Saperi dentro e contro la crisi
Il mondo si presenta sempre più multipolare ed in preda a tensioni di guerra latenti, con sullo sfondo una crisi la cui profondità non è neppure più messa in discussione dai professionisti della comunicazione mainstream, in quanto dato acquisito, ormai sistemico. Eppure si continua a presentare, allo stesso tempo, utilizzando lo sguardo che ci è proprio (quello di parte, in basso a sinistra), una situazione in movimento sulla quale immaginare nuovi spazi di azione politica. Con l’eco delle rivolte arabe che non smette di risuonare in processi di transizione tuttora aperti a molteplici esiti, negli ultimi mesi è la sponda nord del Mediterraneo ad aver fatto vedere i più interessanti esperimenti di trasformazione dell’esistente. Spagna, Portogallo, Grecia… le lotte contro l’austerity in questi paesi hanno assunto un carattere estremamente generalizzato e massificato.
L’Italia è spesso accusata di non aver saputo stare al passo di queste prime forme di mobilitazione, ma il portato degli ultimi anni di lotta, capace di generare (innanzitutto soggettivamente) le giornate del 14 dicembre e del 15 ottobre, di sedimentare focolai di conflitto nei licei e nelle università, di fare esplodere decine e decine di NO! contro la devastazione dei territori ma anche e soprattutto contro le speculazioni sui territori, è sicuramente importante e da non disperdere. La Val Susa è cartina di tornasole delle potenze come di limiti: la battaglia contro il Tav è il fronte di lotta più avanzato nel nostro paese ma anche caso unicum in estensione e scontro nel mare della crisi. Non possiamo ovviamente non accorgerci quanto il quadro sia cambiato. Il passaggio nell’era post-Berlusconi ci impone di rivedere le coordinate politiche sulle quali costruire movimento. In questo quadro la centralità del mondo della formazione all’interno dei processi di lotta che si danno nel nostro paese è una realtà evidente, solare. Dalle vertenze specifiche sul terreno dell’università, fino alla partecipazione massiva nelle sollevazioni territoriali come quella No Tav, il ruolo della soggettività studentesca è sicuramente fondamentale nel creare, organizzare, comunicare percorsi e pratiche conflittuali. La capacità di saper contro-utilizzare i saperi all’interno dei processi di lotta e di organizzazione è forse il lavoro centrale da mettere in campo sul fronte della formazione delle soggettività, assumendo sempre i saperi come caldi schierati e trasformativi, mai come freddi tecnici e riproduttivi di un esistente in decomposizione.
Bisogna assumere quindi come centrali alcuni dati. La necessità di uno spazio almeno mediterraneo di azione (mentre la sovranità nazionale viene sempre più svuotata nell’era post-democratica manovrata dalle istituzioni finanziarie internazionali) impone al mondo della formazione, in quanto soggetto potenzialmente in grado di ricoprire questo ruolo, una missione precisa: ovvero quella di divenire hub, di prendere ago e filo per tessere più connessioni possibili con gli altri movimenti, della formazione e non, che emergono qui come altrove in seguito all’approfondirsi materiale della crisi e della violenza della finanza, partendo necessariamente dai nostri territori. La prospettiva di giornate di mobilitazione europee, di un unico piano che ribalti le retoriche della crisi e dell’austerity, di uno sguardo inclusivo e mai frammentario nel processo di una nuova costituente sociale, sono gli obiettivi che dobbiamo porci. È lo scenario post-democratico a rammentarci di non fare un passo indietro rispetto a quell’impossibilità della mediazione con le istituzioni attuali, qualunque forma esse prendano. Il processo di svuotamento di queste istituzioni è in atto sia dall’alto che dal basso, e non saremo certo noi a porci come elemento di recupero. ‘Que se vayan todos!’ in tante lingue e dialetti è lo slogan che risuona (ancora) da una sponda all’altra del Mediterraneo, slogan e programma politico allo stesso tempo.
Ma non basta certo. Abbiamo la necessità di mettere in piedi quelle forme di istituzionalità autonoma dalle quali esercitare la nostra spinta destituente e costituente allo stesso tempo: la centralità delle facoltà e degli spazi attraversati dalla composizione studentesca, il lavoro puntuale e continuo a farne luoghi di lotta ed organizzazione, il costante forzare sulla produzione di soggettività antagonista sono i compiti che ci spettano. Lavorare sulle università come vere e proprie fucine e basi di conflitto, capaci di portare dentro e fuori, in un movimento pendolare, la ricchezza destituente e costituente insieme di quei rapporti sociali incompatibili che muovendosi dalla critica e dal rigetto del sacrificio e dell’impoverimento sappiano rubare il controllo di spazi sempre più grandi a quelle istituzioni in decomposizione ed ai loro processi di comando. Praticare conflittualità per costruire un piano di riappropriazione collettiva: conquistando spazi fisici e politici dentro e contro le connessioni che in questo momento, incalzate dalle politiche di austerità e impoverimento, vengono a saltare.
Soggettività nella crisi
Dentro questo quadro, evidente è la voracità e la profondità della scossa sistemica della crisi, che si configura come frattura progressiva dei dispositivi governamentali, da interpretare certo come apertura ulteriore di faglie istituzionali (a partire dalle quali far emergere le contraddizioni capitalistiche) ma che si intende anche come gioco del capitale per tentare una nuova ristrutturazione di governo e comando, quindi come risposta ad un destrutturarsi del sistema che ci consegna ambivalentemente la cifra delle potenze come dei limiti, delle opportunità come del loro contrario. Nel contesto di un’Europa provincializzata, all’interno di una lettura della geopolitica della crisi, particolare è la considerazione da costruire sull’anomalia italiana, dal punto di vista delle lotte, in opposizione alla transizione (travestita da tecnica nella forma ma odiosamente politica nella sostanza) ordita da Napolitano & co.
Nel mare magnum della crisi, dal punto di vista delle soggettività politiche, crediamo sia binaria la tendenza organizzativa da aprire, collettivamente, ben sapendo quanto la fase non permetta il crogiolo né delle alleanze spurie né della programmazione ortodossa: innanzitutto i territori, che non sono panacea propagandistica di ogni riverbero ma che diventano la base prima sulla quale costituire soggettivamente un qualcosa, esercitando un’interpretazione laica di uno spazio metropolitano nel quale l’università assume il fondamento di partenza, per le lotte che verranno ma soprattutto per la conoscenza di una composizione sociale che si trasforma sotto il battito della crisi; quindi l’opposizione sociale e politica, intendendola come processo collettivo da istituire costruire e diffondere, ma anche come tentativo di scardinamento positivo del modello rituale delle pratiche di movimento, assumendo la scommessa della sperimentazione di nuove forme e nuovi spazi di conflittualità, bypassando la sola difesa e resistenza (per quanto anch’essa insufficiente) per organizzare una risposta politca all’altezza, di attacco e magari contropotere. Superfluo evidenziare come la via della conflittualità sia l’unica strada percorribile laddove perlustriamo le zone dell’incompatibilità, del rifiuto. La passività studentesca che ci lascia la riforma Gelmini non dobbiamo osservarla su un piano inesatto di malumore se non di rancore, ma al contrario come dimensione soggettiva da raccogliere come livello primo di un percorso di nuova soggettivatizzazione che non s’inaugura con le carte spaiate: la sedimentazione del ciclo di lotta che abbiamo alle spalle è forte nella misura in cui i linguaggi e le pratiche del movimento No Gelmini sono appaiate nei collettivi delle università ma soprattutto costituiscono la tensione positiva e genuina sulla quale è cresciuta una generazione di studenti medi che oggi comincia a mettere piede negli atenei.
La governance del paese dei professori si sta esprimendo su un piano doppio, sclerato ma anche razionalizzato, il luogo in cui il sistema dei partiti e delle loro mappe di approvvigionamento salta (come effetto di una destrutturazione politica) e al contempo s’insedia il mantra del taglio e dell’austerità (come medicina di transizione sistemica). Da un punto di vista antagonista è necessario aver chiaro questo livello di realtà per poter diventare promotori dei movimenti che verranno, appunto da un fronte incompatibile ed insussumibile, di una ribellione che interpreti la crisi come processo costituente per un cambiamento reale, che non sia ordito da tecnici e magistrati ma che sia comandato dai bisogni e desideri di una composizione sociale in movimento. Ciò è premessa necessaria per azzardare e scommettere di curvare le leve meritocratiche, legalitarie e moraliste in termini antagonisti: il che non rappresenta affatto un rincorrere le spinte di destra che si respirano a sinistra, ma interpretare politicamente, in maniera differente, i sommovimenti che si agitano nel paese in termini di massa, con una venatura e potenzialità di opposizione ad un sistema-Italia in disfacimento. La saccenza altrimenti ci farà (forse) conservare negli angoli delle metropoli, ma le nostre ambizioni debbono essere necessariamente più alte, perché per cambiare ed essere protagonisti della trasformazione la capacità di reggere la sfida è indispensabile.
Siamo oltre l’incontrovertibile crisi della rappresentanza, che si approfondisce e radica: il nodo della corruzione deve diventare strumento di attacco alla complessità tutta di un sistema corrotto ma che necessita di un ulteriore sviluppo nel ripudio frontale di quell’esercito di corrotti e corruttori che fanno della speculazione e della ruberia il loro mestiere. Non possiamo lasciare che siano la tecnocrazia e la magistratura a dichiarare esodati i parassiti dei nostri tempi, soprattutto perché il taglio del costo della politica sta diventando la manfrina giustificatrice del banco della macelleria sociale in atto ed in programma, quindi corollario del piano di distruzione sociale volto al governo delle nuove povertà, dell’umanità indebitata. Non è forse quest’emotività, politicamente da trasformare, a confermarci quanto abbiamo gridato e gridiamo nelle piazze, cioè che non ci rappresenta per davvero nessuno?! Siamo quindi totalmente interni ai processi di dismissione strategica dei sistemi welfaristici, nazionali e locali, nel momento in cui la governance dei sistemi educativi, sanitari, pensionistici, etc, sono non solamente preda dell’incedere della finanziarizzazione, realizzabili tramite gli antecedenti dispositivi della cartolarizzazione e privatizzazione, ma diventano anche il campo di battaglia della trasformazione transitoria del sistema-paese, laddove il crollo dell’impalcatura che ha prodotto e riprodotto il sistema dei partiti (Regioni, Province, Comuni, ed enti affiliati) si scontra con le procedure di taglio, rigore e messa in discussione (per ora solo dall’alto) del flusso spasmodico di soldi, clientelarismi e poltrone che ha sorretto per decenni il sistema rappresentativo e produttivo del nostro paese. Per tematizzare la questione del welfare e del reddito dobbiamo partire da qui, dai territori che fino ad oggi sono stati la dimensione bucolica di una classe politica famelica ed indegna ma che da domani debbono e possono diventare lo spazio non solamente rivendicativo di processi di riappropriazione che siano territorializzazione di nuove forme di militanza e socialità e politicità, frutto dell’opposizione alla svalorizzazione ed all’impoverimento delle differenti capacità dei soggetti sociali.
Saperi, reddito e preposizioni costituenti
Risulta evidente oggi più che mai come il ruolo tradizionale dell’università formatosi in età moderna è definitivamente mutato, in stretta connessione con le trasformazioni del sistema produttivo e il nuovo ruolo assunto dal sapere. Gli studenti e i lavoratori della conoscenza costituiscono il soggetto sui cui si è abbattuto il processo che definiamo dismissione strategica dell’università, un processo iniziato in Italia con la riforma Berlinguer e proseguita con il Bologna Process, sino ad arrivare allo stato presente di riforma permanente (Gelmini, Profumo). Il sistema pubblico di formazione è stato via via smantellato in vece di un nuovo sistema ibrido tra privato e pubblico, un processo facente parte della ricerca del capitale in continuo mutamento di nuove forme di valorizzazione e sussunzione del lavoro. Lo scenario che ci ritroviamo dunque davanti appare costituito dalla mistificazione contorta di cultura e sapere, dalla continua riproposizione della categoria di merito (utilizzata per la gerarchizzazione del lavoro e per l’inclusione differenziale nel mondo della formazione) e del ricatto dei debiti d’onore (violenza incidente tramite i tagli, ad esempio agli enti regionali per il diritto allo studio), operando quindi per un declassamento sempre più violento della merce-sapere, volto ad una palese volontà di creazione di una forza-lavoro omologata e dequalificata. La risposta di parte antagonista a questi meccanismi si muove su quello che definiamo un duplice binario: la riappropriazione di spazi di vita, tempi e reddito indiretto (come le sperimentazioni di occupazione di nuovi spazi ci insegnano), la de-mercificazione dei saperi con costruzione cooperativa di segno autonomo e alternativo (come strumento di soggettivizzazione della composizione studentesca).
Sul piano del reddito è necessario superare la visione dannosa e compatibile della richiesta vertenziale, in quanto ciò porta esclusivamente alla creazione di un discorso retorico e astratto. Alcune esperienze sorte dai movimenti transnazionali sembrano aver ben chiara la strada maestra, ovvero la riappropriazione di porzioni di welfare e servizi che il capitale ha dismesso, con una capacità profonda di individuare la controparte, fungendo da motori per l’estensione del conflitto e dei processi di lotta, ponendosi come sorgente immediata di contropotere. La questione del reddito appare dunque sempre più centrale, assumendo una caratterizzazione sociale sempre più estesa, poiché tutto il sistema di welfare familistico che reggeva la domanda di reddito studentesca risulta oramai non solo una casa in rovina, ma anche un istituto in progressiva estinzione. È necessario porre l’accento sull’apertura di spazi di contro-welfare che possano diventare pratiche comuni e riproducibili, per aprire realmente scenari generalizzabili e ulteriori frizioni e fratture sociali. La via è perciò quella del rifiuto ed il superamento della pura vertenza nella ricerca della generalizzazione del conflitto.
Alla questione del reddito si interseca per contingenza e necessità quella dei saperi, quindi pratiche quali conricerca e autoformazione, prassi che ben conosciamo, ma sulle quali dobbiamo anche saper mostrare la capacità di operare un’analisi da un punto di vista complessivo. Così come sulla questione del reddito, anche per ciò che concerne l’autoformazione, propedeutico appare costruire percorsi in alcun modo sussumibili o riproduttori di valore captabile dal capitale, e che dunque non fungano in alcun modo da elementi complementari, quasi volti a riempire le lacune dell’università-azienda e dei suoi saperi parcellizzati. È dunque necessario ricondurre l’autoformazione alla sua natura originale di strumento: mezzo utilizzato al fine di creare saperi autonomi, mai sussumibili e immediatamente antagonisti, che si pongono sempre dall’altra parte della barricata, come arma per praticare obiettivi quali organizzazione, autonomia e conflitto. D’altronde il sistema neoliberista centra gran parte dei suoi meccanismi di estrazione e valorizzazione proprio nutrendosi del sapere e della conoscenza proletaria, mediante mercificazione e razionalizzazione: la produzione di un sapere altro non può dunque prescindere dalla messa a critica del sapere capitalistico, tecnico e specialistico, quel sapere neutro e dequalificato che oggi il governo dell’austerity in salsa montiana propina, spianante la strada a un futuro di precarietà, e nel dominio della formazione e nel dominio del lavoro. Alle soggettività in lotta dunque il compito di leggere la dimensione globale degli insegnamenti ufficiali, come sedimentazione di processi più ampi, riconoscendo la politicità e le motivazioni sistemiche che vi stanno dietro.
A tale riflessione si lega a doppio filo l’autocritica postaci anche sull’utilizzo di strumenti quali inchiesta e conricerca. Bisogna riportare infatti anche quest’ultima alla sua essenza originale di rottura epistemologica, non separata dalla lotta (come è sembrata apparire anche questa recentemente) ma strategia che, permettendo da una parte di creare una visione materialistica dentro la composizione, calata completamente dentro la soggettività precaria, ne permette consequenzialmente lo sviluppo di forme teoretiche di tendenze di rottura e forme organizzative. È tramite il corretto utilizzo di questi strumenti che è possibile scommettere su un nuovo movimento universitario forte, anche come conferma delle potenzialità di divenire punta avanzata delle lotte soprattutto grazie alla capacità di parlare un linguaggio generalizzabile, in grado di produrre progettualità nei termini di costruzione di percorsi politici ricompositivi, di sviluppo esteso e continuo di nuova contro-soggettività, di capacità di avanzare e massificare lo scontro.
Come d’altronde l’eredità di Romano Alquati ci insegna, contro-formare implica la contro-produzione di contro-cultura, di contro-conoscenza, di contro-sapere, e la loro consequenziale contro-invenzione; e per questo ci vogliono lotte ed organizzazione adeguate. La preposizione del contro si interpreta e rinnova nella necessità e tensione costituente di un’opposizione antagonista alle rovine esistenti, sul terreno universitario come su quello metropolitano.
Pagina a cura degli studenti e delle studentesse antagonist*
nelle università, per un’interpretazione politica della crisi
Scarica il pdf del volantone universitario ‘Saperi dentro e contro la crisi’
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