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Lotta per la casa a Pavia dopo la pandemia

L’Assemblea per il diritto alla casa di Pavia è un comitato di inquiline, inquilini e solidali che lotta sul territorio da dieci anni con picchetti, manifestazioni e diverse altre tipologie di iniziative, con l’obiettivo di conquistare migliori condizioni materiali di vita per le famiglie in lotta, in un’ottica di trasformazione dell’esistente.

Qui si vuole delineare un breve quadro della situazione abitativa e sociale della città, in particolare dopo l’ondata pandemica del 2020-21.

Lotta per la casa dentro la pandemia

A Pavia – città di poco meno di settantamila abitanti nel sud della Lombardia –, come in tutta Italia, gli sfratti sono stati bloccati in virtù delle norme anti-contagio (l’ultima proroga, com’è noto, è scaduta il 31 dicembre 2021): il blocco da un lato ha dato sollievo a centinaia di famiglie a rischio sloggio, dall’altro ha affastellato centinaia di procedure. L’assessore comunale alla casa, di Fratelli d’Italia, preannunciava, quasi con orgoglio, uno tsunami di sfratti dalla primavera 2021 senza, però adottare misure amministrative all’altezza della situazione, limitandosi infatti all’erogazione dei buoni spesa finanziati dallo stato e di difficile utilizzo. In questo periodo, le famiglie si sono organizzate per pretendere più assegnazioni di case e più contributi per le utenze e la spesa, prima andando a chiedere colloqui con assessore, ALER e servizi sociali in gruppo, poi con presidi davanti ai palazzi pubblici e una manifestazione cittadina. La risposta della controparte all’inizio è stata di chiusura totale anche al dialogo, con la scusa della pandemia; poi il tentativo è stato quello di scomporre la lotta collettiva con degli appuntamenti individuali, che non hanno portato a risultati concreti e che sono stati conditi da minacce da parte dei funzionari comunali. Nella primavera 2021 si è giunti a un tavolo di confronto con le istituzioni competenti, le quali hanno promesso per l’anno a venire un numero di assegnazioni poi non rispettato.

Nel frattempo, gli sfratti venivano sbloccati e da subito i padroni si sono dimostrati molto più agguerriti, quasi con la bava alla bocca, e anche ai picchetti ottenere dagli ufficiali giudiziari rinvii lunghi oltre i due mesi si è dimostrato più complicato. Ciononostante, l’ondata di esecuzioni non si è abbattuta sulla città con le caratteristiche apocalittiche descritte sopra: un po’ perché i tanti picchetti hanno rallentato la macchina giudiziaria, un po’ perché, anche a dire di alcuni funzionari del tribunale mentre sceglievano le date dei rinvii, gli ingranaggi si sono inceppati da soli, per le troppe procedure.

La situazione abitativa ad oggi

In ogni caso, la pandemia, come prevedibile, mietendo centinaia di posti di lavoro o comunque riducendo il reddito familiare di numerosi nuclei, ha generato altri sfratti, che si sono aggiunti a quelli pre-covid. La cosiddetta “emergenza abitativa” in cui versa Pavia si è dunque acuita: negli ultimi due anni Comune di Pavia e ALER hanno messo a disposizione una quantità di alloggi Sap (ex Erp) significativamente inferiore al periodo pre-pandemico, tramite tre bandi di assegnazione da 8, 32 e 38 unità abitative ciascuno, a fronte delle cento assegnazioni annuali del precedente triennio.

Oltretutto, la legge regionale approvata da Maroni nel 2016 e ormai in vigore introduce nuovi criteri per stabilire il punteggio, ad esempio eliminando la priorità per chi si trova sotto sfratto, dando maggior peso al periodo continuativo di residenza sul territorio comunale e penalizzando i nuclei familiari a basso reddito, cui spetta solamente una quota ridotta delle assegnazioni. Un ulteriore collo di bottiglia di questa normativa è anche rappresentato dall’operazione di scelta dell’alloggio che chi presenta la domanda è chiamato a fare: nello specifico della realtà pavese, negli ultimi bandi sono state incluse poche o nessuna casa adatta a cinque o più abitanti, penalizzando le famiglie numerose. L’obiettivo di ALER è profilare un tipo ideale di inquilino: single o con nucleo familiare piccolo e in grado di pagare canoni sempre abbastanza elevati.

La magra offerta di case popolari costringe le e gli inquilini a rivolgersi al mercato immobiliare privato che a Pavia, negli ultimi anni, sta diventando sempre più esoso e in certe zone inaccessibile a certi strati inferiori di classe. La vicinanza a Milano, che attira chi ci lavora e non può permettersi di affittare casa lì; la presenza dell’Università e quindi di una forte domanda di case per studenti, in genere in grado di offrire una garanzia tramite i genitori; infine, le poche assegnazioni di case popolari sono tutti fattori che contribuiscono a tenere alti i prezzi degli affitti. Si è venuta a generare una situazione per cui parecchi nuclei familiari venuti a contatto e poi organizzatisi nell’Assemblea, pur avendo una o più fonti di reddito, non riescono a coprire i costi dell’affitto – così arriva lo sfratto – o a stipulare un nuovo contratto di locazione, date le spropositate garanzie richieste. Questa componente di working poors è un aspetto nuovo nella composizione di classe dell’Assemblea rispetto al periodo precedente la pandemia e suggerisce che, in questo territorio, una parte dei lavori disponibili – in fin dei conti non così difficili da trovare – sono a paga bassa, o magari non a tempo pieno, comunque non sufficienti a sostenere il costo della vita che continua ad aumentare. Per le famiglie di origine straniera, si aggiunge alle altre difficoltà nel trovare casa il pregiudizio razziale di una buona parte di padroni e/o agenzie immobiliari.

Come le istituzioni garantiscono la rendita ai padroni

Una strategia a cui spesso si ricorre, specialmente in condizioni di sfratto, è l’accesso al contributo regionale per morosità incolpevole: si tratta di fondi pubblici richiesti dall’inquilino, ma erogati al padrone di casa, per ristorare il debito sui mesi d’affitto non pagati o per coprire caparra e primi canoni su un nuovo alloggio da reperire sul mercato privato. Questa misura è ambivalente poiché può rappresentare una soluzione a diverse situazioni di sfratto – soprattutto per consentire l’accesso ad un’altra casa, dato che tendenzialmente i padroni preferiscono l’esecuzione forzata al pagamento dei debiti – ma allo stesso modo costituisce un flusso di denaro pubblico che esce dalle tasche dei contribuenti per garantire la realizzazione della rendita, inceppatasi con l’insolvenza. Il contributo regionale, quindi, viene presentato come salvagente economico per inquiline e inquilini morosi, ma nella realtà dei fatti è la via privilegiata delle istituzioni per arricchire i padroni dopo la mazzata del Covid, non dando la casa popolare a chi ha lo sfratto. Ancora una volta, assegnare meno case significa più guadagni per i padroni.

C’è anche il Comune che opera non solo con il sopra citato assessorato alla casa, ma anche – in particolare nell’interfacciarsi con le inquiline e gli inquilini – tramite i servizi sociali, che agiscono come una vera e propria istituzione disciplinante, specialmente verso le famiglie sotto sfratto.
Sistematicamente gli assistenti sociali decidono chi può avere un alloggio e chi no, mentono sulla disponibilità reale di case popolari e, non ultimo, colpevolizzano la famiglia della situazione, arrivando a minacciare la separazione dai figli, se ci sono. Per questo l’importante, nelle relazioni con il Comune e i suoi funzionari, è capire e tenere ben presente qual è la loro funzione e il meccanismo che li muove: sono lì per educare e normalizzare chi decide di lottare, tentando sistematicamente di screditare il movimento per il diritto alla casa e offrendo soluzioni sempre inferiori alla condizione in cui si trova la famiglia, per tenere in pugno le inquiline e gli inquilini. Per questo, le trattative vengono condotte con il preciso obiettivo di spezzare questo gioco al ribasso e pretendere come unica soluzione praticabile l’assegnazione di una casa, ordinaria o transitoria.

Nella maggior parte dei casi alle famiglie sotto sfratto viene proposta come unica alternativa una stanza al Villaggio san Francesco, la struttura comunale originariamente concepita come ricovero temporaneo per senzatetto in cui tutte le giunte, dall’anno di costruzione (2009) ad oggi, spediscono chi è sotto sfratto. Le condizioni igieniche e strutturali di questo luogo sono al limite dell’umano: scarsa o nulla pulizia, parassiti, cibo deteriorato servito agli ospiti. Per due volte il Villaggio è salito agli onori della cronaca locale per il crollo di un cancello carraio guasto e mal riparato addosso a dei bambini che giocavano lì vicino. Chi rischia di finire in mezzo alla strada subisce pressioni e minacce per andare al Villaggio, nella speranza che un giorno ceda e diventi un problema in meno per l’amministrazione.

Chi lotta e come

Questa è la cornice in cui decine di famiglie, ora e nel corso degli anni passati, lottano per la propria dignità, prendendosi il diritto ad avere un tetto con determinazione. I picchetti sono tanti e, nell’ultimo periodo, è sempre presente la forza pubblica, sia quando l’intento è di eseguire, sia quando invece la situazione è più tranquilla. I momenti di lotta, davanti alle porte delle case o negli uffici del Comune e dell’ALER, assieme ai momenti di confronto, sono i passaggi fondamentali per ricomporre la frammentazione sociale che le istituzioni vogliono imporre dall’alto, con la forza o con metodi più subdoli, tesi a far cadere tutte le colpe sul singolo, per renderlo docile e obbediente. Il primo passo è proprio quello di ribaltare questa narrazione e rimandarla al mittente, e allo stesso tempo rifiutare il ruolo di vittime elemosinanti, indicando chi sono i responsabili della situazione abitativa in città e pretendendo una vita degna.

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