Tra Negazionismo, Gattopardismo e Transizionismo
Di Boaventura de Sousa Santos da Rebelión
Traduzione di Carlotta Ebbreo, Alice Fanti e Daniele Benzi per lamericalatina.net
Commento di Carlotta Ebbreo
L’idea di crisi del neoliberalismo non è sicuramente nuova come analisi della global governance e dell’epoca contemporanea. A partire dalla crisi dello Stato di benessere promosso nel Nord Globale negli anni d’oro del Boom economico, determinata dalle riforme che hanno progressivamente precarizzato il lavoro ed i diritti sociali e dai processi di “dispossessione” e privatizzazione di forme di vita e risorse naturali, conoscenze e servizi cominciati negli anni ‘80 ed inaspritisi a cavallo degli anni 2000, lo spettro della “fine della storia” e quindi del trionfo assoluto del capitalismo come egemonia di organizzazione sociale e geopolitica[1] è risultato sempre meno convincente. Negli ultimissimi anni, poi, in Occidente è aumentato il torpore di una frustrazione generata dalla ripresa degli spazi pubblici e politici da parte movimenti populisti che, con ingenuità, apparivano avere un ché di desueto, dando uno scacco finale alla presunta relazione tra neoliberalismo e democrazia. A contribuire alla visione della crisi negli ultimi anni erano stati anche i movimenti sociali latino americani, come ad esempio in Cile, laboratorio per eccellenza di sperimentazione del neoliberalismo in America Latina, dove si gridava nelle strade che la normalità (alias lo Stato Neoliberale e la sua relazione con precarietà e disuguaglianza) è il problema. Ancora, la crescita recente dei movimenti transfemministi, finalmente con una voce più “rumorosa” tra i movimenti sociali, aveva esplicitato con maggiore forza la relazione intrinseca fra l’ordine neoliberale, la sua storia, la sua contemporaneità ed il patriarcato.
Ma non è tutto. Sicuramente, la novità, la gravità e la straordinarietà in cui ci siamo “svegliati” nel tempo della crisi ecologico-climatica ha permesso di rinnovare la prospettiva della crisi dandole un’accezione più profonda e assoluta. Infatti, il concetto di capitalocene[2], insieme all’insieme delle dinamiche di crisi di cui esso è cornice (ad esempio l’aumento delle catastrofi climatiche, delle patologie fisico-psichiche legate al modello di produzione e consumo dominante, delle diseguaglianze, delle migrazioni forzate ecc.) hanno fatto emergere che la crisi è sistemica e di civiltà. A rafforzare questa idea, nell’epoca del Covid-19, contribuiscono le analisi che interpretano l’epidemia come sintomo di un sistema socio-ecologico fortemente disequilibrato[3].
Intellettuali messicani come V. Toledo e G. Esteva propongono da alcuni anni il concetto di crisi di civiltà e visioni e pratiche municipaliste e comunitariste come interpreti di una risposta a tale crisi. Quest’ultimo passaggio analitico-politico apporta un elemento fondamentale e necessario a questa “epoca della disfatta”, la visione di un cammino futuro possibile. Questo fa anche, in questo articolo, Boaventura, finora consacrato dalla storia delle scienze sociali e dai critici alla globalizzazione per la sua Epistemologia del Sud e per la sua speranza in una globalizzazione contro-egemonica. Nell’articolo non c’è utopia, ma c’è visione. Si vede una proposta di lettura accurata di come la pandemia ha riconfigurato la crisi del neoliberalismo e la presentazione di scenari che appaiono tutti realisticamente possibili.
Tra gli elementi che l’articolo riesce a ricollocare nel puzzle del mondo globalizzato, appare un nuovo ruolo dello Stato e un travestimento nuovo per l’antica geopolitica dello scontro tra Impero d’Oriente e d’Occidente. Tra gli scenari, si propone un negazionismo totalitario, cupo e securitario, in continuità con come appare a molti il presente caratterizzato dalla “biosicurezza e dal terrore sanitario”[4]. Si propone anche “un’uscita classica” del trasformismo capitalista nella sua capacità di rinnovare il ciclo di accumulazione e anche nella pratica di dare “un po’ di bastone e un po’ di carota” ai cittadini, così da mantenere un tentativo di pace sociale in una società che vede continuare ad ampliarsi la fetta della popolazione devastata dalle crisi. Come ulteriore opzione, Boaventura si “permette” di dare legittimità ad alcune delle pratiche che nella lettura egemonica sono lette come residuali e che, invece, occupano lo spazio di un altro modo di intendere la vita. Infine, questo articolo inserisce un elemento che la credenza occidentale, con le sue illusioni travestite da ottimismo, come la crescita infinita, ha impedito di posizionare nel puzzle a chi finora stava nella “parte più fortunata del mondo” rispetto akla distribuzione della ricchezza e dei diritti sociali: il dolore. Si tratta del dolore della disfatta di una civiltà, delle molteplici sofferenze che la compongono e che sono anche parte dei possibili futuri percorsi di civilizzazione. [Carlotta Ebbreo]
«Che saetta previsa viene più lenta»
La pandemia del nuovo Coronavirus ha messo a dura prova molte delle certezze politiche che sembravano essersi consolidate negli ultimi quarant’anni, specialmente in quello che viene chiamato “Nord Globale”.
Le principali certezze erano: la vittoria definitiva del capitalismo contro il suo grande sfidante storico, il socialismo sovietico; il primato dei mercati nella regolazione della vita sia economica che sociale, con la conseguente privatizzazione e deregolamentazione dell’economia e delle politiche sociali e la retrocessione del ruolo dello Stato in quanto regolatore della vita collettiva; la globalizzazione dell’economia, nella produzione e distribuzione, basata sulla logica dei vantaggi comparati; la flessibilità (precarietà brutale dei rapporti di lavoro) come condizione per aumentare il tasso di occupazione e la crescita economica. In generale, queste certezze erano costitutive dell’ordine neoliberale. Questo ordine si è alimentato del disordine nella vita delle persone, specialmente di quelle che sono entrate nell’età adulta negli ultimi decenni. Vale la pena ricordare che la generazione globale dei giovani che sono entrati nel mercato del lavoro durante il primo decennio degli anni 2000 ha già sperimentato due crisi economiche, la crisi finanziaria del 2008 e la crisi attuale causata dalla pandemia. D’altro canto, la pandemia ha significato molto più di questo. Nello specifico ha dimostrato che:
Non dovrebbe stupire che gli analisti finanziari a servizio di coloro che hanno creato l’ordine neoliberale stiano predicando l’entrata in una nuova era, l’era del disordine. È comprensibile che la pensino così, dato che non sanno vedere nulla al di fuori del catechismo neoliberale. L’analisi che svolgono è lucida e rivela preoccupazioni reali. Di seguito proviamo a comprendere alcune delle sue caratteristiche principali:
I salari dei lavoratori del Nord Globale sono stati congelati negli ultimi trent’anni, mentre le disuguaglianze sociali non hanno smesso di aumentare. La pandemia ha aggravato la situazione ed è molto probabile che questo generi malessere sociale. In questa fase, si è vista di fatto una lotta di classe dei ricchi contro i poveri e la resistenza di coloro i quali sono stati finora sfiancati può sorgere in qualunque momento. Gli imperi, nella fase finale della loro decadenza, tendono a scegliere figure caricaturali che possono solo accelerarne l’epilogo, come possono rappresentare Boris Johnson in Inghilterra o Donald Trump negli Stati Uniti. Il debito estero che in molti Stati risulterà dalla pandemia sarà impagabile e insostenibile, e i mercati finanziari non sembrano essere coscienti di tutto ciò.
Lo stesso risultato si vedrà con le famiglie di classe media, visto che hanno usato lo strumento dell’indebitamento come ultima risorsa che avevano per mantenere un certo stile di vita. Alcuni Stati hanno optato per la strada facile del turismo internazionale (hotel e ristoranti [per il turismo di massa, NdT]), un tipo di attività economica presenziale per antonomasia, che soffrirà di costante incertezza.
La Cina ha accelerato il passo per tornare ad essere la prima economia mondiale, come lo è stata per secoli fino all’inizio del XIX secolo. La seconda ondata della globalizzazione capitalista (1980-2020) è giunta al termine, e non si sa cosa segue. L’era della privatizzazione delle politiche sociali (giusto un esempio, la sanità) con le sue ampie prospettive di profitto sembra aver raggiunto il suo epilogo.
Queste analisi, a tratti rivelatrici, implicano che stiamo entrando in un periodo di dilemmi più decisivi e più scomodi di quelli che hanno prevalso negli ultimi decenni. Prevedo tre principali scenari possibili.
Il negazionismo
Chiamerò il primo negazionismo. Il negazionismo non condivide il carattere drammatico delle valutazioni fin qui esposte. Non vede nella crisi contemporanea nessuna minaccia per il capitalismo. Al contrario, crede che la crisi attuale lo abbia rafforzato. In fin dei conti, il numero dei multimiliardari non ha smesso di aumentare durante la pandemia e, inoltre, ci sono settori che hanno visto accrescere i propri benefici (vedasi per esempio il caso di Amazon o alcune tecnologie della telecomunicazione, come Zoom). Il negazionismo riconosce che la crisi sociale peggiorerà; per contenerla, lo Stato dovrebbe esclusivamente rafforzare il suo sistema di “norme e controllo”, rafforzare la sua capacità di repressione delle proteste sociali, che già cominciano a vedersi e che sicuramente aumenteranno, accrescere la forza di polizia, riadattare l’esercito contro i “nemici interni”, intensificare i sistemi di vigilanza digitale e ampliare il sistema penitenziario. In questo scenario, il neoliberalismo continuerà a dominare economia e società. Si accetta che sarà un neoliberalismo modificato geneticamente al fine di potersi difendere dal virus cinese. Per essere più chiari, un neoliberalismo in tempi di inasprimento della guerra fredda con la Cina, e di conseguenza, combinato con un certo tribalismo nazionalista.
Il gattopardismo
La seconda opzione è quella che più corrisponde agli interessi dei settori che vedono il bisogno di riforme affinché il sistema continui a funzionare o, per meglio dire, perché continui a garantire un rendimento del capitale. Chiamerò questa opzione gattopardismo, facendo riferimento al romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958): le cose devono cambiare affinché tutto resti uguale e l’essenziale sia garantito. Ad esempio, la sanità pubblica dovrebbe migliorare e ridurre le disuguaglianze sociali, mentre non vengono immaginati cambiamenti nel sistema produttivo o finanziario, nello sfruttamento delle risorse naturali, nella devastazione della natura e nei modelli di consumo. Questa posizione riconosce implicitamente che il negazionismo potrebbe arrivare a dominare e teme che, a lungo andare, questo renda infattibile il gattopardismo. La legittimità del gattopardismo si basa su una connivenza che si è stabilita negli ultimi quarant’anni tra il capitalismo e la democrazia, una democrazia a bassa intensità e ben addomesticata, che non metta in dubbio il modello economico e sociale, ma che ancora garantisce alcuni diritti umani per evitare il rifiuto radicale e la ribellione antisistema. Senza le riforme che fungono come valvola di sicurezza, terminerebbe ogni pace sociale e, di conseguenza, la repressione sarebbe inevitabile.
Il transizionismo
Esiste tuttavia una terza posizione, che definisco transizionismo. Attualmente, questa abita nell’anticonformismo angosciato che sorge in svariati spazi: nell’attivismo ecologista della gioventù urbana ovunque nel mondo; nell’indignazione e nella resistenza dei contadini, popoli indigeni e afrodiscendenti e dei popoli che abitano le foreste e le regioni a queste adiacenti e che si confrontano con l’invasione impune dei loro territori e con l’abbandono dello Stato in tempo di pandemia; nella rivendicazione dell’importanza degli oneri di cura a carico delle donne, talvolta nell’anonimato delle famiglie, ma anche nelle lotte dei movimenti popolari e pure, in vari paesi, in quelle che affrontano i governi e le politiche sanitarie; in un nuovo attivismo ribelle di artisti plastici, poeti, gruppi teatrali e rappers, soprattutto nelle periferie delle grandi città, in tutto ciò che costituisce un ampio gruppo che potremmo chiamare artivismo. Questa è la posizione che vede nella pandemia il segnale che il modello di civilizzazione che ha dominato nel mondo a partire dal XVI secolo è giunto al termine e che è necessario cominciare una transizione ad un altro o ad altri modelli civilizzatori.
Il modello attuale si basa sullo sfruttamento senza limiti della natura e degli esseri umani, nell’idea di una crescita economica infinita, nel primato dell’individualismo e della proprietà privata e nel secolarismo. Questo modello ha permesso impressionanti avanzamenti tecnologici, mentre ha concentrato i profitti in alcuni gruppi sociali, cosa che ha causato e legittimato l’esclusione di altri, di fatto la maggioranza, attraverso tre forme di dominazione: lo sfruttamento dei lavoratori (capitalismo), la legittimazione dei massacri e il saccheggio delle razze considerate inferiori, insieme all’appropriazione di risorse e conoscenze (colonialismo), infine il sessismo, legittimando la svalutazione del lavoro di cura delle donne e la violenza sistemica contro queste ultime nello spazio pubblico e domestico (patriarcato).
La pandemia, peggiorando queste disuguaglianze e discriminazioni, ha mostrato con maggiore evidenza che se non cambiamo il modello di civilizzazione nuove pandemie continueranno a vessare l’umanità e il danno che causeranno alla vita umana e non umana sarà incalcolabile. Dato che non si può cambiare da un giorno all’altro modello di civilizzazione è necessario cominciare a progettare le direttive della transizione. Da qui, il termine transizionismo.
A mio avviso, il transizionismo, nonostante sia una posizione attualmente minoritaria, è quella che sembra avere più futuro e portare meno disgrazia alla vita umana e non umana nel pianeta. Per questo motivo, merita maggiore attenzione. Partendo da questa posizione, possiamo prevedere l’entrata in un’era di transizione paradigmatica basata su varie transizioni. Le transizioni si producono quando una forma di vita dominante, individuale e collettiva, creata da un determinato sistema economico, sociale, politico e culturale, comincia a mostrare difficoltà crescenti alla sua stessa riproduzione, mentre al suo interno cominciano a germinare, sempre meno marginalmente, segni e pratiche che mirano a forme di vita altre, qualitativamente differenti.
L’idea di transizione è un’idea intensamente politica perché presuppone l’esistenza alternativa tra due orizzonti possibili, il distopico e l’utopico. Nell’ottica della transizione, non far niente, elemento caratterizzante del negazionismo, implica di fatto una transizione regressiva verso un futuro irreparabilmente distopico, un futuro nel quale tutti i malesseri o le disfunzioni del presente si intensificheranno e moltiplicheranno, un futuro senza futuro, poiché la vita umana risulterà impossibile, come di fatto lo è già per molti degli abitanti del nostro mondo.
Al contrario, la transizione guarda a un orizzonte utopico. Visto che l’utopia per definizione non può essere mai raggiunta, la transizione è potenzialmente infinita e non per questo meno urgente. Se non cominciamo subito, domani potrebbe essere troppo tardi, come ci avvertono gli studiosi del cambio climatico e del surriscaldamento terrestre o i contadini che stanno subendo i drammatici effetti dei fenomeni metereologici estremi. La caratteristica principale della transizione è che non si sa mai con certezza quando inizia e quando finisce. È probabile che il nostro tempo verrà visto in futuro diversamente dalla forma in cui oggi sosteniamo che abbia. Addirittura, la transizione potrebbe essere considerata come qualcosa già in corso e che incontra continui ostacoli.
L’altra caratteristica delle transizioni è che non sono particolarmente visibili a chi le sta vivendo. L’altra faccia della cecità con cui dobbiamo vivere il tempo della transizione è che si situa nell’invisibilità. Si tratta di una fase di prove e di errori, di passi avanti e contrattempi, di cambi persistenti ed effimeri, di mode e obsolescenze, di porte d’uscita travestite da entrate e viceversa. La transizione viene identificata solo dopo che è realmente occorsa.
Nel prossimo futuro, il negazionismo, il gattopardismo e il transizionismo si scontreranno e il conflitto sarà probabilmente meno pacifico e democratico di come ci piacerebbe avvenisse. Una cosa è certa: il tempo delle grandi transizioni è scritto sulla pelle del nostro tempo ed è molto probabile che contraddica il verso di Dante: «che saetta previsa viene più lenta». Stiamo osservando la saetta della catastrofe ecologica mentre sfreccia verso di noi. Viaggia così rapida che a volte sembra sia già conficcata nel nostro fianco. Se mai sarà possibile eliminarla, non sarà senza dolore.
[1] Si fa riferimento al testo del filosofo politico Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo, 2020, edizioni UTET).
[2] Ovvero un’epoca della storia dove lo sfruttamento del lavoro, umano e non umano, finalizzato all’accumulazione illimitata del capitale, ha creato una rottura irreparabile del equilibro del ecosistema planetario (per approfondire J. Moore, 2018 in Antropocene o Capitalocene, Ombre Corte
[3] Ad esempio gli studi che connettono le epidemie al sistemi agroalimentare industriale (vedi R. Wallace, 2016, in Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science quantity,) o le letture più recenti del Covid-19 come sindemia, ovvero come sintesi di un’interazioni tra diverse variabili biologiche, epidemiologiche e sociali di cui questo tempo è interprete (Vedi R. Horton 2020, in The Covid-19 catastrophe: What’s gone wrong and how to stop it happening again in Polity Press).
[4] vedi Agamben, Sul tempo che viene ed altri scritti del 2020 nel blog Quodilbet.
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