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Turismo, l’industria del divertimento – I forzati dell’ozio

Con lo sviluppo dell’industria turistica, la dinamica emancipatrice delle ferie, introdotte in Francia nel 1936 dal Fronte Popolare, si attenua a vantaggio del recupero del tempo libero attraverso il produttivismo commerciale. Perché il turismo non sfugge alla commercializzazione del mondo: sedurre il vacanziere, trattenerlo e spingerlo per quanto possibile a spendere, questo è ormai l’obiettivo. Si realizza così una realtà parallela, chiusa e segregazionista, che lo rinchiude in circuiti molto selettivi, impedendo ogni commistione con la gente del luogo, e che si cristallizza in modo esemplare in luoghi-feticci chiamati “parchi”. Nel migliore o nel peggiore dei casi, ci si può così ritrovare “parcheggiati” a Venezia o in una zona di montagna dove ci diranno dove dormire, dove camminare e come ci dobbiamo comportare di fronte a un orso abituato a frugare tra i rifiuti.

Il “parco” appare come la formula ideale dello spazio riservato, dove vivere bene diventa – finalmente – possibile. “Qui si inventa un’altra vita”, si legge sul sito internet della Federazione dei parchi naturali regionali (Pnr) di Francia. I Pnr sono l’illustrazione perfetta di territori che lasciano pensare che al loro interno di svolga, “spontaneamente”, “autenticamente”, qualcosa di diverso, mentre sono, anch’essi, funzionalizzati e normati a fini produttivi. Un disegno di Gébé nel suo fumetto L’An 01, pubblicato in serie a partire dal 1970, illustra la portata di questo ordine geografico rappresentando una nazione come uno spazio strettamente compartimentato nel quale “strada delle vacanze” e “spiaggia privata” sono al fianco di “zona industriale”, “zona militare”, “riserva di caccia”, “vietato calpestare il prato” e “agricoltura chimica” (1)…

E’ la connotazione positiva attribuita alla differenza, che crea attrazione per l’altrove ricreativo. In virtù della quale, il qui urbano presta all’altrove “naturale” un ventaglio quasi infinito di rappresentazioni e di virtù antitetiche alla condizione cittadina e ai fastidi che le sono associati: alienazione professionale, difficoltà economiche, controllo sociale, ingorghi, fallimenti urbanistici, inquinamento, rumore, insicurezza, tempo compresso, incomunicabilità nei rapporti sociali… Da questo momento, l’immaginario turistico può ridursi a argomento pubblicitario per vendere: “Dovete persuadere i clienti indecisi che le dune sono l’opposto dello stress urbano, una cura di pacificazione psicologica: silenzio, lentezza del viaggio a dorso di dromedario e linee pure”. (L’Echo touristique, 2006). Da questo momento, il “diritto al viaggio” potrà essere null’altro che uno slogan commerciale – all’occorrenza, quello di un operatore turistico – eliminando qualsiasi idea di emancipazione sociale e culturale.

Un’evoluzione che va di paripasso con la banalizzazione dei riferimenti alle stazioni turistiche come “fabbriche di sogni”. Si ritrova allora la prospettiva dell’industria culturale hollywoodiana del divertimento. Oltre al bisogno ossessivo di legittimare l’aspetto serio dell’attività turistica, sottolineandone il carattere industriale, la facilità di linguaggio conforta il suo ruolo di portabandieradi una globalizzazione ludica, fattore della “liberalizzazione dal volto umano” e vettore dell’ “ordine turistico mondiale”, come problamava l’Organizzazione mondiale del turismo (2).

Eppure, il mito del turismo come fattore di progresso è ormai tramontato, così come la rappresentazione di un turista inconsapevole, bonario ed egocentrico. La crisi è globale: energetica, climatica, demografica, securitaria, sanitaria, identitaria. Un senso di responsabilità se non di colpa, si fa strada e si traduce in comportamenti sempre meno marginali: rinuncia al turismo o a certe sue forme, ricerca di pretesti professionali, militanti o umanitari per viaggiare senza sentirsi “turista”, ripiego su pratiche ricreative urbane o nelle vicinanze, o ancora scelta di vivere tutto l’anno in un luogo di vacanze… Anche l’eliotropismo – la ricerca sfrenata del sole – che ha caratterizzato l’immaginario delle vacanze nel XX secolo non é più quello di un tempo, tanto la protezione dal sole è diventata una questione di sanità pubblica, di fronte al rischio di melanoma maligno. Il “dimentico tutto” della famiglia Bidochon in vacanza è ancora valido, dal momento che l’essere o meno un turista appare come una questione esistenziale?

La crisi identitaria del turista occidentale – che si suppone in mancanza di studi sull’argomento, riguardi prima di tutto una frazione minoritaria delle classi medie, bloccata in un atteggiamento di diffidenza nei confronti del consumismo e delle sue capacità predatorie – si manifesta quando quest’ultimo non può e non vuole più considerarsi come tale. Pretende di decentrare la sua posizione e il suo sguardo rispetto alle società visitate, cercando di accedere a una visione dall’interno del paese frequentato, ricercando relazioni e mediazioni diverse da quelle indotte dalla coppia visitatore-visitato o cliente-venditore. Da potenziale voyeur, l’aspirante non-turista spera di raggiungere lo stadio di testimone che compie un atto di civiltà. Allo stesso modo, rifiutando di essere un semplice consumatore potrà sentirsi invitato, come nel caso del turismo partecipativo. Il couchsurfing, rete internazionale di gente che offre e domanda un letto per la notte, e i greeters, volontari che accolgono visitatori, scommettono sull’ospitalità, lo scambio e la gratuità.

Da un quarto di secolo, molti tentativi di reinventare il turismo, rinnovarne il senso e le pratiche, accompagnano la presa di coscienza del suo impatto sull’ambiente e sulle società, cercando di superare o integrare le critiche di cui è oggetto. Questi progetti riformistici prendono il nome di ecoturismo, turismo sostenibile, solidale, responsabile, etico, equo…La loro ultima trasformazione, il turismo umanitario, si espone a riprodurre tutte le ambiguità delle due azioni che pretendi di associare: vedere e salvare il mondo. Il che non gli impedisce – anzi…- di essere destinato a un bell’avvenire. Il contributo di queste iniziative, in alcuni casi sincere e rispettabili, in altri opportunistiche, non deve essere trascurato. Anche se la loro definizione e le pratiche concrete sono oggetto di un’indeterminatezza che consente scorciatoie permanenti, o miscellanee tra altruismo e diversità: “Evitate i turisti, con un viaggio al 100% responsabile in Vietnam” proponeva una trasmissione di France Inter nel gennaio 2010, spiegando come “navigare controcorrente” per aggirare il turismo di massa nella baia di Along.

Rifiutando la rottura tra quotidiano e non-quotidiano, sperimentando soluzioni per restituire fascino ai tempi e ai luoghi più comuni a partire da un progetto politico, i situazionisti hanno gettato le basi di un’abolizione del turismo basata sul superamento della rottura compensatoria tra il qui e l’altrove, tra lavoro e tempo libero. L’arte della deriva psicogeografica cara a Guy Debord mirava al rovesciamento percettivo del quotidiano grazie all’esplorazione itinerante – e questa cominciava dal qui. Si trattava di saggiare la realtà in maniera inedita, al di fuori di qualsiasi schema funzionale dettato dall’utilità socioeconomica. Il poetico si univa esplicitamente al politico. Il progetto resta di attualità, e suggerisce che. Al di là di un ragionamento limitato alla ricerca di turismi diversi, è anche possibile pensare in termini di abbandono del turismo.

Lontana dal semplice anticonformismo, questa posizione radicale si mette in pratica nell’ordinario del quotidiano: tournée di musicisti dilettanti, percorsi esistenziali o militanti, stage artigianali, cantieri cooperativi, esperienze di volontariato…Altrettanti usi dello spazio e del tempo che, pur vivendosi come avventure personali, si affrancano dai codici, dai comportamenti e dai luoghi propri del turismo per giocare su combinazioni di registri relazionali, esistenziali, artistici, manuali, intellettuali, geografici e temporali. Qui le regole e le forme del turismo sono ignorate, evitate, dimenticate o negate.

Mentre molti decenni di rituali conformistici hanno usurato il mito emancipatore delle vacanze, un dopo-turismo resta da inventare. Tenendo a mente l’equazione utopica di Ernst Bloch “tempo libero = spazi liberi” (3).

 

Note:

(1) Gébé, L’An 01, L’Association, coll. “Eperluette”, Parigi, 2000

(2) “Codici mondiale di etica del turismo”. Organizzazione mondiale del turismo 1999

(3) Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005 (2 edizione).

(Traduzione G.P.)

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