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La convergenza impossibile. Pandemia, classe operaia e movimenti ecologisti

Sono seduto a una lunga tavolata natalizia, circondato dal ramo materno dei miei familiari. Alla mia destra siede mio zio, il primogenito. Alla mia sinistra, a capotavola, mia zia, terza e ultima venuta, ormai oltre una cinquantina di anni fa. Mia madre, nata nel mezzo, sta all’altro capo del tavolo, e come molti altri familiari rimarrà sullo sfondo di questo racconto. 

di Erasmo Sossich, da Italia Monitor

A questa tavola sta per verificarsi, per causa mia, un’accesa discussione.

Mio zio, da tempi non sospetti, cerca di sensibilizzare la famiglia, il pubblico, le aziende, gli anziani, le istituzioni e la società civile sul tema del cambiamento climatico. Lavora per un ente di ricerca, spesso in smart working, e ha potuto frequentare la Bocconi grazie agli sforzi dei genitori, immigrati meridionali in bilico tra la classe operaia e una borghesia piccola piccola, così piccola che il salario di mia nonna, per anni, è stato destinato interamente a sostenere il suo percorso formativo.

Mia zia, in tempi ben più sospetti, ha cominciato a sensibilizzare la famiglia, il pubblico, le aziende, gli anziani, le istituzioni e la società civile sul pericolo delle reti 5G, del vaccino, della digitalizzazione, del Nuovo Ordine Mondiale. Lavora come operatrice socio-sanitaria in un ospedale di Trieste dopo aver rinunciato a portare a termine un percorso di formazione professionale più qualificante segnato da diverse interruzioni e tortuosi nuovi inizi.

Il primo è parte dell’esecutivo nazionale della Rete per la decrescita in Italia, non ha profili social e da anni mi segnala i nuovi articoli pubblicati su riviste ambientaliste e decresciste. La seconda è parte della galassia No Vax triestina, da anni mi segnala i nuovi video pubblicati da ByoBlu, e, dopo essersi sottratta alla censura di Zuckerberg, ha cominciato a condividere con me i contenuti di diversi canali Telegram e YouTube.

Ma siamo a Trieste, e mio zio, come altre migliaia di persone della sua generazione, è sceso in piazza con il movimento No Green Pass, e ha solidarizzato con chi, come mia zia, è stata discriminata e, nel mezzo di una pandemia mondiale, sospesa dal proprio posto di lavoro. L’affiliazione a mondi culturali antitetici è mitigata da una comune origine di classe e dall’appartenenza alla stessa coorte anagrafica. Per queste e altre ragioni mio zio non può credere che mia zia possa essere una negazionista climatica. Per questo, o forse per affetto, o forse perché sono trent’anni che ogni Natale prova a portare il discorso a tavola, dopo almeno un paio di tartine ma prima di aver cominciato con i piatti forti. O forse per paternalismo.

Io, al contrario, sono quasi certo che mia zia sia una negazionista climatica, perché ho sentito mille volte i discorsi che girano nella classe operaia di Trieste e nel movimento No Green Pass. Conosco la sua espressione indipendentista, maschile, positivista e lavorista, agitata nei baretti dove si affollano operai, disoccupati e pensionati alcolizzati. Conosco la sua espressione spiritualista, new age e anti-sistema, animata da progetti eco-comunitari e fantasie di eco-villaggi, più educata e femminile, ma non per questo meno essenzialista nel definire la naturalità dei ruoli di genere e dei rapporti sociali naturalizzati insieme a essi. Tutti sono No Vax, e tutti sono negazionisti. E tutti vedono nella transizione ecologica, nella digitalizzazione, nella gestione della pandemia, nella guerra in Ucraina, l’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Chi non la pensa così, sempre che ci sia, al bar rimane in silenzio.

Ma mio zio non frequenta i bar. E dopo qualche frase sul tema, lo interrompo e lo dico. Faccio la spia, o forse il megafono, e lo dico: «Ma mia zia non ci crede al cambiamento climatico, vero zia?».

Mio zio, per un istante, non si muove. Rimane curvo sul tavolo, sul piatto su cui aveva concentrato lo sguardo. Poi, lentamente, alza gli occhi. Con un filo di voce, dice: «Come non ci credi?».

Non so perché l’ho fatto. Forse per il gusto di creare entropia. Forse per la stessa ragione per cui scrivo questo articolo. Forse perché sono un dottorando di trent’anni che pubblica articoli “scientifici” e non crede alla scienza. Forse perché sono stufo, stufo marcio, di sentire parlare di convergenza tra movimenti climatici e classe operaia senza che nessuno abbia il coraggio di dire che questa convergenza è impossibile. Che mancano i presupposti. Che parliamo lingue diverse. Che nel “movimento” il nostro classismo è talmente pervadente che snobbiamo l’altra faccia della luna etichettandola come complottismo. Che il nostro classismo convive con una completa dissociazione rispetto ai nostri ideali di rivoluzione proletaria, facendo convivere aspirazioni libertarie a distopiche avanguardie illuminate convinte di potersi porre alla guida del paese senza esserne parte. 

Forse perché ho voluto riversare su mio zio tutta la rabbia che provo verso me stesso, parte di un collettivo ecologista, e verso tutto il movimento, per aver lasciato sola mia zia, mio padre, e tutti quelli che sono stati sospesi e licenziati per non essersi vaccinati e tamponati, e tutti quelli con la terza media e senza una rendita che dopo la pandemia sono rimasti semplicemente fottuti, senza un lavoro, senza un reddito, senza più la possibilità di essere reintegrati, superati dalla storia dopo essere stati spolpati di ogni goccia di sudore e lavoro per i precedenti quarant’anni.

«Beh, ecco… dai… è sempre la stessa cosa, no? Emergenza clima, emergenza sanitaria… Crisi di qua, crisi di là… E poi sono sempre loro a risolvere tutto, e la soluzione è sempre fotterci tutti! Voilà! Green Pass, carta d’identità digitale, rincari della benzina e auto elettriche…e tutti gli altri a casa o a piedi… lo vedi subito: se è green, è una fregatura».

Mia zia è una che non ha paura di niente, ma per la prima volta la vedo titubare nel difendere la propria posizione. Vuole bene a suo fratello, forse non vuole ferirlo svilendo la causa per cui l’ha visto spendersi per tutta la vita? Oppure ha paura di essere umiliata? Se così fosse fa bene, perché noi non sappiamo fare altro.

La dissociazione è troppo forte, anche dentro di me. Il momento di verità è passato, mi dimentico da dove vengo, ha ripreso il controllo il buon senso, ha ripreso il controllo il dottorando: insieme a mio zio mi metto a spiegare a mia zia perché negare il cambiamento climatico è contro i suoi interessi, e che la pandemia va compresa come parte di una più ampia crisi ecologica i cui picchi si danno ogni giorno su diverse scale e temporalità.

«ll problema è la gestione della crisi ecologica, zia! E la crisi ecologica è strutturale, connaturata nel rapporto di produzione capitalistico! La vediamo estendersi fino ai quattro angoli del globo, e magari durare anni e anni, come nel caso della pandemia. Il vero problema, per la pandemia come per il cambiamento climatico, è che le risposte a queste crisi sono sempre illusorie soluzioni tecno-scientifiche abbinate allo stato di emergenza! I ragazzi che scendono in piazza contro il climate change e il movimento No Green Pass hanno gli stessi obiettivi! Dobbiamo lottare uniti contro la falsa transizione ecologica per una rivoluzione ecologica, o almeno una transizione giusta. In realtà diciamo tutti le stesse cose! E solo noi possiamo essere i tuoi alleati, noi giovani attivisti climatici e noi intellettuali illuminati che capiamo la tua rabbia!».

Operai e studenti uniti nella lotta. Una barca di stronzate.

«Nipote… ma non lo vedi come adesso tutto è smart? Tutto è green? Così green che nei campi ormai invece del mais ci mettono i pannelli solari? Il problema, nipote, è che in molti non possono più davvero accettarlo, che lì, al governo, siano dei farabutti. Li hanno presi in giro per chissà quanti anni… tutti a seguire Bruxelles… e più in alto, ovviamente, gli Stati Uniti. Tutti dietro come pecore verso il “grande reset”, il grande cambiamento, la transizione! E cosa volevano cambiare, ci chiedevamo noi, popolino… ma la nostra vita, no? Se ne parlava già nel 2018, poi è arrivato il Covid e ci hanno blindato in casa. Quello è stato il primo grande passo. E appena è finito quello, hanno rilanciato con la terza guerra mondiale. E poi vedremo cosa si inventeranno… e di nuovo diranno che siamo dei complottisti, che siamo negazionisti… Ma lo sai cosa diceva un articolo che ho letto l’altro giorno su Repubblica? Che negli ultimi due anni i telegiornali hanno perso un altro mezzo milione di spettatori. Si chiedevano perché e si lamentavano del fatto che in Italia siamo sempre più disinformati… Non possono davvero accettare che sempre più gente abbia smesso di credere alle loro balle. Non si tratta di essere negazionisti, o complottisti: tutt’altro! Si tratta di non avere più fiducia in loro! Comunque la ruota gira, è sempre girata. È la natura, l’unica cosa in cui credo. E questi credono di poterla girare come vogliono loro? Non credo, non credo proprio che gli andrà così bene».

 *     *     * 

Nel maggio 2023 presi parte a una presentazione di Zapruder, una rivista di approfondimento sociale e politico; era un numero dedicato ai conflitti ambientali e a un certo punto, nella discussione, si finì a parlare della difficoltà, oggi, di lottare come si era fatto un tempo contro le nocività industriali, in difesa della salute delle nostre comunità; e dell’assenza, a oggi, di movimenti radicali capaci di porre una rigidità e di rifiutare il ricatto salute-lavoro.

Mi arrivò allo stomaco come un pugno. I miei compagni non si erano accorti di cosa era successo a mio padre, a mia zia? di cosa era riuscita a inventarsi mia madre pur di sottrarsi al vaccino? di cosa era successo a Trieste, al porto, e ogni sabato, per mesi, in piazza Castello, a Torino? delle centinaia di migliaia di lavoratori che avevano preferito farsi sospendere pur di non cedere al ricatto giocato sul proprio corpo?

A me non stupisce affatto che sia la generazione che ha vissuto lo scandalo dell’amianto, e di Chernobyl, ad aver rifiutato in massa il vaccino. Tutte cose sicure, l’asbesto e il nucleare. Lo dice il governo, e lo conferma l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. E non mi stupisce nemmeno che Fridays for Future e Greta Thunberg non abbiano lottato contro il Green Pass, che poi c’era solo in Italia per come lo abbiamo conosciuto. Non mi stupisce perché il movimento climatico è oggi animato da una composizione estremamente giovane, priva della memoria storica delle proprie stesse categorie, frutto di una storia di mobilitazioni a lungo indirizzate, o cooptate, nel tentativo di negoziare una transizione giusta tra governi, COP e protocolli internazionali. L’ecologia non è una panacea, e nemmeno un sapere neutro: è un terreno di scontro ideologico, e non posso prendermela con i giovani ecologisti di oggi quando accademia, think tank, imprese e governi liberali hanno fatto del green washing il paradigma alla base della loro comunicazione, e sono riusciti in larga parte a occupare questo spazio discorsivo.

I governi sono stati in grado di manipolare quella stessa fiducia nella scienza, mista a senso di responsabilità collettiva, che anima l’eco-ansia e il movimento climatico, e come posso stupirmi se le centinaia di migliaia di studentesse e studenti che avevano riempito le piazze del 2019 hanno ritenuto che vaccinarsi fosse la cosa giusta e hanno accettato la narrazione per cui i No Green Pass erano tutti trumpiani, irrazionali, irresponsabili? D’altronde, contrapporre ambientalisti e lavoratori è il trucco ben sperimentato su cui si sono basati gli ultimi trent’anni di “capitalismo verde”. Prendersela con gli uni o con gli altri non ha mai risolto nulla. Ma gli ecologisti radicali, noi delle lotte contro le nocività, noi dei collettivi antinucleari, noi delle lotte territoriali, dove eravamo? E dove eravamo noi, che fino al giorno prima ci esaltavamo per i Gilet Jaunes?

Eravamo in teleconferenza a parlare di convergenza, cura e intersezionalità. Parlavamo di cura, mentre fuori dalle nostre camerette centinaia di migliaia di persone perdevano il lavoro nel nome della salute collettiva. Parlavamo di intersezionalità e non vedevamo come la pandemia stava colpendo ciascun gruppo sociale secondo una logica differenziale, andando a esasperare proprio quelle stesse contraddizioni di classe, di genere e razza su cui concentravamo il nostro sguardo. Parlavamo di convergenza e non potevamo credere che fossero i portuali a guidare le manifestazioni a Trieste, il Si Cobas a difendere i lavoratori sospesi alla Pirelli, la Cub a difendere i sanitari, la Gkn a solidarizzare con i lavoratori sospesi in tutta Italia. Vedevamo solo quattro fasci di merda a Roma prendersi lo spazio dove saremmo dovuti essere noi, a ribaltare la sede della Cgil. Quattro fascisti che, per l’ennesima volta, si sono presi la scena e hanno vinto la partita dei padroni, assicurandosi che ogni dissenso fosse criminalizzato.

Guardavamo il dito dimenticando la luna. E intanto, lasciando isolate le lotte di questi lavoratori, chissà se non ne abbiamo impedito la loro generalizzazione. Chissà se così facendo ci siamo giocati proprio quell’opportunità che stavamo aspettando dal 15 ottobre 2011. Chissà se ci siamo giocati l’opportunità che ci fossero dieci, cento, mille occupazioni del porto di Trieste. Eppure, “fare come a Trieste” non lo ha mai detto nessuno. Ma forse, di questi tempi, è già buono che ci sia chi ancora dice che bisogna fare “come in Francia”, o “come in Val Susa”.

Forse avevamo bisogno di tempo. C’era troppa paura e troppa rabbia a dividerci, e il movimento climatico era troppo giovane. In fondo, era già tanto che nel corso del 2019 Fridays For Future fosse passata dal chiedere un generico cambiamento ad accusare il fallimento strutturale delle élite e delle politiche di transizione. Ed era troppo presto per riuscire ad allargare il campo. Eppure siamo a gennaio 2024, a quasi quattro anni dall’inizio dello stato di emergenza sanitaria, a cinque anni dall’esplosione dei movimenti per la giustizia climatica. E cosa resta, oggi, della pandemia?

Ciascuno di noi, individualmente, ha dovuto fare i conti con questa esperienza, nelle sue diverse fasi. Ognuno di noi ha portato avanti una propria elaborazione. Eppure in pochi, o forse nessuno, può dirsi soddisfatto di tale processo. Come sospese nel vuoto, le esperienze individuali rimangono ancora oggi incapaci di aggrapparsi alla realtà, e le memorie vanno svanendo senza potersi fare ingranaggio collettivo.

Nonostante gli sforzi di ciascuno, la pandemia rimane un enorme rimosso. Niente sarà più come prima, si diceva, e sotto molti punti di vista è davvero andata così. Eppure, basta ritirare fuori l’argomento che chi l’ha vissuto da una certa parte della barricata non può, ancora oggi, non incazzarsi. Questi miei stessi toni, questa mia rabbia, non servono a niente. Eppure solo nella rabbia trovo la forza di scrivere, la lucidità necessaria all’autocritica. Il movimento No Green Pass è stato una lotta contro la nocività, e noi ecologisti non ce ne siamo accorti. Detto in poche parole, non è mia zia il problema: il problema siamo io e mio zio.

La cosa buona è che mia zia è parte della maggioranza, e la classe operaia, nonostante la presa di distanza da parte della sua pretesa avanguardia, ha continuato, in autonomia, a fare quanto riteneva giusto.

La cosa cattiva è che noi siamo indispensabili. O meglio, non siamo indispensabili noi, ma è indispensabile rompere l’isolamento in cui oggi si esprime il conflitto della classe lavoratrice, e connettere quanto succede nelle fabbriche, nei servizi e nelle dozzine di forme che assume oggi il lavoro vivo, con quanto succede nei quartieri popolari, dentro le nostre case, nelle carceri, negli ospedali, nei campi profughi. La cosa cattiva è che non ci sono spazi sociali dove questa composizione possa intrecciare legami in assenza di organizzazioni di sintesi, né modelli di militanza capaci di rispondere a queste sfide, soggettività contemporaneamente interne alla classe e capaci di assumersi questa responsabilità. Ma se non a noi, a chi spetta questo compito?

Nelle settimane che hanno seguito il cenone mia zia e mio zio si sono visti quasi ogni giorno. Mio nonno è molto anziano, non sta bene, e sono loro a caricarsi addosso buona parte del lavoro di cura. Abbiamo un gruppo Whatsapp dove condividiamo preoccupazioni, fotografie, video, battute. Non discutiamo di cambiamento climatico o di pandemia. Perché, in fin dei conti, non è il progetto ideologico a creare e dare forza alle comunità umane, ma la capacità di prendersi cura gli uni degli altri, la responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri, la volontà di non lasciare indietro nessuno. Sono queste volontà e queste capacità a rendere possibile il cambiamento, a livello interpersonale quanto a livello politico. E questo carattere non è proprio delle sole comunità familiari. “Η αλληλεγγύη, το όπλο των λαών” recita uno dei cori di lotta più popolari in Grecia: “La solidarietà è l’arma del popolo”, e di tutti i movimenti, di tutti i collettivi, di ogni comunità in lotta. Fino a quando non avremo trovato nuove parole, fino a quando non avremo sviluppato un progetto politico all’altezza della sfida, ripartiamo da qui. (erasmo sossich)

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