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The battle is lost but the war has just began!

 

Ad ogni modo, nelle pieghe di questo risultato, le connotazioni politiche, di classe e generazionali appaiono in controluce già in queste prime ore dopo la resa di Salmond e soci, e offrono interessanti spunti di riflessione per altri movimenti indipendentisti che, in giro per l’Europa, guardano con interesse all’esperimento scozzese (prima fra tutti quello in Catalogna che, salvo ricorsi del governo centrale alla Corte Costituzionale, si appresta a votare per la propria indipendenza il 9 novembre).

Sebbene infatti dati elettorali più articolati saranno disponibili solo nel corso delle prossime ore o settimane, già ora sembra di poter abbozzare alcune ipotesi a caldo.

Da una parte, il fronte del No è stato foraggiato e sostenuto da élite produttive e finanziarie, che hanno rafforzato le une i timori degli altri minacciando un’inflazione senza controllo, crollo delle esportazioni, fino alla chiusura delle linee di credito inglesi e ad un sostanziale embargo per le aziende scozzesi, il tutto coronato dal divieto di utilizzare la sterlina. Il ceto medio produttivo non ancora toccato dalla crisi né bastonato dalla disoccupazione, l’alta borghesia, i rimasugli di aristocrazia industriale sopravvissuti alla scure del Tatcherismo hanno dunque deliberatamente sfruttato l’incertezza continuamente fomentata da giornali e BBC da un lato, e dal gotha della borsa londinese dall’altro, in merito alla concrete conseguenze economiche della separazione dalla Gran Bretagna, benché ogni minaccia aleggiasse poco più che nel semplice campo delle speculazioni intellettuali.

Per molti mesi, infatti, è stato evidente quanto Cameron, la Banca Centrale, la finanza e i partiti in generale non avessero preso nemmeno in considerazione la concreta fattibilità di un “sì”, al punto tale che il premier, fino a un paio di mesi fa, ha tenuto un profilo talmente basso, da praticamente evitare di menzionare pubblicamente quanto stesse accadendo in Scozia, come se si trattasse di un evento irrilevante. Una volta che i sondaggi hanno mostrato la “sorprendente” rimonta del fronte del Sì, il governo e i grandi leader di partito sono corsi ai ripari, mobilitando tutta la potenza di fuoco dell’apparato mediatico ed economico britannico per contraddire le previsioni presentate dal partito indipendentista SNP in merito alla fattibilità economica del divorzio con Londra. Un esempio per tutti? Se il premier scozzese Salmond aveva assicurato che sarebbe stata mantenuta la valuta britannica, il Ministro delle Finanze londinesi e diverse istituzioni bancarie si sono affrettate a replicare che questo non sarebbe stato possibile né auspicabile, visto che la sovranità monetaria è la pietra angolare di quella statuale. Pertanto, le conseguenze sarebbero state imprevedibili, ancorché non vi fossero statistiche e scenari inconfutabili a suffragio né dell’una, né dell’altra ipotesi. Tale retorica, tuttavia, ha di fatto avuto una grande presa su quella parte di popolazione adulta, relativamente benestante e riformista, abituata a vivere sotto il rassicurante (seppur scomodo) ombrello di Sua Maestà, a informarsi tramite BBC e Guardian, ben poco incline a mettere a rischio un presente relativamente stabile per tentare un salto nell’ignoto, accontentandosi piuttosto delle promesse fatte da Cameron in merito ad una crescente indipendenza politico-amministrativa scozzese, da concedersi in capo a pochi mesi, a prescindere dall’esito delle urne.

 

Dall’altra parte, i sostrati giovanili che vivono nei suburbi scozzesi si sono soggettivati ed attivati con una forza quasi senza precedenti per sostenere dal basso la campagna a favore del Sì e portarla, letteralmente, porta a porta in tutta la Scozia per ribaltare completamente il tavolo, anziché accontentarsi di una fetta più grande di torta. D’altro canto, la proattività delle generazioni più giovani sui social networks per scopi di piazza non è una novità tanto a livello globale, quanto non lo è nel contesto inglese: basti pensare agli UK Riots in cui le folle di giovani chiamati sprezzantemente da stampa e governo “looters” organizzavano e coordinavano le proprie azioni usando Twitter e messaggistica istantanea, e alla trasposizione dell’impalpabile Anonymous in mobilitazioni di piazza animate da centinaia di hoodies con la maschera di Guy Fawkes calata sul volto. Tali forme di hacktivism si sono saldate alle forme più classiche di mobilitazione come il volantinaggio porta a porta e i cortei, allo scopo di intercettare in ogni modo possibile gli abitanti dei quartieri popolari, e più in generale quegli strati di popolazione non certo ammaliabili dalle sirene “spaventatrici” della propaganda unionista La matrice proletaria di questa mobilitazione giovanile infatti è tanto palese nella misura in cui basta incrociare dati di voto e indicatori macroeconomici delle singole metropoli, per capire fino a che punto una consistente parte dell’elettorato ritenesse di non avere nulla da perdere in caso di divorzio dal governo centrale.

Glasgow, ad esempio, oltre ad essere la terza città inglese più grande, è stata una delle roccaforti dove il “YES” ha trionfato, ottenendo la quasi totalità dei voti. Dall’altro canto, la stessa città è considerata una delle più povere, gentrificate e proletarizzate d’Inghilterra, con quartieri operai in abbandono come Shettleston dove l’aspettativa di vita maschile è di 64 anni, ossia inferiore di quasi 15 anni rispetto alla media nazionale.

Per questi strati proletari dunque, tentare di liberarsi del giogo britannico ha significato in prima istanza opporre un netto rifiuto alla versione anglosassone della spending review, che prevede 25 miliardi di tagli nei prossimi anni per far rientrare anche il cospicuo debito pubblico scozzese, quantificato in un rapporto deficit/PIL oltre l’11% (contro il 3% richiesto da Bruxelles agli stati membri). Ha significato rigettare il progetto di privatizzazione del sistema sanitario NHS avviato dal governo Cameron (e che, per inciso, è stato uno degli spauracchi che ha reso timido l’appoggio delle realtà militanti inglesi all’indipendentismo dei cugini scozzesi). Terzo, ha significato difendere il sistema dell’istruzione, che in Inghilterra è stato chiuso virulentemente agli studenti per essere svenduto sul mercato allo scopo di attrarre investitori stranieri, mentre in Scozia l’università rimane gratuita e pubblica per tutti i residenti. Quarto, ha significato sottrarsi alla stigmatizzazione sempre più violenta di coloro che sopravvivono grazie ai sussidi di welfare, definiti sprezzantemente da giornali e programmi televisivi mainstream come il famigerato Benefits Streetdole dossers”, ossia gli scansafatiche dei sussidi. Una criminalizzazione della povertà in perfetto stile da morale capitalista weberiana che, evidentemente, prepara e sottende un altro violento attacco al welfare a base di nuove tassazioni sulle famiglie e deregulation, sostenuto in maniera sostanzialmente bipartisan, e a cui gli scozzesi si oppongono fin dai tempi della svolta neoliberista iniziata dalla famigerata poll tax di Tatcheriana memoria.

E infatti, in ultima ma importantissima istanza, barrare il Sì ha significato dare sfogo al diffuso risentimento scozzese nei confronti del Labour Party che, come la maggioranza dei suoi omologhi a livello europeo, è accusato di aver tradito il suo elettorato di base virando in maniera decisa verso politiche neoliberiste e di austerity. Se infatti l’unica testa caduta finora sul tavolo è quella del premier scozzese Eric Salmond (che ha rassegnato le dimissioni oggi pomeriggio dal doppio ruolo di premier e leader del partito indipendentista), chi sul lungo periodo rischia veramente di pagare il pegno delle promesse non mantenute è il cugino britannico del Pd, che dalla timida opposizione alla Tatcher a Tony Blair in poi, è oggetto delle ire del suo stesso zoccolo elettorale (finora) più duro ed affidabile. Una rabbia che sarà ancora più acuita dalla decisione di poche ore fa di Ed Miliband di non sottoscrivere il programma per la devolution formulato dal governo Cameron in osservanza alle promesse fatte all’elettorato scozzese. Il leader laburista probabilmente osteggia l’attribuzione di ulteriori poteri in materia di fisco e welfare al governo scozzese retto dal partito indipendentista SNP in ottica puramente elettorale. Prima di tutto, il precedente calcolo dei laburisti secondo cui la creazione di un parlamento scozzese avrebbe sgonfiato il fenomeno elettorale indipendentista (che va a tutto detrimento del Labour) di fronte alla prova del governo si è rivelato palesemente inesatto, in quanto il consenso del SNP si è anzi accresciuto e rafforzato. Pertanto, un’eventuale aumento dell’autonomia della Scozia in materia di welfare indebolirebbe ulteriormente la posizione del Labour, che ha sostenuto senza indugio l’implementazione di riforme e misure di austerità decise dai Tories come unica ricetta economica possibile. Last but not least, secondo più di un analista, una Scozia sempre più indipendente (anche dal punto di vista elettorale) renderebbe virtualmente pari a zero le possibilità del Labour di ritornare al governo in Downing Street.

Questa mossa, ad ogni modo, non gli sarà sicuramente perdonata dall’elettorato indipendentista scozzese, che già pochi minuti dopo i risultati gridava vendetta contro i “laburisti traditori”, e si dichiarava pronto a mobilitarsi in nuove forme per capitalizzare politicamente il comunque significativo risultato raggiunto e per mettere al più presto il Labour in un angolo. In termini peraltro non esclusivamente elettorali. Infatti, molti movimenti e gruppi autonomi e radicali scozzesi hanno deciso, pur con diversi approcci e accesi dibattiti, di appoggiare tatticamente l’azione del SNP allo scopo di accedere al suo bacino elettorale per raggiungere l’obiettivo dell’indipendenza. Ora, a loro stessa detta, si tratta di riorganizzare dal basso l’eccedenza antagonista, femminista, radicale, generazionale, di classe emersa nel corso della mobilitazione, per metterla a servizio di obiettivi politici che trascendono la sussunzione in un soggetto elettorale ed istituzionale, costitutivamente attraversato da ambivalenze, contraddizioni e negoziazioni nei confronti del governo centrale, a prescindere dal colore politico.

 

Specialmente la gioventù scozzese, ad ogni modo, sembra tutt’altro che persuasa a darsi per vinta. E su Twitter e Facebook, oltre a liti tra unionisti e indipendentisti e persino qualche accusa di brogli (per quanto non suffragata da alcuna evidenza empirica), impazzano già meme e profile pic al grido di “Still Yes”, e la pagina Facebook “We are 45%” (un chiaro, e per certi versi autoironico, riferimento alla campagna “We are 99%”) conta già 80,000 “mi piace” a pochissime ore dalla chiusura delle urne, mentre l’hashtag #the45 è in cima ai Trending Topic britannici. Per questa nuova generazione di campaigners e attivisti, «the battle is lost, but the war has just begun».

 

@PoliceOnMyBack

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