Sui fatti relativi al mio arresto nel Kurdistan Iracheno
Pubblichiamo di seguito il testo pubblicato sulla sua pagina FB da un combattente italiano di ritorno dal Rojava dove ha combattuto diversi mesi contro lo Stato islamico. Come avevamo già raccontato dalle pagine d’Infoaut, è stato poi arrestato di ritorno dal fronte nel Kurdistan iracheno che si trova attualmente sotto il controllo di Barzani.
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La sera del 7 maggio insieme a decine di compagne e compagni attraversiamo il confine tra il Rojava e il Kurdistan iracheno. Dopo ore di camminata, non certamente facile, riusciamo finalmente a passare. Dopo una notte sotto la luna, nel primo pomeriggio io ed un gruppo di compagni internazionali prendiamo due taxi per raggiungere la città di Sulemania e risolvere il problema dei visti, il mio era scaduto da 8 mesi. Passiamo due posti di blocco senza problemi; al terzo, che si trova alle porte di Erbil, la nostra macchina viene fermata dall’asaysh del Kdp. Controllano i passaporti e, vedendo i visti scaduti, iniziano a controllare la macchina e ci tolgono i telefoni. Dopo qualche ora passata ad aspettare, escono altri 4 asaysh che ci ammanettano due a due, così capiamo di essere arrestati. Veniamo portati ad una stazione di polizia, dove, dopo le rituali perquisizioni, veniamo messi in una cella di 30 metri quadri dove si trovano altre 25 persone. Al mattino veniamo chiamati e caricati su un furgone, sempre ammanettati, e portati al carcere di Erbil. Dopo due ore di strada arriviamo in quello che è una sorta di carcere/tribunale, nuovo di zecca. Dopo una lunga attesa, ammanettati nei corridoi, veniamo perquisiti e poi divisi, due persone per ogni cella. Le celle sono di circa 60 metri quadri, all’interno di quella dove vengo rinchiuso ci sono 104 persone: si può stare solo in piedi o seduti. All’interno di ogni cella sono presenti più di 50 miliziani dell’ISIS; questi sono tenuti all’ultimo gradino sociale del carcere quindi non ci hanno picchiato, ci hanno anzi dato da mangiare. Ci troviamo chiusi come sardine insieme ai nemici, che per mesi ci hanno sparato addosso e che hanno ucciso decine di compagni. La tortura che subiamo non è fisica ma psicologica. La sera, dopo le mie richieste, arriva il supporto legale mandato dalla Farnesina. Mi viene comunicato che sono accusato di essere un’appartenente del PKK, io rispondo che non sono un guerrigliero del PKK bensì uno YPG che per 9 mesi ha combattuto in Rojava contro l’ISIS e in difesa dei popoli della confederazione del Nord della Siria. Chiedo subito di essere trasferito di cella: non voglio stare in cella con il mio nemico, chiedo di stare con gli altri internazionali e dico che piuttosto preferisco la cella liscia. La risposta ovvia è che non c’è posto; in realtà c’erano almeno tre celle vuote. Durante la notte passata in cella, decine di detenuti hanno solidarizzato con me e l’altro compagno internazionale. Alle 7.30 ci svegliamo, dopo la colazione e l’ora d’aria, con cento persone in un buco di 20 metri quadri, possiamo rivedere il legale. Lo aspettiamo due ore nei corridoi, poi finalmente esce dalla stanza e ci comunica che siamo liberi. Ci dice che il KRG ci ha già fatto un biglietto per Roma via Istanbul e che le autorità turche sono state avvisate del nostro scalo. Rimango senza parole, dico subito che mi rifiuto di passare dalla Turchia, piuttosto preferisco rimanere chiuso ad Erbil e aspettare la fine del processo a mio carico. Il Governo di Barzani è molto amico di quello turco, hanno molti accordi commerciali e collaborazioni di intelligence, con questa manovra vogliono consegnare alla Turchia un suo nemico. Dopo un oretta decidiamo di uscire e provare a cambiare biglietto direttamente in aeroporto. Riusciamo a cambiare biglietti, ma l’asaysh di Barzani cerca di allungare i tempi e si rifiuta di mettere il maledetto timbro necessario per uscire. Dopo qualche ora finalmente arriva il timbro e prendo l’aereo per Roma, via Beirut. Alle 7 del mattino arrivo finalmente a Roma, molto stanco e ancora scombussolato: non ho dormito per 5 giorni. Vengo interrogato prima dalla Digos e poi dai Ros come persona informata sui fatti. Quando si subisce un interrogatorio come persona informata sui fatti si è, diciamo legalmente, obbligati a rispondere senza tutela legale. La mia risposta è sempre la stessa, sono andato in Rojava, per 9 mesi ho combattuto l’ISIS e difeso i popoli della confederazione democratica della Siria del nord. Dopo 4 ore vengo rilasciato e posso raggiungere finalmente i miei amici che mi aspettano fuori. Gli altri compagni internazionali vengono rilasciati dopo qualche giorno, avere passaporti di nazionalità diversa cambia i tempi per le procedure penali e la permanenza nella prigione di Erbil.
Queste righe le ho scritte per far capire bene qual è il trattamento subito da chi combatte l’ISIS e difende la rivoluzione del Rojava. Certo non mi aspettavo il tappeto rosso o molta accoglienza, si sa il lavoro degli sbirri è reprimere, e il ruolo del carcere quello di privare le persone della libertà. I governi dicono di combattere l’ISIS, in realtà lo sostengono e lo armano, la loro rimane solo una lotta di facciata perché in realtà hanno molta paura di rivoluzionari e rivoluzionare che lottano per la libertà e per un mondo libero e senza catene. Tocca a noi lottare e sostenere la confederazione democratica della Siria del nord e far si che le notizie arrivino in tutto il mondo. C’è un’unica strada percorribile ed e quella della lotta e della resistenza.
Biji barxwadan Rojava.
Viva l’internazionalismo.
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