto alla sinistra e alle sue sfaccettature. La proposta qui invece è quella di abbandonare la ricerca di una sponda, di una controfigura, per investirsi nelle lotte nella loro traiettoria autonoma, cercare e dare forza a ciò che di rifiuto e di affermativo troviamo nel loro farsi.
Forse qualche esempio potrebbe rendere più chiara la posta in gioco:
Possiamo pensare la lotta alla TAV in Val di Susa non nei termini di una domanda alle istituzioni di abbandonare un progetto, ma come un’esperienza di lotta che ha generato spazi di autonomia, di costruzione di mondi più desiderabili e con il quale possiamo entrare in contatto diretto.
Possiamo andare a tirare della vernice su dei quadri per denunciare l’aumento delle emissioni di CO2, sperando di creare coscienza del problema in una popolazione che pensiamo di dover educare, oppure di fare pressioni su delle istituzioni (nazionali o sovranazionali).
Dall’altra parte possiamo pensare di affrontare il problema ecologico non come un problema morale individuale, ma nemmeno da delegare alle istituzioni, ma come problema pratico di costruzione di mondi altri che impediscano la devastazione di cui i grandi progetti del PNRR si farebbero portatori.
In questi testi possiamo trovare una critica ai discorsi di una parte del mondo “ecologico” che riduce la Terra ad un insieme di flussi energetici contabilizzabili. Come anche a quei discorsi che ci riducono ad elementi inermi all’interno di una grande astrazione costruttivista nella quale le nostre possibilità di agire sarebbero ridottissime in favore di quelle di “scienziati” o governanti.
Troviamo una critica a quell’ecologismo che nella sua critica delle attuali forme di governo catastrofico del pianeta, rimane sul suo stesso piano sistemico ed epistemologico, immaginando giusto delle soluzioni di governo “migliori”, potremmo dire, delle catastrofi dolci.
Infine, possiamo rintracciare una critica a quei movimenti ambientalisti che nel loro rapporto con le istituzioni (da quelle nazionali a quelle globali) alimentano un’ansia da apocalisse la cui data oscilla tra il 2030 e il 2050, in cui la grande coscienza dei cambiamenti climatici e della catastrofe (che non ci attende, ma è già presente) si accompagna ad un senso di impotenza che è tanto grande quanto sono vuote le istituzioni a cui si rivolgono i loro discorsi.
Proviamo quindi a tracciare alcuni dei punti di questa proposta che ci sono sembrati interessanti e che vorremmo porre in discussione.
Il primo punto posto è quello di svincolarsi da una rigida separazione delle “problematiche”, che sia quella sociale, ecologica, o altro. Quando le lotte portano con sé delle etichette non fanno altro che rischiare di scadere nuovamente nei paradigmi di governo, per quanto critiche possano sembrare.
La questione ecologica, quindi, non può essere ridotta a una mera questione ambientale o climatica, ma porta con sé un problema inseparabile alle nostre esistenze: quello del nostro rapporto col mondo e le sue trasformazioni. I testi avanzano una critica imprescindibile all’ambientalismo e al modo in cui la questione viene approcciata in una buona parte dei discorsi che accompagnano questo genere di lotte: la separazione.
Da una parte questa separazione viene camuffata attraverso degli espedienti retorici come la giustapposizione dei lemmi “ecologia” e “sociale”, o “ecologia” e “politica”.
Dall’altra, però, la vera separazione è quella che sta alla base della stessa concezione ecologica che può essere legata alla metafora (neanche molto metaforica) dell’astronauta che osserva il mondo nella sua totalità da un punto di vista esterno, esterno alla specie umana ed esterno alle numerose traiettorie evolutive che essa può percorrere nel rapporto agli ambienti che abita.
Un‘ulteriore separazione da superare è quella tra il discorso e l’agire. Qui si tratta di disinnescare il feticismo delle istanze e dei moventi che dovrebbero sottostare ad un a determinata azione. Momenti come la rivolta a Sainte-Soline parlano da soli, e le istanze non spiegano il gesto estremo di mettersi in pericolo, di rischiare, ma anche di respirare, correndo in campi militarizzati.
Così l’ostilità ad un bacino di privatizzazione dell’acqua non spiega perché correre nei campi in mezzo a gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma.
Così il raggiungimento di un obiettivo, non fa che evidenziare quanto esso sia vuoto.
Queste riflessioni strategiche si legano all’impossibilità del nostro tempo di aggregare le forze rivoluzionarie intorno ad un unico discorso, linguaggio o programma. Ciò non significa l’abbandono di una esigenza comunista. Significa cogliere il darsi di un’esigenza comunista nelle numerose forme di mobilitazione, cogliere il loro valore profondo, senza bisogno di proiettarne al disopra un discorso, una rivendicazione specifica. Si tratta di ri-pensare il nostro approccio alle lotte. Di chiederci come fare, come organizzarci. Significa rifiutare un’idea astratta di rivoluzione che si può compiere per passaggi parziali: «Oggi non è più
necessario oscillare tra la “concretezza” delle lotte a compartimenti stagni e l'”astrazione” della rivoluzione».
La questione rivoluzionaria allora è una questione di posizionamento nelle lotte e delle lotte, scegliere a quali linee di forza contribuire, quali tendenze approfondire con la propria partecipazione. Scegliere il terreno del conflitto, oltre che lo “spazio di discussione in cui crescere”.
Non si tratta di aggregare le forze in vista di un obiettivo tanto lontano quanto astratto da raggiungere, ma di rompere con l’ordine immediato che ci circonda. La rivoluzione, quindi, è una questione situata.
«Non scommettiamo su un unico partito di rivolta, né su un campo plurale e unificato del Bene. Si tratta di pensare e vivere l’iscrizione di posizioni rivoluzionarie chiare e distinte in un campo inarrestabile nel suo futuro ma legato a criteri solidi: l’odio per l’istituzione, la guerra al governo del mondo.»
Una posizione rivoluzionaria scarta ogni fantasia di una governance equa o più efficiente, e si posiziona all’interno dei processi concreti del mondo, non per governarli (o governarli meglio), ma per cercare di produrre una breccia, per uscire da un discorso emergenziale e costruire nuove esperienze autonome.
Un posizionamento rivoluzionario alla catastrofe in corso rifiuta ogni rappresentazione astratta del “sistema-mondo” o del mondo-Terra, per agire nel concreto dei mondi che si attraversano, per costruirne di nuovi.
Torino Classe Contro
Né ecologia né società
https://lundi.am/Ni-ecologie-ni-societe
Dopo un’estate torrida che ha mandato ancora una volta in tilt i barometri dell’emergenza, alcuni intrepidi non esitano a chiamare questo periodo “l’autunno caldo”, proiettando le loro ultime speranze sulla congiunzione tra l’eterna data di rientro della Sinistra (scioperi nelle raffinerie, lotta all’inflazione) e l’appello a sostenere la lotta contro il progetto di un nuovo mega-bacino nel Deux-Sèvres. In quest’epoca di “allo stesso tempo” (“ma anche…”), ci ricordiamo una vecchia formula: “Fine del mondo, fine del mese, stessa lotta!”
Questo slogan risuonava ancora poco tempo fa nelle strade fino agli Champs Élysées, dove i Gilets Jaunes hanno tratto forza da questa frase che in principio era stata pronunciata con cinismo da Nicolas Hulot, ministro dell’Ambiente. Oggi la sua forza si è attenuata. Si è persino rivolta contro le lotte ed è tornata alla sua funzione iniziale, quella di governo. Stiamo assistendo alla costruzione di un nuovo scenario per le lotte, che tiene fianco a fianco, separate ma insieme, le due categorie della pacificazione di massa: le questioni sociali — che hanno ripetutamente dimostrato la loro rilevanza pacificatrice — e l’ecologia, un nuovo anestetico pigliatutto.
La civiltà ha raggiunto una squisita perfezione nella produzione di soggettività alienate. L’assenza dal mondo che riesce a infonderci, ha raggiunto un nuovo stadio. Finora è riuscita a far sembrare criminale qualsiasi esperienza di comunità, a far sembrare terroristica qualsiasi condivisione dell’uso, e a far sembrare la questione dell’organizzazione della solitudine — cioè il sociale — una questione esterna, fuori di noi. Nel processo di civilizzazione del mondo, la presa sugli esseri e sulle cose è inseparabile dalla presa sulle domande. Così, nella eterna ricerca di perfezionamento della civiltà, è necessario togliere agli abitanti del disastro un’altra domanda: quella ecologica. Che in realtà è sempre la stessa — la questione del proprio rapporto al mondo — ma deve essere continuamente divisa, tenuta separata, distrutta pezzo per pezzo, ridotta a essere solo il pavimento dell’individualità. L’ecologia come separazione definitiva in cui le cose devono solo accumularsi senza mai incontrarsi, senza mai risuonare.
devono solo accumularsi senza mai incontrarsi, senza mai risuonare.
L’epoca sta dando vita a un nuovo tiranno, frutto della riunificazione di questi due domini separati: ECOLOGICO-E-SOCIALE.
La produzione dell’individuo è inseparabile dalle sue amputazioni “sociali ed ecologiche”, che con un’inversione diventano i suoi attributi principali. L’identità, figlia abietta dell’appartenenza, non c’entra più niente con la possibilità di una riappropriazione collettiva delle domande e dei modi di rispondervi. L’identità funge addirittura da unità di base del governo di questa civiltà. Spetta a ciascuno collocarsi, in base alla propria sensibilità, sui diversi cursori della propria identità politica futura: da chi sarà più colpito dalle questioni sociali a chi avrà raggiunto una più acuta consapevolezza dei problemi ambientali.
Dobbiamo in primis ricordarci l’importante ruolo svolto dall’utopia socialdemocratica nel disinnescare le lotte più aspre del secolo scorso, e solo allora sarà possibile distinguere il futuro ruolo della coscienza ecologica come braccio armato della controrivoluzione nel XXI secolo.
LA QUESTIONE TOTALE
Persiste la voce che l’ecologia sia un percorso di politicizzazione perché diffonde e media un problema che è di TUTTI.
Solo un’amnesia generale può spiegare perché sia considerata una novità una questione che si poneva già mezzo secolo fa, assieme alla questione sociale, come problema dell’unità della specie umana. Amnesia alimentata da grandi miti storico-scientifici, in particolare quello della coincidenza tra le prime incursioni umane nello spazio e la consapevolezza ecologica. Nel 1972, l’anno dei primi vertici governativi sul cambiamento climatico (Vertice di Stoccolma), la NASA fornì la prova tecnica dell’unità umana con una fotografia del “nostro pianeta blu che galleggia nel vuoto”, Blue Marble. Nel tentativo di imporre la sua radicale modernità, questo mito nasconde malamente le sue profonde radici tradizionali. Prima delle varie e simili consapevolezze ecologiche e sociali, l’unità di tutti gli esseri umani è sempre stata la fantasia delle grandi religioni. Come secolarizzazione dei vecchi problemi di governo, l’antinomia tra tradizione e modernità sembra dissolversi nel raggiungimento mitico dell’unità-separazione di tutti gli uomini, non più con Dio, ma con la figura altamente tecnologica dell’astronauta.
Un nuovo monarca, l’astronauta potrebbe dire che a questa distanza dalla Terra non riconosce più nessuna parte, vede solo uomini. Ma la definizione di un’unità da una tale distanza, dal vuoto, dall’assenza dal mondo, non può che essere una prova di ostilità, un’unità di governo. In un certo senso l’umanità è solo extraterrestre, perché è nel terrore di dover pensare alla propria situazione singolare e comune che trova posto la consolante fantasia della totalità, dell’unità terrestre.
In sostanza, l’ecologia è un dispositivo chiave della depoliticizzazione contemporanea perché risponde con due strategie: si identifica o si affida al blocco della governance, oppure perde ogni orizzonte politico nella settorializzazione della lotta e nel ripiegamento sulla morale.
UNO STUDIO DEL MILIEU
Tuttavia, mentre questa improvvisa unità forzata ci forza alla spoliticizzazione, l’esperienza della separazione e della mancanza di presa diventa una fonte di politicizzazione. Allo stesso tempo, la consapevolezza del proprio spossessamento non dà ancora un accesso alle domande.
L’emergere di una posizione rivoluzionaria non può prescindere da una critica radicale del milieu ambientalista — coloro che hanno così paura di non averne uno, di essere fuori dal coro, si trovano comunque ad annaspare in un milieu: quello della Sinistra. La Sinistra è la perpetuazione della fantasia di una governance giusta. Il grande dibattito sulla condivisione dell’acqua o sulla ridistribuzione delle terre sono solo alcune delle molte illustrazioni di questa fantasia. Disporre o non disporre, distruggere o conservare; per mantenere un tale rapporto di esteriorità alle cose, era necessario negare sia la dimensione ontologica dei luoghi che quella geografica degli esseri, rendere impossibile qualsiasi relazione non- utilitaristica. La non separazione, l’accesso all’uso, è possibile solo abbandonando ogni desiderio di governo, mettendosi alla pari con il mondo di fronte alle domande. Non c’è bisogno di leggere l’opera omnia di Philip K. Dick o di guardare l’intera serie Westworld per capire che dietro ogni proposta utopica c’è una distopia molto reale, sia che sia costellata di automi che garantiscono la fine del lavoro, sia che si articoli intorno a una figura, una forma di vita, il contadino che coltiva un rapporto onesto con la terra. La civiltà non cerca di avere il controllo, cerca che sempre vi sia del controllo.
È quindi il contrario della produzione che dobbiamo trovare, non possiamo accontentarci di un semplice cambiamento del modo di produzione (slogan di Greenpeace: “Produrre con la natura”).
Dobbiamo uscire dalla palude del discorso emergenziale sul disastro ambientale e capire che il ruolo storico della civiltà è sempre stato quello di produrre ed estendere l’ambiente del disastro.
LA BRECCIA
Tutte le mosse del potere — nuovi confini, riformulazione di concetti tecnici, campagne di Sinistra — rivelano agli occhi di chi sa guardare che esiste una breccia, che è aperto un dibattito sulla perpetuazione o il rinnovamento delle logiche di controllo, e che attraverso questa breccia possiamo vedere la civiltà nuda e vulnerabile. Questa finestra di opportunità non è scontata, non dobbiamo ricadere nella trappola che la chiuderà inevitabilmente, per la civiltà tutte le contraddizioni sono risolvibili, morte al marxismo.
In questi tempi di invocazione di un autunno caldo, ricordiamo uno degli eventi fondanti dell’ autonomia operaia in Italia, la rivolta di Piazza Statuto del 1962. Quel giorno, l’alleanza tra i sindacati e il Partito Comunista Italiano, più propenso a difendere l’ordine repubblicano che a farsi portavoce delle richieste dei lavoratori, non rimase accettabile. Per la prima volta, una manifestazione su larga scala prese d’assalto la sede di un sindacato. I carabinieri intervennero brutalmente per proteggere i sindacalisti, ridefinendo così la linea del conflitto. Seguirono tre giorni di disordini e scontri intorno alla piazza. Con questo atto fondativo, i giovani ribelli aprirono a se stessi e alle generazioni future la possibilità di una radicale messa in discussione del lavoro, della sua organizzazione e delle istituzioni che lo gestiscono, modificando radicalmente il contenuto delle lotte che seguirono.
Il superamento che misero in atto è sempre possibile. Le lotte rivoluzionarie non saranno quindi né ecologiche né sociali. Troviamo insieme gli usi che faranno risuonare nel tempo le possibilità della Rivoluzione. Gli incontri e la creazione di una posizione rivoluzionaria sono situati, perché è nella pratica della lotta che nasce /a più grande destituzione. Non perdiamo l’occasione di essere a Saint Soline il 29 e 30 ottobre.
Perché correre nei campi? – Sainte-Soline, 29 ottobre 2022
https://lundi.am/Pourquoi-courir-dans-les-champs
Movimento contro l’accaparramento dell’acqua.
Sabato 29, assalto rivoltoso di diverse migliaia di persone in occasione della mobilitazione vietata contro la costruzione di un mega-bacino. Domenica 30, sabotaggio di un tubo sotto le telecamere. Partigiani di un certo eco-populismo con tendenze insurrezionali, gli organizzatori avevano promesso una manifestazione gioiosa e determinata, promessa mantenuta. L’obiettivo era raggiungere il cratere del futuro bacino e ci sono riusciti.
Movimento contro l’accaparramento dell’acqua.
Sabato 29, assalto rivoltoso di diverse migliaia di persone in occasione della mobilitazione vietata contro la costruzione di un mega-bacino. Domenica 30, sabotaggio di un tubo sotto le telecamere. Partigiani di un certo eco-populismo con tendenze insurrezionali, gli organizzatori avevano promesso una manifestazione gioiosa e determinata, promessa mantenuta. L’obiettivo era raggiungere il cratere del futuro bacino e ci sono riusciti.
Il sottoprefetto cerca di sorridere dopo gli eventi della giornata, sostenendo che i manifestanti sono stati respinti e l’occupazione del sito è stata bloccata. Ma la gendarmeria è stata effettivamente respinta, fila dopo fila. La probabilità che sia stata particolarmente incapace toglie la certezza di essere stati particolarmente bravi, ma l’assalto è stato continuo e non c’è stata un’ombra di esitazione per due ore e mezza. Questa determinazione non solo era intensa e continua4, ma è anche stata condivisa a un livello raramente raggiunto prima. Come dirlo? C’è stato un allineamento tattico dall’alto tra i partecipanti. Ciò testimonia almeno la possibilità di un allineamento strategico dall’alto.
Quali sono i discorsi che strutturano l’evento? Dei rappresentanti ambientalisti, danno il loro sostegno prima della manifestazione, in modo più o meno spontaneo. Uno di loro lascia il campo con la parola “crevure” [carogna, NdT] dipinta sulla sua auto, due volte. Il suo collega più radicale dice che sta pagando per la sua difesa di un’ecologia di governo, a scapito di un’ecologia di lotta. Lei stessa ha parlato nei giorni scorsi di “guerra dell’acqua” e ha decorato Rémi Fraisse con la medaglia di “primo morto”. Non c’è dubbio che la sinistra difenda la rivoluzione a titolo postumo. Un leader trotskista nei giorni scorsi dichiara, tra gli applausi, che si deve porre la questione della violenza. La manifestazione nemmeno più. Dopo la manifestazione, il Ministro dell’Interno “non esita a parlare di eco-terrorismo”, lasciando per il futuro un margine di manovra semantico piuttosto ristretto. Uno “scivolone” del ministro, replica il numero 1 dei melenchonisti, che altrove invocano una polizia repubblicana (“La République, c’est moi”). AI Ministero degli Interni insistono con una risposta: non permetteranno nessuna ZAD a Sainte- Soline. Ma nessuno aveva posto la questione. Ci sono giornate che sembrano dotate di parola, in grado di porre delle domande ad alta e intellegibile voce dimostrerà che non si pone.
Perché correre nei campi, assaltare le linee della gendarmeria, prenderle in contropiede, debordarle, farle bruciare, passare attraverso i fossati e le siepi, gettarsi collettivamente, vecchi e giovani, attraverso tutto questo?
Soline. Ma nessuno aveva posto la questione. Ci sono giornate che sembrano dotate di parola, in grado di porre delle domande ad alta e intellegibile voce.
Perché correre nei campi, assaltare le linee della gendarmeria, prenderle in contropiede, debordarle, farle bruciare, passare attraverso i fossati e le siepi, gettarsi collettivamente, vecchi e giovani, attraverso tutto questo?
“Ve lo diciamo noi: è l’ostilità ai bacini”. Una cosa è il motivo invocato, che è centrale e dominante, un’altra è la meccanica della rivolta. Quando la rivolta mette piede su un terreno di lotta, è già in gioco qualcos’altro. Abbiamo attraversato le linee insieme, in barba al divieto, alla paura, in contraddizione con il nostro respiro, siamo passati tra le maglie di una rete destinata a stringersi; abbattendo le ultime barriere siamo scesi nell’area del Progetto, un’area devastata da un progetto civile tra milioni di altri, mettendo in fuga due elicotteri dopo aver attaccato i furgoni; successivamente abbiamo dovuto fuggire, siamo usciti sotto le granate Sivens, i colpi di LBD5, nella solita atmosfera rarefatta, e abbiamo usato le stesse barriere per proteggere la ritirata. Sì, c’è qualcos’altro in gioco.
Tuttavia, la giornata assomiglia furiosamente a un atto mancato, sintomo di un’epoca: l’obiettivo è stato raggiunto, e l’obiettivo era vuoto. Come se si fosse tanto più capaci di impegnarsi quanto più l’impegno effettivo tende al grado zero. Si rallegreranno gli attivisti puri, per i quali la rivolta è essa stessa la propria fine. Altri blatereranno, facendo della lotta su una questione ultra-precisa una pietra miliare per l’avanzata rivoluzionaria. Ma che piaccia o no, la politica del passo dopo passo, quella del progressismo radicale, non ha mai posto altre questioni se non quelle che entrano nella logica del governo. E di fronte alla proliferazione di argomenti e alibi riformisti, il radicale che non dice nulla, acconsentono. Tutto accade come se, tra depressione e disorientamento, i rivoluzionari avessero essi stessi perso il filo, la voglia di rivoluzione, appena quattro anni dopo una spinta insurrezionale la cui eco si era diffusa in tutto il mondo. È difficile da ammettere. In realtà, la rivolta conosce un altro passo, come abbiamo detto, trasfigura il terreno dove mette piede, e non è quindi il vuoto che si raggiunge quando ci si organizza per l’offensiva, è semplicemente qualcosa di diverso da ciò che è stato annunciato, pianificato o verbalizzato in anticipo. Così, non si partecipa mai solo a una giornata di azione. Ogni partecipazione politica implica una scelta di parte su ciò che si vuole far crescere partecipando. Questo può sembrare paradossale dopo una giornata in cui abbiamo marciato così bene, ma dobbiamo rompere con il modello del pedone o del soldato di fanteria come forma della soggettività politica. Un modello in cui si dice, per esempio, che i Soulèvements de la Terre sono i soldatini della Confédération Paysanne [importante sindacato agricolo francese che ha partecipato alle mobilitazioni dichiarando ufficialmente molti appuntamenti, NdT], o qualcosa del genere. La soggettività è un modo di dire io e dire noi, indissociabilmente ancorché distintamente. Non si tratta quindi di un “per quel che mi riguarda” individuale o gregario, ma dell’imperativo centrale di non rinunciare mai alla decisione, a qualsiasi livello. Ciò significa: assicurarsi che il significato di ciò che stiamo facendo sia evidente, appaia e traspiri. Formularlo costi quel che costi, correre il rischio dell’incomprensione, del conflitto, piuttosto che crogiolarsi, come tutto ci spinge a fare, nella confusione e/o nella tiepidezza.
Oggi non è più necessario oscillare tra la “concretezza” delle lotte a compartimenti stagni e l’ “astrazione” della rivoluzione. Non è più tempo nemmeno di parlare di insurrezione (tutti sanno che è una possibilità del presente, il suo spessore, e non un orizzonte lontano). Fuori moda, la rivoluzione è all’ordine del giorno. Significa in fondo l’insurrezione che vogliamo, che possiamo volere, contro tutti quelli che rifiutiamo o che respingiamo. Ogni lotta deve scegliere, contemporaneamente al suo percorso, il terreno che la rende possibile, lo spazio di discussione in cui cresce e che cerca di rafforzare. È il dibattito rivoluzionario, questo campo strategico, che deve essere reso potente, senza indugio. Aggregare le forze non è sufficiente, dobbiamo sgombrare un nuovo terreno di intelligibilità e assumere la rottura con l’ordine democratico. La paura della scissione, contrariamente a quanto spesso si dice, rafforza la possibilità fascista, dandole la possibilità di incarnare la grande scissione. Perché iniziare da perdenti? Perché scommettere sull’impossibilità, in quest’epoca, di aggregare le forze in una modalità, un linguaggio e una prospettiva rivoluzionari? È prendere la gente per scema. Si ritiene che i discorsi triti e rilucidati siano i più desiderabili. È condannare i disertori a non sapere a cosa si uniscono quando disertano, è incoraggiarli a ripiegare sull’ “etica”, sullo stile di vita, sull’unità familiare, sull’individuo come centro di gravità — la depoliticizzazione. La questione non è la mancanza di radicalità diffusa, ma la mancanza di idee, di parole, di tensioni, di ostinazione, di pazienza, di “spazi” organizzativi che ci facciano uscire dall’analfabetismo rivoluzionario — perché si tratta di reimparare cosa significa organizzare.
Quelli che hanno dedicato la loro esistenza alla lotta politica non riescono a porsi all avanguardia del crollo ideologico contemporaneo6. Si curano di una sola una cosa: l’ossessione per le questioni sociali, cioè per i settori produttivi. Il movimento contro l’accaparramento privatistico dell’acqua ne è un chiaro esempio. Stiamo lottando contro la monopolizzazione delle acque sotterranee da parte di un’oligarchia contadina. E cosa gli opponiamo? L’idea di bene comune. In altre parole, all’accaparramento privato si oppone un altro accaparramento privato, che ha la ben nota perversione di essere chiamato “pubblico”: lo Stato. L’opposizione tra ciò che è “privato” e ciò che è “per tutti” ha sempre strutturato il governo del mondo, la civiltà. Un bene è una proprietà. Quando si invocano, come è di moda oggi, i commons, con pochissime eccezioni non ci si preoccupa tutto questo dal suo retroterra implicito: il diritto di proprietà. Per quanto cerchiamo di separare teoricamente il “comune” e il “pubblico”, non abbiamo gli strumenti per separarli dal punto di vista politico. Per strappare l’idea di comune al Diritto, bisogna cominciare a optare per la destituzione e la de-socializzazione delle questioni. La trasformazione dei problemi in settori della società deve essere fermata. Ciò implica una rottura totale con il programma rivoluzionario degli ultimi due secoli: il socialismo. Le questioni sociali sono quelle che presuppongono e danno origine all’organizzazione in settori produttivi. Non dobbiamo quindi affrettarci a parlare della questione dell’acqua, ma prima chiederci: deve esistere una questione dell’acqua? Questo elemento, così intimamente legato alla vita, è politicamente costruito come polo di imposizione della sopravvivenza. La questione comunista di fondo in questo caso sembra potersi formulare così: come fare, come organizzare, non per risolvere la questione dell’acqua, ma per far sì che la questione dell’acqua non sia una questione.
È l’imperativo della destituzione che rende possibile una nuova soggettività rivoluzionaria, un nuovo noi. Da un lato, si propone di rinunciare a tutti i fondamenti oggettivi della politica: classe, genere, razza, sessualità, ma anche territorio; dall’altro, si propone di vedere in questo lutto non una fine, un confinamento nella desoggettivazione, ma l’inizio di qualcos’altro. Non scommettiamo su un unico partito di rivolta, né su un campo plurale e unificato del Bene. Si tratta di pensare e vivere l’iscrizione di posizioni rivoluzionarie chiare e distinte in un campo inarrestabile nel suo divenire ma legato a criteri solidi: l’odio per l’istituzione, la guerra al governo del mondo.
1 Un bel video (non documentaristico) https://youtu.be/h167LCMZxEs – Una ricostruzione del momento di lotta è consultabile qua https://www.infoaut.org/crisi-climatica/la-lotta-a-sainte-soline-contro-il-progetto-di-mega-bacino- idrico
2 Si vedano l’esperienza delle ZAD: ZAD è acronimo di “Zone à défendre”, una forma di occupazione volta ad impedire un progetto di trasformazione territoriale e allo stesso tempo sviluppare stili di vita autonomi. La ZAD più nota è quella di Notre-Dame-des-Landes, vicino a Nantes, dove i piani di sviluppo prevedevano la costruzione di un aeroporto. Si segnala Collettivo Mouvaise troupe – Difendere la ZAD di Notre-Dame-des-Landees — Tabor edizioni
3 Comitato Invisibile – L’insurrezione che viene. Ai nostri amici. Adesso – Not Nero edizioni
4 Intensità “bella come l’incontro casuale, sul sedile anteriore di un camion coperto senza telone, di un casco e di una pietra”. (Ouest France, “Ubriaco, si dirige verso l’accampamento degli anti-bacini”, 30 ottobre 2022, articolo riservato agli abbonati).
5 Si tratta di armi meno letali in dotazione della polizia francese. “granate Sivens” è il modo che l’autore ha scelto di chiamare le granate stordenti, in quanto a Sivens, nella ZAD di Testet, nel 2014 una granata ha ucciso un giovane. Gli LBD sono armi che sparano proiettili in caucciù che sono in grado di causare danni permanenti.
6 Abbiamo la risposta pronta a questo, il disprezzo mostrato per il moralismo e per qualsiasi spirito di sistema. Ma è proprio quando non ci si pone più il problema della fermezza ideologica che ci si condanna ad alimentare, per contrappeso, la tentazione moralistica.
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