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Sicilia: dialettica e tremori tra piazze e palazzi

Proprio nella mattina dell’1 maggio, dopo due giorni di vera e propria corsa contro il tempo, è stata approvata la legge di stabilità siciliana, ovvero la finanziaria e Il bilancio per il 2015. Più di 102 articoli, con eventuali emendamenti, approvati tra il 29 aprile e la mattina dell’1. Ma si tratta di 102 articoli che racchiudono molto, se si tratta di equilibri politici interni alla maggioranza, conservazione delle cariche e il potersi assicurare una stabile governamentalità; troppo, davvero troppo, se piuttosto guardiamo ai contratti lavorativi e alla possibilità di una continuità di reddito per più di 15.000 tra impiegati regionali e precari. La finanziaria è stata infine approvata praticamente in tutti i suoi punti, anche attraverso un prestito per centinaia di milioni di euro da parte del Governo nazionale.

Migliaia i manifestanti (circa 5.000) che nella giornata del 29 aprile hanno partecipato allo sciopero generale indetto in occasione della discussione dell’Ars (Assemblea regionale siciliana) e che hanno stazionato per quasi tutta la giornata sotto Palazzo dei Normanni (sede del parlamento siciliano) invadendo anche l’antistante piazza Indipendenza. Ma anche il giorno seguente, notevolmente ridotto nei numeri ma comunque notevole agli occhi meno abituati, lo scenario si è ripetuto. Dipendenti regionali, precari della formazione, precari regionali, precari e lavoratori delle società partecipate regionali, lavoratori e stagionali (precari) del corpo forestale, operai Fiom/Fincantieri; tutti in piazza a presidiare il “palazzaccio”, e non certo per il suo valore artistico e il suo medievale fascino. Attenzione però, non vorremmo essere fraintesi, perché descritto così potrebbe sembrar di analizzare un grande avanzamento politico di ricomposizione delle lotte. Invece quella vista giorno 29 e 30 in piazza è la descrizione, le descrizioni, di una Sicilia che, se da un lato vive una condizione di crisi permanente in cui la precarietà è la variabile costante della riproduzione socioeconomica del capitale, dall’altro, il trasversale attivismo e la costanza nell’opporvisi non si materializzano fino infondo in rivolta sociale.

Inevitabilmente ci interroghiamo su questo, perché chi vive a Palermo ad esempio, sa bene come da parecchi anni ormai, sia Palazzo dei Normanni che D’Orleans (sede della Giunta regionale) potrebbero apparire desolati senza presidianti con striscioni, e camionette a protezione. Ma come si abituano gli occhi, lo fanno anche le istituzioni, i governanti, e per quel che soprattutto ci interessa… i manifestanti e chi lotta per bisogni reali, che alla lunga incorre nell’abitudine, e nella mancanza di capacità di dotarsi e di sperimentare sempre nuove forme di lotta per il raggiungimento dell’obbiettivo finale. Questa non è, probabilmente, che un’interiorizzazione di una condizione precaria che si fa esistenziale, che si è cioè ormai rassegnati a vivere, anche nella lotta.

Ma lungi da noi, il voler ridurre l’incredibile e costante spettro di proteste al clientelismo elettorale e politico. Perché se la promessa di un lavoro o di qualche forma di stabilizzazione che raccolga voti alle urne e fiducia politica ancora permane, non possiamo che minimizzarne il peso e la residuale portata al carisma individuale di qualche storico politico. Perché la profonda crisi che attraversiamo e subiamo ha quasi dissolto lo strumento di contenimento sociale e di arguta governamentalità del voto di scambio, producendo invece una massa di precari e di vita precaria le cui sorti sono periodicamente da rinviare e giocarsi a questo o a quel tavolo di finanziaria, approvazione, decreto, etc. Ma quelle 5.000 vite precarie hanno rappresentato effettivamente un deterrente, e un’effettiva pressione che ha inevitabilmente dato una certa direzione a scelte e sedute dell’ Ars. Probabilmente senza alcuna programmazione o lungimiranza politica, ma quella piazza è stata, in quelle giornate, una “minaccia” per la classe dirigente e per il potere che rappresentano ed esercitano. Come spiegarlo senza voler esagerare ma riuscendo a trasmetterne l’immaginario; proviamoci: una minaccia il cui potenziale sembrava quasi d’evocazione storica, dove i governanti trincerati nelle fortezze devono fare i conti con il popolo che è “di sotto”. D’ immaginario e di potenziale si discute, non vogliamo certo farci romanticamente sviare dalla realtà, ma questo vorremmo provare ad approfondire e a comprendere.

Se non ci stupisce ormai la capacità della classe dirigente siciliana di dispiegare e affinare al meglio gli strumenti e le forme del comando e dell’abbattimento dei costi del lavoro nel contesto dell’emergenza permanente, a stupirci ancora, nonostante l’abitudine al fenomeno, è l’ossimorico binomio tra consapevolezza e immobilismo se si guarda all’altra parte della barricata, quella delle proteste. Quando parliamo di consapevolezza, ci riferiamo a quella che riguarda la prontezza nel protestare, lottare perché si sa di poter contare e di poter “far tremare i palazzi” quando si è in 5.000. Quando parliamo di immobilismo invece, ci riferiamo alla mancanza (apparente?!) quasi di interesse delle soggettività in lotta, di cambiare marcia, di rischiare di più per ottenere molto, forse tutto, di superare le mediazioni sindacali. Nel senso che piuttosto che guardare a una condizione comune che nella sua ricomposizione sarebbe in grado di trasformare e migliorare significativamente le regole del mercato del lavoro made in sud, si tende quasi a strumentalizzare “l’opzione della lotta” come soluzione a una necessità individuale di reddito, ma alla quale in fin dei conti non si riesce a dare una soluzione se non temporanea. Normale, scontato, diranno in molti. Ma non possiamo liquidare così la questione, con un “normale”, perché fa un certo effetto vedere per 2 giorni migliaia di manifestanti assediare un palazzo del potere per una finanziaria. Come lo è, d’un certo effetto, vedere i lavoratori delle partecipate protestare stancamente, presidiando giorno e notte da anni, per un rinnovo di contratto prorogato ogni 6 mesi da 14 anni, senza mai alzare il livello della conflittualità, senza diventare cioè un problema reale; senza rischiare per ottenere tutto infondo (se la stabilizzazione lavorativa con un reddito di 1.200 euro mensili possa definirsi tutto) e rassegnarsi invece a vivere una vita all’insegna dell’insicurezza, dell’incertezza, dell’intermittenza di reddito, della precarietà.

Volendo concludere questi brevi spunti di riflessione, non vogliamo certo ridurre la decisione e la capacità delle soggettività di mobilitarsi solo alla componente individuale (in questo influiscono bisogni, contesti, eventi, mediazioni sindacali e determinazione politica). Piuttosto cogliere – pur nella frequente stasi e vertenzialità – la messa in comune che estemporaneamente si traduce in “minaccia” per il potere e la rappresentatività di queste lotte che ci parlano di una condizione comune, di una precarietà estesa, trasversale ed esistenziale e sempre più metro di funzionamento e disciplinamento collettivo nonché di riproduzione e sopravvivenza per le istituzioni nella crisi.

Uno scenario tipico e a cui ormai siamo abituati, quello dell’eterogeneità delle composizioni e delle rivendicazioni precarie come paradigma descrittivo della società siciliana che lavora nel pubblico; uno scenario forse troppo inerte al momento, ma il cui potenziale inespresso e gli strumenti di lotta di massa a cui da vita, devono essere analizzati e attraversati.

 

Red. Infoaut Palermo

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