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Un curdo assimilato, tra Gezi Park e il Rojava

 

Prima mi dicevi del tuo essere un “curdo assimilato”… Cosa significa questo, politicamente? E che rapporto ha con la “questione curda” in questo preciso momento?

Significa che se io sono un curdo che rifiuta di vivere nella propria terra e decido di vivere in Turchia, ho due opzioni. La prima: non parto e resisto, aumento le possibilità di essere ucciso. La seconda: vivo in esilio. E quando dico esilio, non intendo andare fuori dalla Turchia, in Svezia o in Europa… intendo anche solo andare a vivere in una grande città, come Istanbul. La mia assimilazione comincia nel momento in cui un curdo sceglie di non restare a casa ed andare nella grande città cercando di farsi una vita lì.

È la tua storia?

Non è la mia storia in particolare, è una storia generale nel processo di assimilazione. Cosa significa questo per me? Primo, che la lingua curda, che è alla base del movimento curdo, non è la mia lingua. E come dice un proverbio curdo, “senza lingua, non c’è vita”. Possiamo fare un paragone con la vicenda Irlandese. L’Ira organizzava la sua gioventù attraverso l’aggregazione degli sport gaelici. I giovani irlandesi che non giocavano a calcio, iniziavamo a giocare a rugby dove i leader parlavano gaelico e questi ragazzi diventavano in seguito membri dell’Ira. Il corollario di questa esperienza per il movimento curdo è la lingua. Non hanno sport particolari ma hanno la lingua. Chi parla la lingua curda è un antagonista potenziale [dello stato turco] che può essere organizzato nel movimento. L’oppressore (lo Stato, l’Esercito) conosce questa dinamica, ha capito molto presto l’importanza della lingua: se togli al curdo la sua lingua, gli togli la possibilità di organizzarsi. Quindi, quando dico che sono un “assimilato”, non significa che ho dimenticato la mia identità di curdo, ma che sono stato separato dalla mia lingua e quindi impossibilitato a contribuire al movimento antagonista curdo, non potendo parlare la mia lingua.

 

Quello che stai dicendo mi sembra tocchi un punto cruciale, per questo tipo di lotte che si battono per l’autodeterminazione, per popoli come quello curdo. Nel tuo discorso mi sembra venga assunto qualcosa come, non direi tanto una critica, quanto piuttosto un contenuto di complessità e contraddizione in casi come il tuo, nel loro relazionarsi a questo tipo di lotte. Come si relaziona tutto questo con la nuova fase inaugurata dal movimento curdo, dove si afferma: non c’interessa più perseguire un’autonomia nazionale, statale ma proponiamo il “confederalismo democratico”. Che relazione c’è? Sembrerebbe che questa nuova strada porti delle possibilità nuove di potenziamento [empowering] della lotta curda…

Credo che la parola che hai usato, “empowerment”, sia quella giusta. Perché se pensiamo che il Pkk fosse nella posizione di creare uno stato-nazione, con dei confini precisi che lo separano da un’altro stato, probabilmente – qualunque cosa succeda – io non sarei in grado di partecipare, sentirmi coinvolto in questa lotta. Perché i confini continuano a essere qualcosa contro cui mi batto.

Secondo te quanto questa posizione è stata realmente assunta dal movimento curdo nel suo insieme? O permane piuttosto il rischio di un ritorno a una posizione più nazionale, dove gente come te – anche se non detto – viene percepita come “non completamente curda” o come “curdi di serie B”?

Non penso ci siano più rischi in questa direzione, perché c’è già un esempio storico di una vasta area curda con frontiere, il nord dell’Irak. Da quella esperienza, oggi, curdi come me – gli assimilati delle grandi metropoli – sanno bene che l’istituzione di un “libero stato del Kurdistan” definito dalle frontiere non aiuterebbe il movimento, aiuterebbe solo il capitalismo ad allargarsi. Un Kurdistan con le frontiere non aiuterebbe la gente come me, perché quei confini imporrebbero a me un passaporto per entrare in quelle terre mentre il Capitale entrerebbe liberamente. Quindi la nuova ricerca del movimento curdo, di un confederalismo democratico oltre lo stato-nazione, è più interessante per me.

Pensi quindi davvero che questa sia un assunto politico, un punto politico di non-ritorno per il movimento curdo?

Non penso che si sia intrapresa una strada senza possibilità di ritorno indietro – può esserlo – ma penso sia oggi una realtà in costruzione. In ogni caso, anche se sarà un errore, è un errore che va fatto, perché consisterà comunque di un’esperienza.

Tutto questo mi ricordo un testo degli anni ’80, che lessi tempo fa, credo di Félix Guattari. Ragionando sul riemergere potente di queste lotte per l’autonomia territoriale in quel decennio, baschi, corsi, nord-irlandesi, l’Intifada palestinese, scriveva: tutte queste lotte sono interessanti perché portano processi di soggettivazioni differenti dentro la sfera dello stato-nazione, della Repubblica… ma allo stesso tempo si domandava: “cosa possiamo fare noi, noi che non abbiamo la fortuna (o la sfortuna) di essere baschi, corsi, palestinesi ecc…?”.

E proprio questo il punto!

Cosa sta succedendo ora nel Rojava, sinteticamente?

La cosa più visibile oggi è il movimento delle donne. il 70 % delle milizie del Rojava è composto di donne. Non credo sia solo una coincidenza che Ocalan abbia detto “non ci sarà liberazione del Kurdistan se non ci sarà liberazione delle donne curde”. Perché come nel mio caso, ma la cosa ha un valore più generale, la lingua la apprendi dalla madre, non dal padre. Per cui, se le donne arrivano definire la loro posizione altrimenti che dall’essere-madri o l’essere-mogli, vuol dire che qui sta davvero succedendo qualcosa. Il Rojava rappresenta quindi per me una prova evidente di questa teoria, perché le donne entrano nelle milizie non perché vogliono combattere ma perché odiano la loro vita domestica, la condizioni di vita dettate loro in quanto donne.

Josef: Apro una parentesi come traduttore: una compagna è andata a Lice a fare un’inchiesta fra le donne, subito dopo il processo di pace tra Pkk e Akp e ha chiesto loro: “Adesso che è andata via la guerriglia, cosa pensate?”. E loro le han risposto: “Gli uomini sono andati via… Ok! Questo lo possiamo capire, però che siano andate via anche le donne guerrigliere questo non è bene, perché quando avevamo problemi coi mariti, loro scendevano dalle montagne e li prendevano per le orecchie. Avevano una funzione molto importante per noi, in questi paesi”.

 

***

Che peso hanno avuto i social media nella rivolta di Gezi e nelle altre esperienze politiche?

Penso che la cosa abbia avuto grande rilevanza, non solo per il movimento curdo ma anche per quello che è successo con le cosiddette “primavere arabe”. È evidente che questi possono anche essere potenti mezzi per organizzarsi. Perché in tanti contesti la gente non ha degli spazi propri. La differenza tra noi nella Turchia occidentale o quello che avviene nelle zone curde è che noi non abbiamo spazi per organizzarci, come magari avete invece coi qui con i centri sociali, le occupazioni… Considerando la censura operante nel media mainstream nel nostro paese, quando abbiamo scoperto i social media abbiamo scoperto un luogo in cui potevamo comunicare senza la censura, senza mediazioni. Per farvi un altro esempio: se io, come giovane curdo, guardavo Roj TV, un canale curdo che trasmette in Norvegia, io potevo vedere sia i dibattiti in studio, che facevano lì sulla situazione in Kurdistan, oppure Kandil, ma io non sto in nessuno di questi posti…
Se una giornalista venisse a Roboski, Uludere, a fare un’intervista con me, verrebbe subito arrestata. Così quando è arrivato Facebook e gli altri social media, abbiamo potuto comunicare direttamente tra persone, non solo tra uno che stava a Kandil e un altra che stava in Europa, ma tra noi qui dei diversi territori curdi.

 

Un’anno e mezzo dopo le manifestazioni per Gezi Park, cosa resta in Turchia, a Istanbul di questa esperienza?

I forum (le assemblee pubbliche), le occupazioni, una nuova idea di politica per i partiti comunisti e di sinistra: l’opposizione ai grandi progetti [grandi opere] e la lotta in difesa dei commons. Probabilmente molte altre cose che a me sono sfuggite ma che esistono, nuove potenzialità che devono ancora materializzarsi. Tutte queste nuove esperienze, tutte queste potenzialità, hanno modo di scoprirsi e conoscersi meglio, per trovare un modo di unificarsi contro il nemico comune.

Sono a tutt’oggi esperienze vive, quotidiane, settimanali?

Sì, non solo settimanali, quotidiane o mensili, sono delle esperienze in divenire. Sono un’esperienza vera e importante. All’inizio – allo scoppio di Gezi – erano partecipate da tantissima gente, diverse centinaia, in cui si discuteva di tutto, anche di stronzate; adesso, col tempo, i partecipanti sono magari diminuiti ma le cose di cui si discute sono più profonde e concrete.

Ci sono o ci sono state nell’ultimo anno, manifestazioni o prese di parole pubbliche contro le responsabilità dello stato turco nella guerra che si combatte ai suoi confini, in Siria?

Molte, in parte dovute anche al fatto dell’aumento improvviso dei profughi, si parla di 1 milione e mezzo di persone ed è una stima minima. Quando la guerra iniziò e ci furono i primi profughi, essi erano soprattutto concentrati nel sud-est. Ora, dopo tre anni, non potendo garantirsi la sopravvivenza nel sud-est, i profughi hanno cominciato ad emigrare verso le grandi città, a Istanbul, Smirne ed Ankara. Ora nella parte vecchia di Istanbul, non si vedono più homeless ma siriani. Quello che sto cercando di dire è che quando stavano nel sud-est non erano così visibili, ora ci vivi accanto. Prima non li vedevi, non ti preoccupavi di loro. Adesso, quando giri per le strade di Istanbul e vedi una ragazzina di 6 anni che fa l’elemosina, la tua relazione con loro cambia. Ci sono state anche manifestazioni. Me ne ricordo una, prima di Gezi, in cui 800.000 persone hanno marciato nella capitale contro la guerra in Siria. Ce ne sono state anche nella zona curda, lì lo slogan era “Non vogliamo un altro nord-Iraq!”

 

Prima facevi accenno al movimento ecologista…

Il movimento ambientalista ha un legame organico particolare col movimento curdo perché l’ecologia e la relazione che i curdi hanno con la natura giocano un ruolo immenso nell’identità curda. La forma relazionale che i curdi formano con le montagne e il suolo è completamente diversa da quella che abbiamo in Occidente. Per fare un esempio, in Gezi Park volevano costruire un centro commerciale… se anche verrà infine costruito questo non mi ammazza. In Kurdistan, la costruzione di una centrale/diga idro-elettrica presso una fonte d’acqua, o se il suolo è privatizzato, la gente muore o va in esilio. Quindi la natura gioca un ruolo di vita o di morte. Per questo ha grande importanza nell’identità curda. Per questo credo che Ocalan abbia preso tanto da Bookchin, sui temi dell’ecologia e della de-centralizzazione. Questo ha un ruolo molto importante nel movimento curdo.

Un altro esempio: quando scoppiò Gezi, la gente saliva sugli alberi e montava le tende. Ma quando la polizia caricava, scappavano. In Kurdistan, se vogliono costruire una nuova centrale termica su un suolo agricolo, i curdi bruciano subito i cantieri. Polizia e militari sparano direttamente sulla gente. Perché per un curdo è uguale morire per un proiettile e per gli effetti della costruzione di una centrale termica sulle loro terre.

 

C’è oggi una ricerca dell’identità originaria dell’essere curdi…?

Prima del 1999, questa era l’obiettivo del movimento curdo, la ricerca di un’identità basata sull’unicità dell’essere curdi. Quando leggi i testi di Ocalan dell’epoca, erano molto intrisi di sciamanismo, vecchie religioni mediorientali politeiste, nell’ottica di definire l’essenza dell’identità curda. Quando guardi invece alla produzione di testi dopo il 1999, quello che noti e che tutta la dimensione sciamanica e religiosa e messa un po’ di lato e c’è invece un concentrarsi maggiore sulla coesistenza delle varie identità di chi vive in Kurdistan: Yazidi, Alewiti, Sunniti, Sciiti, Jaferiti… ecc., perché questa diversità è l’attuale realtà della comunità curda. Per fare un altro esempio, quando l’Isis attaccò Sinjar, in Iraq, il Pkk è accorso in difesa degli Yazidi e questi li hanno subito riconosciuti come loro “salvatori” e alleati. Sono quindi abbastanza convinto che se il Pkk avesse mantenuto la sua rigida ideologia identitaria basata sullo sciamanismo e l’origine del popolo curdo dal fuoco ecc., gli Yazidi oggi sarebbero stati completamente massacrati. Questa mi pare una buona prova per dimostrare che l’idea di creare un’identità nazionale è una forma vecchia e inadatta di liberazione mentre oggi quello che conta è la coesistenza e la solidarietà.

Rispetto a quello che ci stiamo dicendo, questa è una riflessione dello stesso Ocalan? Se sì, quanto rispecchia/traduce un dibattito interno al movimento curdo nel suo insieme? Questo sguardo rinnovato che tipo di approccio suggerisce a una composizione come quella dei giovani metropolitani, magari già sradicati, non più appartenenti alla “Terra madre”… c’è uno sguardo, da parte di Ocalan, del partito, del movimento su questi soggetti qua?

Quello che sento di più, tra i miei amici curdi della metropoli, oggi è: “quando andiamo in Kurdistan? Dai, andiamo a fare un giro!”; non per fare un giro turistico, a mangiare del buon kebab ma nel senso di “andiamo a vedere come sta la gente, come vivono”. Questo perché durante la rivolta di Gezi Park la gente come me (i curdi assimilati della metropoli) ha sperimentato, sulla propria pelle, una briciola di quello che i curdi che vivono in Kurdistan provano da decenni. Cerco di dare una lettura ottimistica di questa cosa e mi sono posto due domande. Una: com’è possibile che i curdi hanno resistito per più di 30 anni mentre noi a Gezi solo 15 giorni? Seconda: se loro sono riusciti a resistere per più di 30 anni, come possiamo imparare da loro per resistere nella metropoli.

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