Spunti di lettura sulla rappresentazione mediatica del 9D
Ma è in un altro senso ancora che possiamo affermare che la rappresentazione – anche la più denigrante e mistificatoria – che di quelle piazze hanno fornito i media abbia agito su di esse in maniera tutt’altro che prevedibile o lineare. Non va dimenticato, infatti, come la strategia di costruzione del panico morale attorno alla giornata del 9 abbia visto parte del suo potere dissuasivo infrangersi sull’effetto di ritorno prodotto dalla sovraesposizione mediatica della protesta e delle sue pratiche. Sovraesposizione che ha contribuito, suo malgrado, a viralizzare la partecipazione, veicolando a molti la percezione che qualcosa di grosso fosse finalmente in gioco. Emblematico il ruolo svolto in questo senso dal sito de la Stampa locale online che, coi suoi aggiornamenti in tempo reale dei blocchi spontanei e dei cortei, ha in certo modo offerto una piattaforma informativa e organizzativa, oltre che per gli automobilisti arrabbiati, anche per chi da casa desiderasse unirsi alla protesta. Piccoli semi di utilizzo-contro di una rappresentazione per il resto impegnata a ritagliare artificialmente uno spazio della “cittadinanza” esterno alle piazze e ad amplificare strumentalmente (e paternalisticamente) la voce delle “vittime” dei disagi e della paura.
Sin dai giorni precedenti l’esplosione della protesta e per tutto il corso della settimana l’armamentario sfoderato annovera, infatti, tutte le più classiche argomentazioni anti-sciopero: retoriche lavoriste della “crescita” e della “fiducia” funzionali a giocare doppiamente la crisi contro i suoi protagonisti; difesa del diritto al lavoro, alla mobilità, all’accesso a generi di prima necessità; per arrivare infine alle ricadute sulle fasce socialmente più esposte. Anziani, malati, bambini, un’ampia galleria di “deboli” e dannati della terra viene ‘parlata’ dalle penne di Stampa e Repubblica che raggiunge toni di autentico lirismo quando ricorda che la serrata torinese del Caat bloccherà anche l’invenduto normalmente devoluto ai “poveri”. Fassino a sua volta sulle pagine de La Stampa si fa a più riprese umile portavoce di un diritto alla normalità che “i cittadini” rivendicherebbero, cittadini che, il quotidiano sottoscrive, sembrano in tutto impegnati tranne che a bloccargli la città. Parimenti depositario di ultima istanza della soglia capace di discriminare ciò che la cittadinanza include, ciò che la cittadinanza non è, sembra il sindaco di Nichelino che, asserragliato nel Comune, non trova di meglio da fare che revocarla a quanti lo stanno assediando (“ma questa non è la mia gente”, non a caso, fra loro, molti “sinti” prezzolati), col plauso de La Stampa locale (interessante rilevare come in tutta questa vicenda mai si conceda parola ad altri che lui: sulla carta stampata restano fino all’ultimo ignote le ragioni per cui a Nichelino si contesti questo cittadino “primo”). Ma sono in particolare i commercianti la categoria assunta fin dai primi giorni a suffragare la campagna anti-proteste: ampio spazio viene concesso alle “ronde anti-crumiri”, a inverificabili pestaggi, a minacce e intimidazioni che oltre a ispirare un ciclo di poetici “Buongiorno” di Gramellini (indimenticabile il titolo “Serrande e libertà”), conquistano 19 articoli su un totale di 32 dedicati in una settimana alle voci delle piazze fra Stampa e Repubblica (4 se li aggiudica la polizia, 4 sono ripartite fra Ferro, Zunino, Calvani, solo 5 le interviste a manifestanti). E mentre l’Ascom dichiara che il 70% dei negozianti avrebbe aderito allo sciopero solo “per evitare guai”, dobbiamo aspettare il 13 dicembre perché, a manifestazioni ormai concluse, su La Stampa locale si ammetta finalmente che “molti torinesi” hanno partecipato alle proteste o le hanno guardate con simpatia.
In effetti la rappresentazione della composizione di queste piazze e della galassia di soggetti sociali che le attraversano va incontro, sulle pagine dei quotidiani presi in analisi, ad una parabola evolutiva parallela ed inversamente proporzionale a quella che attraversano i volti del comitato organizzatore o dei contenitori politici fautori del “blokko totale”. Questi ultimi, nei giorni antecedenti il 9, rappresentano le uniche voci favorevoli alla protesta fra i cori di paura e dissenso che trovano ampio spazio sulla carta stampata e sono esplicitamente qualificati da affiliazioni mafiose o eversive (Ferro è definito sulle pagine di Repubblica un “capoclan”) e dichiarazioni d’intenti apocalittiche (“darsi fuoco davanti alle prefetture”, “farsi arrestare”) che più che a un golpe farebbero pensare a fenomeni di psicosi collettiva. Ben presto, tuttavia, l’irruzione sulla scena di una piazza (quella torinese) esplicitamente ingovernabile, produce una rivalutazione per contrasto di quanti sembrerebbero volersi costituire come argine al dilagare della violenza. La ricerca di referenti politici e mediatori, consapevolmente votata allo scacco, sogna di riprodurne e nel frattempo ripulisce Ferro, Chiavegano, lo stesso Calvani dei rispettivi curricula, mentre si producono in ripetute prese di distanza dalle violenze.
Parallelamente, l’evidenza di pratiche di massa agite da soggetti sociali inediti impone col passare dei giorni uno sforzo di riconoscimento. Alle sigle di organizzazioni della destra sociale inizialmente snocciolate in quasi ogni articolo, cominciano ad affiancarsi mercatali, autotrasportatori, commercianti, ultras. Entro il frame riduzionista del “popolo delle partite Iva” continueranno tuttavia a non trovare spazio almeno fino al 12 quanti disdirebbero l’orizzonte comunque corporativo in cui si vorrebbe incasellare la protesta: migranti, disoccupati, cassaintegrati, studenti, giovani. Emblematico in questo senso l’atteggiamento di Letta che, a più riprese, sulle pagine dei quotidiani nazionali, tenta di rimuovere la rappresentatività del dato quantitativo espressosi in quei giorni riducendolo alla lotta di un 10% autotrasportatori esclusi dall’accordo siglato poco prima. Per una paradossale inversione del rapporto, linguistico e politico, rappresentante/rappresentato, il presidente del consiglio può concluderne con la coscienza pulita che in mancanza di “legittimi rappresentanti” costoro semplicemente non esistono, con l’avvallo delle associazioni di categoria che accusano l’ “individualismo” imperante di indurre ciascuno a far la piattaforma di se stesso, come se non avessimo assistito ad una forma di riaggregazione ed anche di organizzazione, come se al di fuori di loro stesse, solo il deserto della frammentazione sociale.
Se la rimozione attuata dal governo ha dell’incredibile, non è tuttavia l’unica e c’è da domandarsi se alcune rappresentazioni escludenti non ambissero, più che ad esorcizzare un processo, a produrre veri e propri effetti di realtà, veicolando a certi segmenti sociali la percezione di un fenomeno loro estraneo. Su un terreno generazionale ad esempio, una giornata di intensa partecipazione giovanile e una di cortei studenteschi da migliaia di persone sono passati quasi completamente sotto silenzio, addirittura 2 per l’edizione nazionale (di Stampa e Repubblica). Ci sono solo due occorrenze che fanno eccezione. La prima, “giovani delle periferie” intravisti nella giornata del 9, ma forse solo per avvallare un’altra macroscopica esclusione: “le banlieues francesi” ci viene infatti spiegato “sono lontane. Le periferie londinesi pure. E gli immigrati restano alla finestra”. In maniera sbalorditiva i migranti sono infatti nominati una sola volta nel corso di un’intera settimana: per bocca di Fassino. L’esplicita razzializzazione della composizione animatrice di queste piazze se qui lavora da puntello all’annerimento dei suoi contenuti politici, altrove scatena il filantropismo razzista di quanti, assieme a Gad Lerner, si commuovono di mendicanti che no, non sono rom e neppure pachistani venditori di rose: quando la povertà si sbianca diventa interessante persino per loro. In un secondo caso, “giovanotti calati dalle periferie” vengono nominati fra quanti animano questa piazza: quando l’esigenza di motivare la radicalità del comportamento collettivo chiama in causa un nichilismo generazionale e strizza l’occhio al sospetto che un po’ choosy sti disoccupati lo siano. Altrimenti lo capirebbero che un sbirro è solo uno che si tiene stretto un lavoro. “Avercelo un lavoro!” sospira affranto il giornalista.
Dobbiamo aspettare il 13 perché sui quotidiani si affaccino i primi “identikit” dei nuovi poveri, i primi sforzi di lettura ‘sociologica’ di un’esplosione ormai rientrata nei ranghi, le prime tracce di un’esigenza di comprensione che, se arriva al tramonto, è per normalizzare, seppellire, archiviare fra i “brutti ricordi”. E anche se ci si domanda (e più o meno correttamente risponde) “perché proprio a Torino?”, nessuno sforzo di distinzione qualitativa oltre che quantitativa sullo specifico torinese e ligure viene compiuto, e sotto il generico appellativo “forconi” – peraltro coniato dai media sul solco dell’esigenza di attribuirgli dubbie genealogie e mai assunto dai partecipanti ai blocchi né dallo stesso comitato organizzatore – convivono alla pari secessionisti veneti e mercatali di Porta Palazzo. Così come non si può non rilevare come la difficoltà di metabolizzare la radicalità del comportamento di massa continui ad alimentare teorie dei mandanti e cacce agli infiltrati.
Sullo stesso solco, merita un discorso a sé la programmatica sovraesposizione delle immagini delle forze dell’ordine che si tolgono il casco fra gli applausi della folla, vero e proprio leit motif visuale e discorsivo di queste giornate in cui si mescolano l’esigenza di proiettare divisioni sulla piazza e di invisibilizzare o minimizzare l’incidenza delle istanze più conflittuali, desiderio di pacificazione sociale, amore feticistico per l’ordine costituito. Su questo terreno si confrontano due posizioni divergenti che, da destra, guardano alla piazza, parlando per lei o contro di lei. Se infatti la lettera e le dichiarazioni di Grillo che invita la polizia a unirsi ai manifestanti costituiscono un esplicito tentativo di recupero che, come ogni tentativo di recupero, finge di estendere un fronte di contrapposizione solo per circoscrivere la controparte e collocarsi agevolmente al di là della linea di scontro dalla parte delle soluzioni (stesso vale per Berlusconi), ben più reazionario è il sentimento di indignazione che queste hanno suscitato, proiettato a difendere le istituzioni da minacce ed inviti all’eversione. Su posizioni più sottilmente ambigue, Repubblica ne trae linfa per sostanziare l’idea che qualunque delegittimazione di piazza di questo governo avvantaggi di fatto Berlusconi, uno dei classici del quotidiano per difendere lo status quo in quanto migliore dei mali possibili. La malafede di simili argomentazioni evidentemente non arrossisce neppure alla prova dei fatti dato che solo pochi giorni prima lo stesso giornale aveva accusato le manifestazioni del 9 dicembre di avvantaggiare implicitamente la Lega oscurando Rimborsopoli, venendo platealmente smentita dall’odio per la Regione espresso dai manifestanti e dalle loro pratiche di piazza.
Per tornare alle forze dell’ordine, di fronte alla richiesta di solidarietà di Grillo, la questura pratica uno smarcamento ambiguo, che tiene assieme l’esigenza di confermarsi ligi tutori dell’ordine con quella di sfruttare una delle rare occasioni per ripulirsi l’immagine (e abbassare la soglia della tensione), alternativamente confermando e negando che quello dei caschi fosse un “gesto di distensione”. Non c’è bisogno di ricordare quanto spazio sia stato dedicato dai media alla narrazione del punto di vista di “poliziotti divisi fra cuore e ragione”, alle loro precarie condizioni di vita, tanto simili a quelle di un disoccupato o di un cassaintegrato, conquistandosi parole fra le più vibranti di questi giorni: “sembrano degli atleti stremati che si tolgono bardature e finimenti dopo una partita persa, con aria quasi pudica, un po’ a disagio, come se fossero finiti tutti dentro una sconfitta. Invece è come un gesto di coraggio, un segno di distensione” scrive La Stampa il 10, con un lirismo voluttuoso e quasi sensuale.
Sul piano locale, è la polemica sulla gestione dell’ordine pubblico che alimenta e sostiene la costruzione retorica di un punto di vista delle forze dell’ordine immanente al corpo sociale della crisi. Contro una gestione della piazza “col guanto di velluto”, ancora una volta a invocare il pugno di ferro non sarebbero precisi attori politici e cariche istituzionali, quanto piuttosto un non meglio identificato “sentire comune”, il solito vacuo spettro di “cittadinanza”, una vox populi comoda da parlare. La verità tuttavia è sotto gli occhi di tutti e gli interessi in gioco anche: la linea di condotta delle forze dell’ordine durante i primi giorni di blocchi e cortei selvaggi è stata il frutto di una ponderata strategia di contenimento consapevole della imprendibilità e ingovernabilità di pratiche di piazza estremamente mobili, proiettate su obiettivi estemporanei e mutevoli, agite da soggetti sconosciuti e prive di interlocutori riconoscibili. All’esigenza da parte di questura e prefettura di contenere la tensione ed evitare l’esplosione di un “effetto boomerang” fa da controcanto la richiesta di un più deciso intervento da parte delle istituzioni (Fassino e sindaci di Pinerolo e Nichelino in prima linea ma anche Regione e Ministero dell’Interno) che produce sgomberi dei blocchi, cariche e strategia di isolamento dei soggetti riconoscibili dal resto della piazza (un esempio su tutti: la chiusura a tenaglia e il successivo fermo volto a separare gli studenti autorganizzati dal resto del corteo di medi). Di fronte a questo cambiamento di condotta, gli applausi di scribacchini e pennivendoli (pardon, dei cittadini!) non si sono ovviamente fatti aspettare.
Giunto il tempo dei bilanci, niente di nuovo si registra sotto il sole tiepido della sinistra di carta. Repubblica affida al fumo negli occhi della terziarizzazione e del rilancio di Torino in chiave “smart” la soluzione alla disoccupazione e assenza di reddito dilagante, mentre sul Manifesto la timida presa di distanza dalla repressione delle proteste non partorisce nulla di meglio che un accorato appello alla strategia della carota, che persuada i soggetti della crisi ad accettare stoicamente una sofferenza che è “sistemica” come lo è il peccato originale, senza responsabili precisi, senza via d’uscita diversa dal farsi ciascuno carico di una quota di espiazione. Cambiano i volti, cambiano le piazze ma non cambia l’eterna riproposizione del problema (una transizione postfordista mai avvenuta, il rifiuto sociale di pagare i costi della crisi) come soluzione.
Per chiudere questa sommaria carrellata è interessante gettare una rapida occhiata in quel salotto della sinistra bene che è Servizio Pubblico. Per carità, poco di nuovo rispetto a quanto fin qui rilevato. L’apertura a sforzi di lettura lievemente più raffinati (la problematizzazione della denominazione “forconi”, il rilievo di un’eccedenza torinese motivata nel tessuto produttivo della città, etc) resta inquadrata in una gestione del dibattito esclusivamente appiattita sul punto di vista di interlocutori “rappresentativi” e delle loro (impresentabili) sigle di riferimento (dunque Calvani, in diretta, Ferro e Chiavegato sull’impalcatura dei soggetti sociali, impalcatura la cui distanza dalla vera arena della politica – fateci caso – è quasi sempre proporzionale al grado di addomesticabilità degli invitati e quindi al margine di interlocuzione che verrà loro concesso, in un’organizzazione dello spazio tutt’altro che casuale). Tuttavia il crescendo di allarmismo manifestato dal padrone di casa, sotto l’incalzare di interviste che espongono un materiale umano incandescente (una su tutte, quella all’ultras di nichelino), fa in fretta a liquidare tutto un corredo di ipocrisie per dichiarare senza mezzi termini l’inquietudine di chi si sente chiamato in causa direttamente. “Giornali, televisioni, politica” è verso di loro che un solco si approfondisce irrimediabilmente.
Come a dire, e sembra liberatorio, che qui non è questione di cittadini, mendicanti o bottegai, ma d’istinto di autoconservazione.
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