Un movimento che inconsciamente attendevamo da tanto tempo. Appunti da un’intervista con gilet jaunes dell’assemblea di Rungis – Parigi
Presentiamo uno stralcio d’inchiesta che analizza una lunga intervista fatta a ridosso del Primo maggio scorso con tre partecipanti all’assemblea gilet jaunes di Rungis, che presenta caratteristiche peculiari all’interno del panorama del movimento.
Le tre persone intervistate sono elementi portanti dell’assemblea, rappresentativi della parte banlieusarde di questo percorso che tuttavia è composto da uno spettro sociale estremamente variegato e che, a differenza di molte delle altre assemblee dei gilet jaunes, non ha uno specifico radicamento territoriale. Nata dai blocchi del mercato ortofrutticolo di Rungis – il più grande d’Europa, che vedevano all’inizio la presenza di alcuni elementi di destra, l’assemblea si è poi spaccata allontanando i personaggi fascistoidi e il loro seguito, e si è resa protagonista del lancio dell’assemblea regionale d’Ile-de-France, partecipando inoltre sin dall’inizio al percorso dell’Assemblea delle assemblee, prima a Commercy poi a Saint-Nazaire. Nell’intervista l’accento è stato posto sulle condizioni di vita e sulla percezione situata delle tre persone sia sul movimento che sulle politiche del governo, indagando dunque le traiettorie di tre giovani della banlieue parigina dentro la composizione molto più eterogenea del movimento.
L’intervista (pubblicata in contemporanea anche sul portale della Plateforme d’Enquêtes Militantes e di ACTA) si è svolta dopo la piazza del XXIV atto, a due giorni dalle dichiarazioni di Macron che hanno chiuso il Grand Débat, il processo che avrebbe dovuto rispondere e far cessare un movimento che tra criminalizzazione e repressione è stato più volte dato per morto ma che invece ha mostrato una straordinaria pervicacia e incisività, portando l’Unione Europea a concedere alla Francia importanti deroghe di bilancio. Complessivamente stime del Ministero dell’Economia conteggiano in 5 miliardi la quantità di denaro che il Gran Débat ha progressivamente spostato a seguito delle rivendicazioni dei gilet jaunes, incrinando il progetto politico di Macron che intendeva scambiare la fine del modello welfarista francese con la possibilità di una guida europea. Di fronte a questo proposito in cui l’élite francese si proponeva di “staccarsi dal territorio” per rilanciare il progetto neoliberale europeo, i gilet jaunes hanno espresso una forma di contro-territorializzazione che nell’occupazione e nel blocco diffusi ha praticato una decisiva prova di forza. Dopo mesi di mobilitazione, il Primo maggio, quattro giorni dopo la realizzazione dell’intervista, il movimento ha rilanciato con una importante e inedita convergenza di piazza con il sindacalismo, rilanciando e innovando la pratica del cortège de tête che aveva caratterizzato il movimento dal 2016. La ripresa nelle settimane successive di molti ronds points e la continuità degli Atti del sabato, nonché le nuove scadenze dell’Assemblea delle Assemblee per giugno e settembre, dimostrano come nonostante la violentissima repressione (che, en passant, conferma per l’ennesima volta l’inscindibilità del binomio neoliberalismo/autoritarismo) la resistenza del Primo maggio sia stata un passaggio qualificante.
In Francia inoltre c’è una genealogia recente di lotte che ha saputo rovesciare il clima di stato d’emergenza imposto con gli attentati del 2015, mobilitando dagli cheminots agli studenti, dalla Loi travail alla Zad di Notre Dame des Landes. Questi fenomeni hanno depositato pratiche e immaginari sociali di conflitto, ma indubbiamente i gilet jaunes segnano una radicale novità, un tornante e uno spartiacque nelle forme di mobilitazione nella composizione sociale, nonché nei luoghi in cui si esprime. Si può affermare che i gilet jaunes sono espressione del lungo scavare della crisi, e hanno portato a lottare una significativa fetta di società disposta ormai sul margine di espulsione di quello che potremmo definire come “consumo di metropoli”. Tutta una serie di categorie con le quali siamo abituati a pensare ed esprimere i movimenti sono infatti per lo più insoddisfacenti o inadeguate per comprendere pienamente quanto sta venendo definendosi da alcuni mesi in questo quadrante europeo. La soglia di politicizzazione, detta in maniera semplificata, è quella di una condizione di vita sempre più de-valorizzata, rispetto alla quale rischia di risultare fuorviante riflettere attraverso la misura rigida del salario e/o del reddito. Le rivendicazioni dei gilet jaunes si giocano infatti su una dimensione più complessa e articolata, che al contempo mischia ed eccede una secca ripartizione tra rivendicazioni salariali/sul lavoro e rivendicazioni sul reddito/sui servizi. Il nodo pare essere piuttosto quello di una complessiva condizione esistenziale in cui una nuova operaietà metropolitana caratterizzata da una complessiva messa al lavoro o da una forzosa riduzione all’inattività si mette in gioco contro un sistema che è al contempo economico e politico. In questo senso la percezione delle controparti non può essere ricondotta alla contrapposizione “populista” tra alto e basso o al semplice “popolo vs élite”, ma si determina su un piano più sofisticato in cui si assemblano senza poter essere scisse richieste di autonomia politica (strumenti di democrazia diretta, critica a Unione Europea e al governo) e di rivendicazione sociale.
Queste dimensioni sono espresse anche dalla forte presenza di un rilancio di forme di solidarietà che si evidenzia nel massiccio riferimento “ai poveri” quale referente sociale. Inoltre la “non settorialità” del movimento è anche una parziale spiegazione della novità rappresentata dagli Atti del sabato, che non sono cortei ma hanno forma “argentina”, non si muovono ordinati in percorsi stabiliti ma si definiscono come appropriazioni molecolari e diffuse della metropoli. Gli Atti instaurano una nuova quotidianità di massa che misura una ricerca e il costruirsi di nuove forme di comunità che non cercano leader per rappresentarle ma forme di agire collettivo per identificarsi. Una dinamica che non si costruisce tanto dagli incontri rapsodici nei riot, quanto da una quotidianità che costruisce una contro-infrastruttura sociale fatta di incontri, assemblee, discussioni online etc. Un’organizzazione molecolare che presenta una netta discontinuità con i processi insorgenti del 2011-2013. In Francia non c’è stato infatti un evento costitutivo, ma una diffusione immediata di mobilitazione attivata dalla miccia rappresentata dalla nuova tassa sull’aumento del costo del carburante. Un elemento che simbolicamente riannoda il filo interrotto con la lotta in Brasile del 2013, che aveva “chiuso” il ciclo di insorgenze di quella fase. In Brasile era stato l’aumento dei trasporti urbani a fungere da miccia, diffondendo in molte metropoli brasiliane il conflitto. Ma se il Brasile non aveva visto l’occupazione di piazze e il blocco quale elemento di rilievo, i gilet jaunes hanno mantenuto la sua caratteristica di diffusione sommandola a quella dell’occupazione della piazza, che qui però a differenza che alla Casbah di Tunisi, a Tahrir, Puerta del Sol, Syntagma, Taksim ecc… ha costruito il blocco e l’occupazione non di piazze storiche centrali ma di “piazze disseminate” nelle rotonde, nei presidi auto-costruiti, negli snodi logistici.
Un altro elemento da considerare rispetto al 2011-2013 è quello relativo ai media. Allora Facebook e Twitter avevano rappresentato un valore d’uso per i movimenti, essendo tuttavia strumenti “eccezionali”. Avevano funzionato cioè come strumenti per riaprire spazi pubblici in contesti con un grosso controllo dei media mainstream o avevano attivato un nuovo processo di connessione sociale in contesti di società più individualizzate. Oggi invece Facebook si presenta come una infrastruttura sociale, come “naturale” luogo di discussione e organizzazione. È divenuto un nuovo strato di connessione sociale, luogo dove si fanno dirette, si lanciano sondaggi, ci si organizza in gruppi di discussione, ci si muove su una dimensione che è già “oltre” il mainstream e che è un tessuto di linguaggio “comune” – nell’estrema ambivalenza che ciò evidentemente rappresenta in una società sempre più realmente sussunta sotto il capitale. In parte anche qui si spiega anche la dimensione “leaderless” del movimento: se una volta era il giornale, e quindi una dimensione molto più di organizzazione “separata”, oggi Facebook, che garantisce una “leadership diffusa”, non rappresenta ma “dà voce” alle istanze sociali. Qui risiede la potenza del 5 Stelle italiano, che coi suoi fondatori è stato in grado di anticipare e catturare questa dinamica con largo anticipo, costruendola come gerarchizzata a monte.
Queste considerazioni non sono tuttavia sufficienti ad affrontare l’enigmaticità del costituirsi e del procedere di un movimento come i gilet jaunes. Si possono, anche proficuamente, mobilitare categorie ontologiche o analisi socio-antropologiche per spiegare il loro accendersi, ed evidentemente bisogna praticare una cesura netta con la dicotomia spontaneismo/organizzazione, quantomeno liberando il primo termine da una sua riduzione a una casualità senza storia e il secondo da una declinazione univoca nella forma del partito d’avanguardia. Ciò non toglie che rimane, dal punto di vista militante, l’enigma politico-organizzativo su quali possano essere le metodologie più adeguate a sincronizzarsi, intervenire ed agire in questi contesti. Indubbiamente in Francia una pratica antifascista militante e politica ha avuto un ruolo, così come l’innesto di una pratica organizzativa come la piattaforma dell’Assemblea delle Assemblee ha introdotto un positivo elemento in grado di crescere notevolmente dal primo appuntamento di Commercy al secondo di Saint-Nazaire. Tuttavia la molecolarità e l’intelligenza collettiva dei gilet gialli e la “direzione implicita” che il movimento riesce a produrre sono un terreno di con-ricerca decisivo per comprendere come un pezzo di società si fa potere nel nuovo millennio.
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“Nel 2005 avevo 11 anni, sono andata alcune volte con mio fratello più grande, la sera, ad assistere alle émeutes sotto casa. Lui mi proteggeva. Sono stati i miei primi gas lacrimogeni, a 11 anni …”. Am., che viene da un comune della banlieue del 93, il dipartimento più povero di Francia, ci racconta anche, con fare un po’ titubante, di quando è stato deciso di bruciare la sua scuola, chiedendosi se quell’atto si possa considerare o meno politico. Ma Am. sembra rispondere indirettamente a questa domanda quando sottolinea, a più riprese nel corso dell’intervista, il ruolo centrale della scuola come esperienza che definisce e riproduce le diseguaglianze sociali in Francia, tra classi sempre troppo numerose e condizioni materiali disastrose nei quartieri popolari. L’intervista è infatti iniziata chiedendo se Leo, Cor. e Am. avessero esperienze politiche pregresse ai gilet jaunes. In tutte e tre le risposte è emersa l’importanza delle lotte del 2005-2006 (sollevamento della banlieue prima e movimento contro il CPE poi). Anche Leo e Cor., di qualche anno più grandi, fanno alcuni accenni alle rivolte del 2005, ma l’attenzione dei tre si sofferma soprattutto sulla partecipazione ai blocchi delle scuole durante la mobilitazione del 2006 contro il CPE (legge sulla precarizzazione del lavoro bloccata dalla mobilitazione studentesca di quell’anno). “Non so se c’era proprio un senso direttamente politico nella mia partecipazione al movimento studentesco, partecipavo soprattutto ai blocchi” dice Am., mentre Cor., che ha ottenuto un diploma di laurea triennale, sottolinea come quella mobilitazione lo abbia poi in qualche modo accompagnato all’università, dove per la prima volta si è trovato a contatto con un ambiente politico estremamente variegato. “C’erano tantissime tendenze politiche, è stata un’esperienza formativa, nei quartieri non avevo accesso a questo tipo di offerta politica […] lì mi sono avvicinato all’AGEN (Association générale des étudiants de Nanterre), che mi aveva attirato perché parlavano molto della questione palestinese”. Ma dopo l’esperienza della vita universitaria, si è susseguito per Cor. un sostanziale vuoto di politica e militanza, parzialmente interrotto solamente dall’episodio di un conoscente che lo ha inserito in una lista elettorale per le elezioni municipali. Cosa di cui dice di essersi amaramente pentito in seguito. A. racconta invece di non aver mai attraversato nessuna forma di militanza, se non qualche sporadica partecipazione ai cortei contro il CPE o, ancora una volta, sulla Palestina. Am. ha qualche esperienza in più, in particolare all’interno di associazioni in appoggio ai migranti, e ha partecipato alle manifestazioni contro la guerra a Gaza e agli scontri a Barbès per la Palestina nel 2014: “ma la politica non mi ha mai interessato, sapevo che destra o sinistra, per noi [abitanti dei quartieri popolari], non sarebbe cambiato niente […]. Ho votato una sola volta, Mélenchon, ma perché mio padre mi ha spinto a farlo”.
Quando chiediamo ai tre cosa li abbia portati a mettersi in gioco in questi mesi col movimento dei gilet jaunes, Leo ci risponde che si tratta di “un movimento che inconsciamente attendevamo da tanto tempo”. Il movimento sembra essere percepito infatti come qualcosa di intimamente popolare, prima di tutto perché si svolge al di fuori delle strutture della politica classica, partiti e sindacati, e perché nasce su rivendicazioni percepite sin dall’inizio come essenziali per la vita delle persone, non su istanze astratte.
Leo è sceso in piazza subito, al primo atto del 17 novembre, venendo a conoscenza di quanto stava avvenendo in strada grazie alle dirette Facebook di alcuni suoi contatti che si trovavano sugli Champs Elysée. “La prima cosa che mi ha colpito è l’età alta di chi stava lì, la maggioranza aveva più di quarant’anni”. Cor., all’inizio più titubante – “sai sembrava un movimento… di bianchi” ci dice – ha osservato inizialmente lo svolgersi dei primi Atti a distanza, sui media. Poi però, “quando ho visto un vecchio farsi manganellare senza ragione in testa dalla polizia, ho pensato: qui si sono superati tutti i limiti, devo andare”. È dunque dall’Atto III che anche Leo decide di scendere in strada, con la consapevolezza “che non si andava lì per manifestare pacificamente. Avevo preso le mie precauzioni”. Le immagini delle violenze poliziesche sembrano d’altronde aver costituito per tutti una molla importante nella scelta di partecipare al sollevamento, anche se Am. (che ha seguito i primi passi dei gilet jaunes su Fecebook ed è andata al secondo Atto con un’amica, mai più ritornata) dice che per lei è stato cruciale il fatto che il movimento si opponesse all’aumento del prezzo del carburante. “La cosa della benzina è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso […] c’è chi lavora, che magari ha lavorato 30 anni, e non può permettersi di andare al cinema, di avere una vita decente, nemmeno di comprare cose scontate al supermercato […] io, per andare a lavorare, l’anno scorso dovevo fare 60 chilometri al giorno!”. Am. rimarca spesso le condizioni sociali delle banlieue, dove i servizi sono scarsi e si è obbligati a vivere di economia informale: “per vestirsi ci si arrangia con cose rubate o “cadute dal camion”, le vacanze sono sempre un problema, i miei genitori ad esempio volevano andare una volta l’anno al paese, in Algeria, ma spesso non ce la facevano coi soldi e quindi mandavano solo noi figli. Dopo aver lavorato una vita”. A parte gli Atti del sabato, Am. ha iniziato a partecipare al movimento in maniera intensa e continuativa, e a costruirsi una rete di relazioni al suo interno, grazie alla partecipazione al blocco di un casello autostradale organizzato da un gruppo di gilet jaunes del 93. Questo le ha dato la possibilità di incontrare altre persone con cui partecipare agli Atti, elemento fondamentale anche perché, come ci racconta, “una delle prime volte che sono stata in piazza ho visto delle facce brutte, gente di destra, che ci guardavano male. Ci siamo dovuti allontanare”. Ed è proprio in quello stesso periodo che sono iniziati i blocchi alle porte di accesso a Rungis, dove per dieci notti consecutive i blocchi filtranti hanno fortemente rallentato l’accesso e l’uscita dei camion in uno dei poli logistici più importanti di Europa. “Quelle sere, erano prima di tutto un momento di incontro e socialità” dice Leo. È dall’esperienza dei blocchi, d’altro canto, che nasce il collettivo Rungis, strumento che serve in un primo tempo ad organizzare la partecipazione collettiva agli Atti.
Leo, Am. e Cor., ci raccontano di come l’assemblea sia il vero luogo fondante della mobilitazione e l’effettivo spazio di riconoscimento, aprendo una riflessione sulle prassi organizzative più complessive. “I leader carismatici hanno sicuramente avuto un ruolo, soprattutto all’inizio, per la diffusione del movimento, ma sono figure create dai media, non sono leader reali” dice Cor., secondo il quale le assemblee come quella di Rungis o quella regionale d’Ile-de-France mettono in discussione l’esistenza stessa di “falsi vertici”. Sempre Cor. sottolinea che i gilet jaunes sono “un movimento per sua natura orizzontale, non ha vocazione ad essere verticale: è un movimento tentacolare”. Anche i gruppi Facebook rilevanti nell’indirizzare il movimento, come quello della France en Colère, non hanno, secondo lui, un effettivo ancoraggio all’interno delle assemblee, vera spina dorsale del movimento. Se riconoscono quindi un ruolo importante a questi profili mediatici, in primo luogo per la diffusione dell’informazione, tutti e tre affermano che “non c’è bisogno di capi”. La riflessione si sposta dunque sulla peculiarità dell’assemblea di Rungis, che è “cosmopolita” dice Leo, “ci sono arabi, neri… ci sono perfino gli italiani, mancano solo gli asiatici!” scherza Cor., che si sofferma a lungo sul processo dell’Assemblea delle Assemblee. A quella di Commercy Leo è stato delegato, e ne sottolinea il ruolo centrale per la costruzione di “una struttura nazionale del movimento. Servono per conoscersi […], discutere per tre giorni con duecento delegazioni da tutta la Francia è una cosa importante [e] una delle bellezze del movimento è incontrare gente che non avresti mai incontrato altrimenti”.
L’intervista si conclude sulle motivazioni e le aspettative che li spingono tutt’ora a mettersi in gioco, e la prima a rispondere è Am. che, con decisione, afferma che per lei “la questione centrale è il potere d’acquisto: la gente che lavora deve poter vivere bene, aver accesso al cinema, deve poter andare in vacanza”, concentrandosi in seconda battuta sulla questione dei servizi pubblici e sull’enorme carenza di quest’ultimi nei territori della banlieue: “le strade nemmeno in Algeria sono così devastate, nel mio quartiere è pieno di buche in terra, devo cambiare le gomme ogni sei mesi, e la macchina la uso molto […] le strade sono buie, e per una ragazza è problema tornare a casa la sera, è pericoloso”. “E’ vero”, dice Cor., “ci penso spesso quando torno a casa la sera, nelle strade buie, che per una donna c’è da avere paura”. Il senso di essere trattati come cittadini di serie B emerge ancora quando ci viene detto che “quando da noi denunci un furto in casa, la polizia arriva 48 ore dopo perché, dicono, non hanno macchine per venire, e devi stare fermo in casa per due giorni senza toccare niente”. La riflessione di Cor. si sposta poi su un piano più politico, dicendo che “chi da gli ordini è l’Unione Europea”, è che è necessario cambiare radicalmente “il sistema politico, la Quinta Repubblica non è più adatta”, soffermandosi poi sull’emergere dell’estrema destra portando come esempio l’Italia: “viviamo in un mondo in cui c’è un massacro nel Mediterraneo, i governi collaborano con la Libia e buttano le persone giù dalle barche, a noi adesso non ci possono ammazzare così perché siamo cittadini europei ma se continuiamo ad andare in questa direzione è una catastrofe annunciata”.
Più in generale tuttavia, è una certa insopportabilità delle condizioni di vita quella che sembra spingere i tre a lottare, e con questa l’aspirazione a una migliore qualità della materialità del quotidiano e delle relazioni sociali, ben sintetizzata da Cor. al termine dell’intervista: “In questo mondo la mattina non hai voglia di svegliarti, sei sempre stanco, lavori poi torni a casa la sera e dormi, e il week end ti ubriachi per dimenticare, questa non è una vita […] vogliamo di più!”.
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