Un soggetto in cerca di status
[Un’intervista che è una lezione di metodo. Alain Toruraine invita a leggere i fenomeni sociali sotto il segno dell’ambivalenza. Interessante la tesi sulla crisi attuale come prolungamento ininterrotto di quella del 1929 e lo sguardo sulla situazione italiana].
di Benedetto Vecchi (Il Manifesto, ven 15 marzo 2013)
Un’intervista con l’intellettuale francese. La fine del sociale pone come obiettivo prioritario la ricostruzione di una polis, cioè di una politica che favorisca l’eguaglianza e la contemporanea valorizzazione delle diversità.
Nell’opera di Alain Touraine vi sono elementi di continuità, ma anche evidenti cambi di direzione, ripensamenti, prese di distanza da quanto precedentemente sostenuto. Un evidente elemento di continuità è l’attenzione ai meccanismi che presiedono «la produzione di soggettività». Sin dagli anni Sessanta, Touraine ha messo in guardia dal facile economicismo che faceva discendere la soggettività dal lavoro svolto. Rilevanti erano anche altri fattori che andavano cercati tanto nelle istituzioni (la scuola) che nei legami di prossimità (la famiglia, la parentela, l’amicizia). Un fattore invece di discontinuità è la messa in dubbio che la «coscienza» abbia nei rapporti sociali un fattore di interdipendenza. È infatti con il saggio La società postindustriale che Touraine prende le distanze dal marxismo francese per inoltrarsi sul sentiero di ricerca dove la dimensione culturale, etica sono interpretati come i principali «produttori di soggettività». Ma è con il volume Dopo la crisi (Armando editore) che Touraine fa i conti con una realtà, quella capitalistica, sempre sull’orlo di una catastrofe, possibilità che viene prevenuto proprio dal ritorno del Soggetto come protagonista della vita in comune.
A Roma per partecipare a un seminario organizzato dalla Facoltà di Sociologia della Sapienza, Touraine accetta volentieri di ispondere a domande sulla situazione politica italiana, ritenuta la migliore espressione del concetto di «ambivalenza».
Nelle ultime elezioni italiani una formazione politica, «il movimento 5 stelle», ha avuto un ottimo risultato elettorale, facendo leva sul fatto che è un movimento e non un partito. Hanno spesso parlato della dimensione sociale ed etica della loro esperienza, fattore che fa andare sullo sfondo la dimensione politica, culturale. Come valuta lei questa esperienza?
Ho letto del movimento 5 stelle. Più che un movimento sociale è un movimento politico che allo stato attuale non contempla il riconoscimento delle diverse componenti sociali al suo interno. Più che altro è un movimento segnato da ambivalenza, caratteristica che riguarda anche molti movimenti sociali e politici del presente. Non sono però interessato da qualificare negativamente il «movimento 5 stelle». Alcuni aspetti possono essere negativi nel presente, ma storicamente possono svolgere una funzione positiva. Ciò che va interrogata l’ambivalenza.
D’altronde l’ambivalenza è il tratto distintivo di moltissimi fenomeni sociali e culturali…..
Nelle scienze sociali, l’ambivalenza è un concetto che è stato mirabilmente trattato, basti pensare agli scritti di Merton, Elias. Potrei dire che la situazione italiana è ambivalente. Se dico questo non chiudo le porte all’analisi. Semmai auspico di guardare al dato congiunturale, immanente di una realtà senza pregiudizi.
La crisi iniziata nel 2007 non sembra finire mai. Ogni ricetta proposta per risolverla. Siamo condannati a dover vivere in uno stato di crisi permanente?
Sono propenso a sostenere la tesi che siamo ancora dentro gli effetti della crisi del ’29 dalla quale il capitalismo non si è mai del tutto ripreso. Quella è stata la madre di tutte le crisi del Novecento. Ha avuto effetti drammatici, come la seconda guerra mondiale, al termine della quale in molti hanno sperato che la situazione ritornasse alla «normalità». Per tre decenni un forte movimento politico socialdemocratico e riformista ha provato a modificare lo sviluppo capitalistico, mettendolo al riparo da eventi catastrofici come quello del ’29. Ma già nel 1973 ci siamo trovati di fronte a un meccanismo che si era bloccato. Da allora c’è stata alternanza tra brevi periodi di stabilità e crisi.
C’è stata infatti la crisi del debito estero in America latina e Asia. Nei paesi cosiddetti centrali del capitalismo, le nuove tecnologie hanno provocato disoccupazione di massa. Poi sembrava che un certo equilibrio fosse stato trovato. Invece nel 2001 la borsa è crollata e molte delle speranze in una economia trainata dal digitale sono andate in fumo. Nei primi dieci anni del nuovo millennio, la guerra è tornata ad occupare un posto centrale nelle relazioni internazionali. In altri termini, la crisi non è mai terminata.
Occorre tuttavia distinguere tra crisi economica, sociale, politica e poi cercarne gli eventuali intrecci, sovrapposizioni. Politicamente, la decolonizzazione ha provato crisi in alcuni paesi, ma favorito la crescita di forti movimenti democratici, non cancellati dalla degenerazione autoritaria di molte esperienze di decolonizzazione. Non possiamo neppure valutare negativamente l’emergere di un pluralismo economico, cioè di diverse forme di sviluppo capitalistico su scala globale.
È però evidente che dal 2007 in poi, il mantra dominante era che il neoliberismo era fallito, ma che era però impossibile tornare a forme di gestione keynesiana dell’economia…..
Certo, il liberismo ha fallito. D’altronde era un po’ folle pensare che la vita sociale o politica dovessero essere gestite seconda la logica del massimo profitto per le imprese. Non lo pensava neppure Adam Smith, ritenuto il padre nobile del liberalismo economico. L’economia, tuttavia, è solo parte del problema. Da parte mia, continuo a ritenere necessaria una prospettiva storica dell’attuale situazione. Viviamo in una realtà che risponde a un modello di società – capitalistica, borghese – che dura da alcuni secoli. Quello che è in discussione è la possibilità di quel modello di funzionare ancora, cioè se ha la possibilità di garantire l’integrazione di bisogni, aspettative, desideri che maturano nella realtà sociale. Non so rispondere positivamente o negativamente a tale quesito. Quello che vedo manifestarsi è il superamento di un’attitudine maschile, virile nell’affrontare i problemi. In base a questo modello maschile, abbiamo visto élite (economiche o politiche) che tendevano a dominare il resto della società. Da tempo vediamo invece manifestarsi altri modelli di comportamento, meno polarizzati, più empatici. Da questo punto di vista andrebbero valutati attentamente gli effetti del femminismo nelle nostre società. Al di là delle proposte che i diversi e eterogenei movimenti femministi hanno fatto, vediamo all’opera un’attitudine femminile nella gestione delle contraddizione e delle relazioni sociali che puntano a integrare, a non escludere richieste, proposte, stili di vita che non coincidono con quelli dominanti. Un’integrazione, tuttavia, che non cancella le differenze, anzi tende a valorizzarle.
Nella società industriale, i partiti, lo Stato, la religione, il lavoro, la famiglia erano gli ambiti «certificati» per lo sviluppo delle soggettività. Nella società postindustriale, questo ruolo spettava ai movimenti sociali. Nel suo ultimo – Dopo la crisi, Armando, n.d.r. -, ha scritto che siamo in una realtà postsociale…..
È vero che i movimenti sociali non svolgono più un ruolo propedeutico allo sviluppo delle soggettività. Questo non significa che i movimenti sociali siano diventati irrilevanti nello sviluppo delle soggettività. I movimenti democratici di Tien an men, gli indignados spagnoli, Occupy Wall Street e le «primavere arabe» sono state esperienze importanti perché hanno cacciato dittatori saliti al potere dopo la decolonizzazione; o a democratizzare paesi autoritari o a innovare i sistemi politici dominanti. Allo stesso tempo, sono movimenti che operano ormai all’interno di una cornice globale anche se operano su base nazionale. La soggettività, la cura di sé, i processi di socializzazione hanno però anche altri ambiti in cui prendono corpo. Quello a cui stiamo assistendo è la centralità della dimensione culturale, etica del nostro stare insieme. Questo cambia le carte in tavola e ci proietta in una dimensione postsociale. Stiamo assistendo a una diversa concezione del soggetto che costringe a guardare ai movimenti sociali senza necessariamente fare riferimento alla dimensione economica, lavorativa degli uomini e delle donne che vi partecipano.
Universalismo dei diritti e riconoscimento delle differenze: è un altro tema che lei ha affrontato nei suoi libri. Un nodo che scioglie individuando nel simbolico, la cultura, l’etica i campi dove la polarità tra universalismo e differenza può essere efficacemente ricomposta, ricombinata, per usare un termine da lei spesso usato. Ma così facendo vengono cancellate le basi materiali delle diseguaglianze sociali che impediscono sia la dimensione universale dei diritti che la valorizzazione delle differenze…..
E’ una banalità dire che in presenza di benessere è più facile sia l’universalismo dei diritti che il rispetto delle differenze. In alcuni paesi, compresi quelli europei, ciò che ancora rilevante è il soddisfacimento dei bisogni, di un superamento di stati di necessità e non tanto il rispetto di differenze culturali. Ma il problema resta, perché l’obiettivo è un universalismo delle differenze. Negli anni passati, lo studioso canadese Charles Taylor chiedeva il riconoscimento dei diritti delle comunità schiacciati dai diritti universali. I liberali americani, ma anche molti europei, rispondevano che quelli che andavano salvaguardati era i diritti universali. Una discussione molto poco interessante. Importante è la combinazione, appunto, di universalismo e differenze. Faccio un esempio che è esemplificativo di come l’universalismo delle differenze non comporti necessariamente la cancellazione dei diritti civili, politici e sociali affermati nella modernità. Nel Chiapas, gli zapatisti chiedevano e chiedono il rispetto dei diritti degli indigeni. Non sono diritti individuali, ma diritti comunitari. L’esperienza di autogoverno delle municipalità ha fatto emergere il fatto che c’era riconoscimento delle comunità ad autogestire la vita in comune secondo modalità non coincidenti con quelli dominanti. Al tempo stesso, gli stessi zapatisti chiedevano il rispetto dei diritti individuali politici, civili, nonché il diritto delle donne all’uguaglianza, fattore che non sempre contemplato nelle culture dei nativi indigeni. La crisi attuale rende tutto più difficile, lo so. Siamo in una situazione sempre sull’orlo della catastrofe. L’obiettivo è ricostruire una polis, cioè una dimensione politica ancorata proprio all’universalismo delle differenze.
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La produzione teorica di Alain Touraine copre un periodo di tempo che va dagli anni Cinquanta ai nostri giorni. Dopo aver frequentato l”École Normale Supérieure di Parigi, Touraine svolge un’inchiesta sulle modificazione del lavoro operaio alla Renault. L’opera successiva spunta a definire quella che egli stesso chiamerà una sociologia dell’azione. Nel 1965 scrive un saggio su come si forma la «coscienza operaia». Docente a Nanterre, partecipa al maggio francese (esperienza alla base del saggio «Il movimento del maggio e il comunismo utopico»). Nel 1969 stampa invece «La società post-industriale», libro che segna la presa di distanza dal marxismo. Rilevante è anche la sua partecipazione all’esperienza del governo di Salvador Allende. Nel 1980 manda alle stampe un saggio dedicato a «Solidarnosc». Successivi sono: «Eguaglianza e diversità», «Il mondo è delle donne», «Come liberarsi del liberismo», «Libertà, uguaglianza e diversità», «Critica della modernità», «la ricerca di sé», «La globalizzazione e la fine del sociale» (tutti pubblicati da il Saggiatore). L’Armando editore ha invece pubblicato «Il pensiero altro» e «Dopo la crisi».
[Aggiungiamo, alla lista compilata dal Manifesto, un suo testo fondamentale del 1973, “La produzione della società” (1975 l’edizione italiana)]
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