Terrorizzare e reprimere. Il terrorismo come strumento repressivo in perenne estensione [Terza parte]
Qui potete trovare il formato pdf per una lettura più agevole o per la stampa:Terrorizzare e reprimere. Parte 3 di 3
19 maggio 2014. “Terrorizzare e reprimere”. Parte 3 di 3:
Il terrorismo nell’ordinamento italiano
L’ingresso del terrorismo nell’ordinamento penale italiano avviene a chiusura di un ciclo particolarmente intenso di lotte rivoluzionarie, il quale, iniziato intorno al 1968, aveva anche dato luogo, a partire circa dalla metà degli anni ‘70, ad esperienze di lotta armata.
Lo Stato risponde a questa stagione di intensa conflittualità sociale con la legislazione d’emergenza, di cui è piena espressione la Legge Reale del 1975.
La prima norma penale che contiene un esplicito riferimento al terrorismo è l’art. 289 bis, “sequestro di persona a scopo di terrorismo ed eversione”, introdotta nel marzo del 1978 mentre era in corso il sequestro Moro.
Ma a fare entrare a pieno titolo la categoria di terrorismo nel sistema penale sarà il decreto legge n. 625 del 1979, convertito nella legge n. 15 del 1980, anche detto “legge Cossiga”. Dal punto di vista che qui ci interessa, la legge Cossiga appresta tre importanti dispositivi: all’art. 1 prevede l’“aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”, applicabile a qualsiasi reato e comportante un aumento secco della metà della pena; introduce una nuova ipotesi di reato associativo all’art. 270 bis c.p. (“associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”); inserisce l’art. 280 nel codice per punire l’attentato alla vita o all’incolumità fisica di una persona compiuto per finalità terroristiche o di eversione.
Il delitto di terrorismo più recente è infine del 2003, quando viene inserito nel codice l’art. 280 bis, “attentato di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi”.
Le previsioni che abbiamo appena richiamato compongono un quadro in cui accanto a singole fattispecie di “reato terroristico” inserite nel codice penale (artt. 270 bis, 280, 280 bis, 289 bis) si pone una generale aggravante di terrorismo extra codicem (art. 1 d.l. n. 625/1979).
Tutte queste norme sono costruite intorno alla figura della “finalità di terrorismo”, istituto che agisce qualificando la condotta come delitto politico e che determina un notevolissimo aumento di pena e l’applicazione di norme procedurali gravemente limitative della libertà personale. L’attuale sistema penale, in linea con l’impostazione del modello penale fascista sul quale si è innestato, considera infatti il delitto politico ben più grave del delitto comune.
La descrizione del terrorismo come una finalità invece che come una condotta è un aspetto cruciale che, come abbiamo mostrato nel paragrafo precedente, si rinviene anche al livello del diritto internazionale sin dalle prime apparizioni della nozione di terrorismo.
Dare centralità alle finalità a discapito degli atti costituisce il culmine del processo di soggettivazione del giudizio penale e rappresenta un elemento fondante del “diritto penale del nemico”. Ciò che attiva il “girone infernale” della penalità emergenziale non è infatti l’oggettiva gravità del comportamento concretamente attuato, ma il suo possibile collegamento con un progetto rivoluzionario o comunque con una visione del mondo incompatibile con lo status quo.
Con un’indagine sulla finalità si valuta quindi non l’offensività del fatto, ma la “nemicità” di chi l’ha commesso. Si può parlare a tal proposito anche di “diritto penale d’autore”, nel senso che più del fatto conta l’autore e il ruolo che il suo livello di politicizzazione ha giocato nella commissione del reato.
Ma poiché le finalità in ultima istanza abitano il mondo interiore dei soggetti, focalizzare il giudizio penale sulle finalità significa “fare il processo alle intenzioni”, investigare sulle identità e sui pensieri più intimi delle persone, alla ricerca del peccato originale della nemicità. L’impostazione della legislazione antiterrorista ha – da questo punto di vista – un collegamento ideale, più ancora che con il fascismo, con i metodi della Santa Inquisizione, come giustamente sottolinea Luther Blisset in “Nemici dello Stato”.
Ne è una conferma l’istituzione, nella legge Cossiga, di benefici premiali per tutti coloro che siano pronti a ripudiare il loro credo politico e a denunciare i compagni. Non va dimenticato che in quegli anni era sistematico l’uso della tortura per ottenere “ravvedimenti” ed informazioni dagli accusati di terrorismo. Dissociazione e pentitismo sono i nomi politically correct rispettivamente dell’abiura e della delazione, strumenti di cui il potere si serve sin dai tempi di Galileo Galilei e delle persecuzioni degli eretici.
Nonostante il cardine della legislazione antiterrorista sia dunque la figura della “finalità di terrorismo”, l’ordinamento italiano non offre alcuna definizione di essa fino al 2005. Fino a quel momento l’individuazione dei caratteri propri del terrorismo viene dunque completamente demandata ai giudici.
La giurisprudenza oscillerà così tra la nozione più filologicamente corretta di terrorismo, imperniata sul terrore indiscriminato verso la popolazione, e le concezioni maggiormente protettive dell’ordine costituito e dei suoi esponenti (peraltro privilegiando decisamente queste ultime).
Il ruolo preminente della magistratura in merito al giudizio su cosa sia il terrorismo subisce però una battuta di arresto nel 2001, con l’istituzione delle black lists. Dopo l’11 settembre “nulla è più come prima”, i paesi occidentali sono chiamati dall’allora presidente degli USA Bush a fare la loro parte nella “guerra infinita al terrorismo”.
In applicazione di questo nuovo corso, il decreto legge n. 274 del 2001 include il terrorismo internazionale nell’ambito d’applicazione del reato di associazione con finalità di terrorismo (art. 270 bis c.p.) ed estende la punibilità anche alle attività di assistenza (artt. 270 ter c.p.; in questo modo si criminalizza di fatto ogni forma di solidarietà con presunti terroristi).
Inoltre, gli Usa, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il Consiglio dell’Unione Europea stilano con criteri e procedure prive di qualsiasi trasparenza liste nere di organizzazioni e individui “terroristi”.
Esse sono dunque considerate terroristiche dai poteri sovranazionali e i giudici, con buona pace di Montesquieu, devono tendenzialmente adeguarsi a tale giudizio. In questo contesto diventa infatti difficile per un giudice che abbia un po’ di coraggio e di onestà intellettuale riappropriarsi del potere di rifiutare la valutazione fatta nella black list.
Ad esempio, nel processo contro l’organizzazione curdo-irachena Ansar Al Islam il giudice del primo grado aveva deciso che essa non fosse da ritenere terroristica anche se era stata inserita in una black list. La sentenza si basava sul fatto che l’organizzazione si era costituita per organizzare la resistenza in Iraq contro l’invasione del 2003 da parte degli Usa e dei suoi alleati. Il ragionamento era semplice e convincente e ribaltava quanto affermato nella black list: gli accusati erano da considerarsi guerriglieri in quanto miranti ad obiettivi militari e non terroristi che colpiscono i civili.
Nonostante ciò, la sentenza è stata capovolta in Cassazione.
L’ultima frontiera della repressione: terroristi sono i movimenti
Nel 2005 c’è un’importante svolta. All’indomani degli attentati alla metropolitana di Londra, il cosiddetto pacchetto Pisanu introduce, accanto ad una serie di misure preventive di controllo poliziesco e ad alcune nuove figure di reato legate al terrorismo (arruolamento e addestramento, art. 270 quater e quinquies c.p.), una definizione generale della finalità di terrorismo.
La riportiamo testualmente:
“Art. 270 sexies del codice penale. Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.”
Tale definizione viene ricavata pressoché letteralmente da quella adottata dall’Unione Europea nell’ambito della decisione quadro 2002/475/GAI, già citata nella seconda parte. In questo come in altri casi, il governo italiano sembrerebbe dunque poter giocare la carta deresponsabilizzante e sempre valida del “è l’Europa che ce lo chiede”.
In realtà così non è, perché la valenza repressiva della previsione italiana riesce a superare notevolmente la già pesante formulazione europea.
Quest’ultima infatti contiene un’elencazione casistica degli atti intenzionali che possono rientrare nella definizione astratta di terrorismo. Le diverse ipotesi contenute in questo elenco sono tutte accomunate dalla loro idoneità, diretta o indiretta, a colpire l’incolumità fisica o la vita di una o più persone.
Nella formulazione italiana invece scompare l’elenco e, insieme ad esso, la parziale circoscrizione della generalissima portata della definizione ai soli casi di offesa alle persone. Ciò agevola l’applicabilità della finalità di terrorismo anche ai reati rivolti contro le cose.
Chi ha approvato il Pacchetto Pisanu ha insomma deliberatamente escluso una tipizzazione analitica “per non rischiare di lasciar fuori alcuni fenomeni”, come ha dichiarato l’on. Boschetto (Pdl), relatore dell’emendamento di maggioranza al provvedimento.
Ed effettivamente l’intento è stato raggiunto: a rigore ben pochi fenomeni sociali vengono con certezza lasciati fuori dalla vaghissima definizione dell’art. 270 sexies!
Essa infatti si accontenta di rintracciare nella condotta “terroristica” solo: 1) un’astratta idoneità a produrre effetti alquanto generici; 2) tre altrettanto generiche finalità, alternative tra loro, che ne guidino la realizzazione.
Dal primo punto di vista, basta che la condotta sia idonea, anche solo potenzialmente, a “produrre un grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale”. Di che tipo e quanto grave debba essere il danno non è dato sapere. La vaghezza e la potenzialità repressiva di una tale formulazione dovrebbe preoccupare molti, in un Paese in cui chi è migrante “produce una diffusa percezione di insicurezza”, chi sciopera “fa male al sistema Italia”, chi manifesta per le strade “crea allarme sociale e disagi ai cittadini”.
Dal secondo punto di vista, gli scopi (in gergo giuridico, i doli specifici) cui mira il “terrorista” vanno ravvisati o nella classica finalità di intimidire la popolazione; o in quella, dal sapore rivoluzionario, di destabilizzare le strutture dell’organizzazione statale. O ancora, novità inquietantissima made in Europe, in quella di “costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”.
Su quest’ultimo punto vale la pena di soffermarsi un momento a riflettere.
La formula è talmente categorica da scrollarsi di dosso ogni parvenza di democraticità costituzionale. Come è stato prontamente osservato, essa di fatto codifica in una norma di legge l’assolutezza del potere statale rispetto al corpo sociale.
Se viene considerato terroristico lo scopo di obbligare dal basso chi detiene il potere a cambiare linea politica, può essere astrattamente criminalizzata come terroristica qualsiasi ipotesi di movimento sociale e politico al di fuori dello stato e del gioco truccato della rappresentanza elettorale.
Questa tendenza è inoltre agevolata dalla mancata trasposizione, nel testo di legge che ha recepito la definizione europea di terrorismo, di alcune premesse che pure accompagnavano il testo europeo. Le premesse “dimenticate” dal legislatore italiano, per quanto esse abbiano un valore poco più che simbolico, significativamente prevedevano che la definizione adottata non potesse essere utilizzata per ostacolare le libertà di associazione, di espressione e di azione sindacale (premessa n. 10 alla decisione quadro 2002/475/GAI).
Forse qualcuno potrebbe pensare che le considerazioni svolte sopra siano interpretazioni iperboliche svolte a partire da una norma scritta male.
Ma purtroppo, danno fondamento a queste valutazioni pessimistiche le iniziative di alcune Procure, le quali agiscono con il plauso più o meno esplicito della stragrande maggioranza dei partiti rappresentati in parlamento e dei media mainstream.
Nel momento in cui scriviamo, proprio in forza dell’aberrante definizione di terrorismo dell’art. 270 sexies, alcuni compagni sono rinchiusi in carcere di massima sicurezza, in condizioni di estremo isolamento.
Tra loro ci sono Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia ai quali viene attribuito il danneggiamento di un compressore e che per questo motivo sono sotto processo con le imputazioni di attentato con finalità di terrorismo, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione di armi da guerra e danneggiamento.
Il processo si riferisce ad un’azione svoltasi durante una manifestazione No Tav, quando alcuni compagni hanno deciso di danneggiare almeno parzialmente i mezzi che concorrono alla realizzazione dell’immenso progetto dell’Alta Velocità che vorrebbe sventrare il territorio valsusino.
Il movimento No Tav ha difeso quel gesto e, in generale la pratica del sabotaggio, con dichiarazioni pubbliche molto chiare.
L’azione oggetto di accertamento processuale ha causato solo danni a degli oggetti, non ha fatto un graffio a nessuno. Eppure, secondo l’accusa, essa ha provocato i gravi danni di cui parla l’art. 270 sexies. La distruzione del compressore avrebbe infatti cagionato un grave danno ad un’entità alquanto immateriale, ossia l’“immagine internazionale dell’Italia”.
Inoltre, la finalità terroristica dell’azione va rinvenuta secondo i PM Rinaudo e Padalino, nel fatto che essa si inserisce all’interno di un movimento di lotta che vuole impedire la realizzazione di un’opera pubblica decisa dallo stato.
C’è il grave danno e c’è il dolo specifico terroristico. Tanto basta a rispettare la formula dell’art. 270 sexies e i 4 compagni rischiano più di venti anni di galera, quantomeno finché il teorema non verrà smontato.
Poco importa che fuori dalle aule legislative, dai tribunali e dalle sedi dei giornali, nel mondo in cui le parole hanno ancora un significato non autoreferenziale, il sabotaggio sia cosa del tutto diversa dal terrorismo.
Anche per affermare questo il movimento No Tav è sceso in piazza il 10 maggio a Torino in un corteo partecipato da circa 25.000 persone. Queste forme di solidarietà non passano certo inosservate, infatti la repressione, specie quando è così dura, ha sempre bisogno di isolare i suoi obiettivi. Quando non ci riesce è costretta a misurarsi anche con le ragioni della protesta e ciò rende più difficile l’attività repressiva tramite le astratte categorie del diritto.
Così, la notte del 14 maggio, una decisione della Cassazione ha indebolito fortemente l’impianto accusatorio della procura di Torino con positive ricadute sul processo in corso. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò non sono ancora fuori pericolo e, come abbiamo accennato alla nota 8, il loro non è l’unico processo nel quale si tenta di estendere ulteriormente i confini dell’accusa di terrorismo.
L’informazione mediatica, trattando la vicenda del sabotaggio del compressore con la faziosità abituale che riserva ai No Tav, ha fatto una mossa insolita: ha pubblicato la notizia del procedimento per attentato terroristico, prima che lo sapessero gli stessi indagati. Chissà, sarà forse stata una velina della questura o di qualcuno in procura desideroso di contribuire ad unoscoop?
Eppure in passato ci sono state diverse riflessioni sull’atteggiamento che dovrebbero tenere i media in riferimento al terrorismo. Infatti, in linea teorica, il terrorismo (che è, non lo ripeteremo mai abbastanza, la pratica di terrorizzare la popolazione mediante una violenza indiscriminata) si dovrebbe giovare dell’effetto di amplificazione del terrore dovuto alla diffusione mediatica del gesto “terrorizzante”.
Come mai allora, oggi come negli anni ‘70, giornali e Procure collaborano per dare il massimo risalto a questo genere di notizie? Come mai si sprecano le dichiarazioni pubbliche di politici e funzionari sull’attualità del “pericolo terrorismo”?
Ci aiutano a trovare una risposta le illuminanti parole che Mattia, uno degli accusati in questo processo, ha scritto in una lettera dal carcere in cui è rinchiuso:
“«Terrorismo», «organizzazione paramilitare», «attentato»: dietro la scelta di queste espressioni si cela un’operazione linguistica volta ad evocare sentimenti precisi.
Ogni parola attiva un campo semantico, che la collega ad altre parole e significanze. Se dico «sedia» penso anche a «tavolo», se dico «pane» penso anche a qualcosa di «morbido» e «semplice». Allo stesso modo l’impiego di categorie come «terrorismo» o «guerra» non ha delle ricadute solo sul piano giuridico, e di conseguenza sulla nostra libertà fisica, ma ha una forte capacità evocativa in grado di far emergere una serie di suggestioni e di reazioni irrazionali facilmente governabili. Ed è solo in questa triste e tenebrosa palude emotiva, abitata da leggendari e terrorifici mostri marini da decapitare prontamente, che i moderni filibustieri del diritto navigano sicuri e, come salvatori, distribuiscono decadi di galera come fossero caramelle gommose ad una festa per bambini. È solo in questa pozza torbida e melmosa, dove ogni gesto di dissenso radicale viene risucchiato e rimasticato dalle fauci – queste sì terrificanti – della vendetta penale, che i potenti si specchiano e si riscoprono belli e necessari.”
Parlare a sproposito di terrorismo serve quindi a costruire un mondo governato dal terrore.
Ma ZeroCalcare ha ragione: davvero noi abitiamo in un universo parallelo.
Nel nostro mondo i danni gravi non sono quelli subiti dalle cose, ma quelli che le persone subiscono a causa dell’idolatria per merci e profitto.
Nel nostro mondo chi ha puntato al compressore ha avuto una mira eccellente, altro che violenza indiscriminata!
Nel nostro mondo, combattere al fianco di una popolazione in lotta non è terrorismo, al contrario, significa darsi reciprocamente coraggio, costruire relazioni libere e paritarie, alimentare la fiducia nella nostra capacità di combattere il sistema di ingiustizie nel quale viviamo.
Vogliamo essere radicali, ritornando alla radice della definizione di terrorismo: terrorismo è diffondere il terrore nella popolazione mediante l’utilizzo di una violenza indiscriminata.
Oggi come ieri, per noi è lo stato che terrorizza la popolazione, utilizzando la violenza della repressione indiscriminatamente, colpendo nel mucchio di coloro che non hanno ancora fatto voto di obbedienza, agitando l’immaginario legato al terrorismo per suscitare ansie sociali.
Oggi come ieri, TERRORISTA E’ LO STATO!
Chiara, Mattia, Claudio, Niccolò liberi!
Liberi tutti e tutte!
Prison Break Project è un progetto collettivo di ricerca e analisi con l’obiettivo di contribuire al dibattito di movimento contro la repressione. È anche il nome del blogprisonbreakproject.noblogs.org e l’autore collettivo che sta preparando da lunghi mesi un libretto di approfondimento sui dispositivi repressivi puntati contro i movimenti sociali. La pubblicazione cartacea autoprodotta è prevista, si spera, per quest’estate.
Note
Da questo punto di vista va rilevato che i reati di terrorismo, oltre a prevedere pene detentive massime anche sopra i 20 anni, hanno un range amplissimo tra massimo e minimo, lasciando così un elevato margine di discrezionalità al giudice. Inoltre, per quanto riguarda le limitazioni alla libertà personale che questi reati comportano, ci si limiti a considerare che, a norma dell’art. 275 c. 3 c.p.p., la custodia cautelare (ossia l’incarceramento dell’imputato prima della sentenza definitiva) costituisce la regola e non l’extrema ratio come avviene per i reati comuni e può avere durata molto lunga (fino a 6 anni). È questa una tipica risposta da “legislazione d’emergenza”, tanto quanto lo è la possibilità, prevista per le indagini di terrorismo, di procedere a veri e propri rastrellamenti, ossia a “perquisizioni domiciliari anche per interi edifici o per blocchi di edifici” alla ricerca delle persone indagate o delle prove (art. unico legge n. 15/1980).
Un esempio concreto di cosa significhi questo aggravamento del regime del reato politico è la circostanza per la quale, mentre le lesioni semplici di cui all’art. 582 c.p. sono punite con la reclusione da 3 mesi a 3 anni, la versione “terroristica” dello stesso reato (l’attentato all’incolumità di una persona prevista dall’art. 280 c.p.) prevede una pena non inferiore a sei anni. Ciò peraltro anche nell’ipotesi che l’attentato non produca alcuna lesione, posto che per definizione il delitto di attentato sussiste indipendentemente dalla realizzazione effettiva dell’atto (ad es. il tentativo di danneggiare una cosa può integrare a tutti gli effetti un reato di attentato anche se la cosa non è stata effettivamente danneggiata). Ciò avviene perché con i delitti di attentato si ha una gravosa anticipazione della punibilità e non si applica la diminuzione della pena che opera per i delitti tentati di tipo comune.
Sono illuminanti in questo senso le parole dei giudici dell’inchiesta 7 Aprile riportate in LUTHER BLISSET PROJECT, Nemici dello stato, DeriveApprodi 1999, p. 46: “stiamo cercando di ricostruire il percorso ideologico che ha portato l’imputato a commettere i gravissimi reati di cui è accusato … L’imputato non si è ancora reso conto di questo e continua ad attendersi che gli venga contestato un fatto preciso”. A ciò si può aggiungere un precedente recente avvenuto in Francia in cui alcuni militanti delle lotte sociali sono stati condannati per “terrorismo” principalmente a causa della loro evidente partecipazione a movimenti considerati rivoluzionari e dunque per le loro “cattive intenzioni” (slogan ripreso dagli imputati) nei confronti di Stato e istituzioni più che per gli atti a loro attribuiti (un approfondimento in francese è su:http://infokiosques.net/mauvaises_intentions).
La decisione di iscrivere qualcuno in una black list non fornisce alcuna reale possibilità di difesa: essa non contiene motivazione o è scarsamente motivata, non vi è diritto di accedere agli atti su cui la decisione si basa, non vi è diritto di avere un contraddittorio con un tribunale. Per la persona inserita in una black list diventa quindi impossibile difendersi, anche perché l’addebito è genericissimo (“il signor x appartiene all’organizzazione y ed è quindi un terrorista”) e diventa diabolico provare il contrario, dal momento che l’accusa non si basa su specifici fatti contestati ma sulla mera attribuzione unilaterale dell’etichetta di terrorista.
Per la ricostruzione di questa vicenda processuale e di altre simili si veda VAINER BURANI, “I processi per terrorismo internazionale”, reperibile all’indirizzohttp://www.giuristidemocratici.it/post/20121127075705/post_html
“a) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso; b) attentati gravi all’integrità fisica di una persona; c) sequestro di persona e cattura di ostaggi; d) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di privata proprietà che possono mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli; e) sequestro di aeromobili, navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto merci; f) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura o uso di armi da fuoco, esplosivi, armi atomiche, biologiche e chimiche, nonché, per le armi biologiche e chimiche, ricerca e sviluppo; g) diffusione di sostanze pericolose, il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettano in pericolo vite umane; h) manomissione o interruzione della fornitura d’acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane; i) minaccia di realizzare uno dei comportamenti elencati alle lettere da a ) ad h”.
Proprio nella possibilità, offerta dall’art. 270 sexies, di qualificare come terrorismo la violenza contro le cose si inquadrano due vicende giudiziarie che hanno avuto avvio nel 2013. La prima riguarda un’azione attribuita ad alcuni animalistiche avrebbero appiccato un incendio ad otto automezzi in un caseificio nottetempo, quando non erano presenti altre persone nel luogo. In questo caso è stata contestata l’aggravante di terrorismo ex art. 1 della legge n. 15/1980 (si veda la nota successiva per un riferimento bibliografico sui risvolti giuridici della vicenda). Il secondo esempio è il processo contro Adriano e Gianluca, accusati ex art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo ed eversione) per 13 azioni di sabotaggio e danneggiamento contro banche, sedi Eni ed Enel e una pellicceria. Tra le azioni che vengono loro attribuite ce n’è una contro la discarica di Albano, al centro di una mobilitazione popolare nell’area dei Castelli Romani (http://occupazioniprecaristudenti.noblogs.org/post/2014/03/25/difendere-il-proprio-territorio-non-e-terrorismoadriano-e-gianluca-liberi-subito/).
La dichiarazione è riportata in Valsecchi, “I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270sexies c.p. (prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front)”, in Diritto penale contemporaneo, 2013.
Per un esempio fra tanti: Ferri, “Il silenzio-stampa nei rapimenti e sulle operazioni terroristiche”, in Giustizia Penale, 1979, p. 502.
A questo indirizzo la lettera integrale di Mattia: http://www.liberodissenso.it/wordpress/?p=326.
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.