Unibo:uno sguardo dal basso sull’era Dionigi
I
Gli anni del mandato di Ivano Dionigi sono stati anni di grande trasformazioni per quanto riguarda l’Università di Bologna. Trasformazione interna all’ateneo, che ha visto l’applicazione della riforma Gelmini, ma soprattutto del rapporto tra università e tessuto metropolitano, tra composizione studentesca e i suoi bisogni, tra diritto allo studio e territorio. Trasformazioni che hanno avuto nelle lotte agite dal basso da studenti e precari un polo d’iniziativa di una certa consistenza.
Dentro e contro l’università: movimenti e trasformazioni
L’università italiana ha subito una progressiva trasformazione partita dagli anni dell’applicazione del 3+2, della moltiplicazione dei corsi di laurea triennale, della licealizzazione dei corsi di studio, gestita, a Bologna, dall’evergreen Roversi Monaco e dal suo austero successore, il fu Pierugo Calzolari. Una trasformazione che si muoveva nell’ottica del miraggio dell’economia della conoscenza, della new economy che avrebbe garantito a partire da una formazione specialistica, ma parcellizzata, i nuovi impieghi per una forza lavoro autoctona e scolarizzata. La creazione del multi-campus con la moltiplicazione degli indirizzi e dei corsi di studio nelle città della Romagna andò proprio in questa direzione.
Il 3+2 fu una vera e propria “bolla di investimenti” sul proprio capitale umano, le matricole aumentarono, come il numero di universitari complessivo, grazie all’ingresso in università di coloro che prima, una volta conseguita la maturità tecnica, si affacciavano direttamente nel mondo del lavoro e delle imprese, che gestivano direttamente al loro interno i corsi di formazione professionale e i periodi di apprendistato. Sulla scia della congiuntura economica favorevole di fine anni ’90 tutte le facoltà registravano un aumento, ed erano in molti a scommettere sull’apprendimento di competenze all’università da spendere sul mercato del lavoro, che fu chiamato cognitivo. Le lotte contro la riforma Moratti, che a Bologna furono consistenti e che portarono all’occupazione dell’ampia aula Scaravilli sull’omonima piazza adiacente a via Zamboni, ma soprattutto i due cicli radicali e di massa contro la riforma Gelmini, la cosiddetta Onda Anomala del 2008 e il movimento No Gelmini del 2010, segnarono sostanzialmente la fine di quelle aspettative che la promessa dell’economia della conoscenza aveva dischiuso nella composizione giovanile precaria. Esse si infrangevano, e questo accadeva nel 2010, nella concretezza degli effetti della crisi che cominciava a prodursi anche in Italia. Da quegli anni si è reso manifesto un calo delle immatricolazioni e degli iscritti all’università in tutta Italia che ha riportato le statistiche al periodo antecedente la bolla del 3+2, che era fragorosamente scoppiata.
A Bologna le lotte contro la riforma Gelmini sono state un qualcosa di molto trasversale, che coinvolse ampie fette di chi lavorava e studiava all’università. Esse misero in moto e intrecciarono varie sensibilità che ebbero la capacità sia di sviluppare percorsi rispetto alle proprie condizioni di precarietà, come gli impiegati, i ricercatori non strutturati, gli studenti delle facoltà scientifiche, di scienze della formazione e medicina legati a doppio filo a laboratori e tirocini, sia di costruire un “No” generale e generalizzabile che portò all’occupazione di molte facoltà, alle assemblee permanenti e ai continui cortei e manifestazioni cittadine. Questa dimensione metropolitana si seppe legare al mondo degli studenti medi, ma anche a quello dei docenti delle scuole secondarie, dei maestri e delle maestre delle scuole elementari che coinvolsero anche i genitori e i loro piccoli alunni.
Una composizione variegata che vedeva una convergenza di interessi nella protesta anche – e con grande forza e convinzione – di sindacati come la CGIL, di settori di partiti come il neonato PD e la galassia della sinistra che comprendeva anche il mondo della associazionismo. Questi soggetti si relazionavano, attraverso il collante dell’antiberlusconismo, con le esperienze di autorganizzazione presenti nell’università. Furono quest’ultime a garantire durata e intensità all’iniziativa e riuscirono a orientare politicamente il movimento su alcune parole d’ordine (una su tutte “noi la crisi non la paghiamo”) e obiettivi, come accaduto, ad esempio, con gli scontri sotto confindustria nell’ottobre del 2008 dove gli universitari guidavano un corteo unitario di 40.000 persone.
L’approvazione della riforma, senza colpo ferire, al senato, nel novembre del 2008, portò ad un brusco rientro nelle schermaglie parlamentari e nelle sedi tecniche in cui cavillare sui decreti attuativi di tutto il mondo legato a partiti e sindacati, lasciando l’iniziativa, drasticamente ridotta in termini di massa anche per quanto riguardava studenti e precari (cui era stata data troppa centralità soggettiva sull’essere massa critica in vista di quel voto), alle esperienze dell’autorganizzazione universitaria, all’interno delle quali si produsse una divergenza con chi guidava quel movimento che lo rinchiuse nell’assemblea della Sapienza, puntando soprattutto a scalate accademiche. D’altronde era quella l’obiettivo volgare, ma pur sempre coerente a quanto predicato, dell’ipotesi “cognitivista” animata da non pochi aspiranti ricercatori più o meno fortunati.
Tuttavia, grazie alla militanza quotidiana nelle facoltà, le realtà autorganizzate passarono per le giornate conflittuali del G8 Torino del maggio 2009, attraversando un anno di stacco in cui, però, l’immaginario e le pratiche organizzative sedimentate nelle nuove generazioni di studenti medi portava già nella primavera del 2010, ma in maniera massificata nell’autunno dello stesso anno ad una nuova esplosione del movimento, questa volta trascinato dalle scuole superiori. Presto fu travolta anche l’università in questa movimentazione molto più radicale sia nei contenuti che nelle pratiche. Infatti non c’era più nessuna aspettativa tradita, ma l’emersione di bisogni che cominciavano a venire messi in discussione dall’impoverimento e dal blocco della crescita economica. La battaglia sul reddito cominciava a disincagliarsi dalle figure immaginifiche dei precari-tipo modellate sui desiderata di un certo pensiero militante, per incarnarsi in soggetti in carne e ossa che si riversavano nelle strade al grido di “blocchiamo tutto” e “que se vayan todos”.
La parabola di Dionigi si inserisce a questo punto, a cavallo tra una mobilitazione di massa trasversale e appoggiata da poteri forti e media mainstream legati al centrosinistra, quella del 2008, e una un po’ meno partecipata, ma numerosa e radicale nel 2010. Dionigi è quindi il doriforo, nel 2009, dell’antigelminismo dal volto umano, espressione dell’establishment del fu PCI emiliano, della supremazia di un università speculativa su quella performativa, di un’ università tradizionale, di massa e aperta a tutti, dei diritti degli studenti, come di quelli di professori e lavoratori. Almeno a parole…
Subito, infatti, la sua azione amministrativa e politica si è mostrata debole con i forti e forte con i deboli: nessuna opposizione ai decreti attuativi della riforma, attacco ai contratti di ricercatori e precari, la soppressione delle facoltà a favore di una riorganizzazione macchiavellica in dipartimenti, la lenta erosione del diritto allo studio, la progressiva centralità del Consiglio di Amministrazione e dei tecnici strapagati, rispetto agli organismi didattici, l’attenzione all’immagine mediatica e internazionale, la precarizzazione ed esternalizzazione delle mansioni lavorative di uffici e portierato. Rispetto al nuovo campus nell’area Ex-Staveco non è mai stato chiaro se sarà un polo del diritto allo studio oppure delle eccellenze, quale sarà il suo rapporto con la città e con la geografia umana della composizione universitaria e quale sarà il destino dei palazzi storici in Zona Universitaria che dovrebbero essere ceduti per finanziare il progetto. Di sicuro sull’affare Staveco si gioca una parte dell’importante battaglia del reddito contro la rendita in città, istanza consolidatasi a partire dall’emersione della lotta per il diritto all’abitare, che con tenacia sta aggredendo questo importante nodo politico a partire da forme concrete di movimentazione sociale.
Dionigi non ha mai praticato forme di contrasto alla riforma Gelmini, ma – favorito dai parametri della riforma stessa che per numero di studenti e lobbing territoriale dichiara l’Unibo un’università di eccellenza, e quindi in parole povere, meritoria di ricevere ancora fondi e investimenti – ha semplicemente navigato a vista cercando di frenare alcune derive, lasciando però porte e portoni aperti all’ingresso di logiche e soggetti, come privati, manager e CL, che invece appartengono ad un modo di pensare all’università e all’universalità totalmente diverso. Palesando quanto era disposto a esporsi per difendere la ricerca, non ha rinnovato i contratti ai ricercatori precari lasciandoli sospesi nel bivio tra fughe di cervelli e depressione per il tanto agognato riconoscimento istituzionale ormai mancato.
Le mutate condizioni sociali complessive e l’impoverimento montante della composizione studentesca non sembra aver preoccupato più di tanto il nostro, che si è sempre mostrato incline alle logiche del tirare la cinghia senza adoperarsi minimamente per difendere un’università accessibile e di massa, anche dal montare di un temperie culturale destrorsa che sicuramente la sua Unibo non ha contribuito a contenere, ma che anzi ha favorito. Eletto sulla cresta dell’onda ha finito per seguire il flusso del disarmo della sinistra italiana.
Ai bordi tra università e metropoli: l’emersione di un nuovo paradigma sociale
Nel post-2010 si ebbe una repentina chiusura degli spazi di movimentazione all’interno delle facoltà, sia per quanto riguarda l’opposizione di docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo, sia per gli studenti. Quest’ultimi, senza più lo stimolo dell’economia della conoscenza, abbandonarono logiche di autovalorizzazione non determinando più un campo di lotta sui saperi, che vide come parziale prosecuzione l’esperienza degli atelier occupati, che trovarono poi una loro collocazione rispetto al panorama culturale cittadino e alla produzione culturale, slegandosi da una battaglia propriamente sull’università e avvicinandosi all’esperienza dei centri sociali autogestiti. Dall’altro lato, però, l’emergere della crisi e dell’impoverimento del ceto medio che, di conseguenza, colpì direttamente la composizione universitaria, spostarono le linee di frizione sul quartiere universitario, sul rapporto tra esso e la vita universitaria, tra riproduzione sociale e identità studentesca, tra accesso ai bisogni fondamentali (che per uno studente sono anche intrattenimento e cultura) e frequentazione dell’università.
In questo nuovo terreno di contesa si agitavano alcune discontinuità nella gestione del territorio da parte delle amministrazioni cittadine perché con Kofferati (sindaco fino a giugno 2009) c’era stato un tentativo, parzialmente riuscito, di normalizzazione esperienze autogestionarie cittadine “storiche” che da anni garantivano un circuito culturale e d’intrattenimento nella Zona Universitaria. Il risultato non fu tanto quello di colpire il movimento, che anzi si radicalizzò e riorganizzò anche grazie all’Onda, ma di mettere fine ad un rapporto consolidato, ma forse giunto al suo crepuscolo, tra città e cultura underground, tra territorio ed espressioni della sociabilità studentesca e precaria. Gli spazi e le opportunità si ridussero proprio in contemporanea ai primi effetti della crisi e la multiforme vita universitaria si riversò tutta quanta tra via Zamboni, via Petroni e piazza Verdi, l’unica zona a prezzi accessibili, mentre si incominciava a decidere quale sabato del mese far serata nei locali o negli spazi culturali rimasti.
Le nuove ordinanze comunali parlavano di muri puliti, guerra alla movida, pubblico decoro, intransigenza legalitaria. Si diffusero quindi pratiche di micro-resistenza, come farsi trascinare dai vigili incaricati di multare e “rimuovere” chi stava seduto in piazza Verdi, oppure suonare bonghi e strumenti musicali nonostante i divieti, che portarono anche a episodi discontinui di scontro e contrapposizione. Nell’emersione del movimento del 2010 fu chiaro fin da subito che, rispetto alla composizione che si mobilitava contro la riforma, i temi legati alla Zona universitaria erano parte di una condizione di vita quotidiana. La difesa di pratiche come l’attacchinaggio murario, delle esperienze culturali e di autofinanziamento come le notti bianche, della aule occupate, la realizzazione di murales in una via Zamboni completamente reimbiancata e il continuo determinare piazza Verdi come luogo di assemblea e iniziativa politica, da parte del movimento No Gelmini diede forma politica a quei comportamenti, cominciando a risignificare politicamente un luogo dove una grossa fetta di composizione studentesca era stata limitata socialmente. È chiaro che l’arrivo del nuovo sindaco Del Bono marcò una discontinuità netta con il Cinese, ma non mancarono in questa battaglia i fogli di via, le denunce, le manganellate, i processi e le salatissime multe previste dal regolamento comunale.
Nel post-2010, dopo l’approvazione definitiva dei tagli previsti dalla riforma, si registrò nuovamente, anche a Bologna, un riflusso della movimentazione studentesca. Tuttavia il consolidamento di quelle pratiche che insistevano sulla Zona Universitaria prodotte dal movimento No Gelmini e la rappresentazione e la difesa politica delle stesse operate dai collettivi, che comunque non esitavano a bloccare C.d.A. dove Ivano faceva passare di tutto, ha fatto sì che una parte della composizione studentesca bolognese vivesse, per quanto riguardava alcuni aspetti della propria vita sociale, di logiche sottratte ai meccanismi di governo istituzionale della città, disegnate dai propri comportamenti e da una interazione autodeterminata con lo spazio urbano. Questo è probabilmente uno dei motivi della consistente partecipazione bolognese alle grandi giornate di conflitto, determinate in primo luogo da studenti e precari, in Val Susa (una su tutte il 3 luglio 2011), ma anche romane (come il 15 ottobre 2011), e dei buoni numeri che, in una fase complicata dal punto di vista dell’attivazione sociale, hanno animato le contestazioni ai vari ministri dell’austerità giunti in città nel 2011-2012, nelle quali a viso aperto ci si è scontrati ripetutamente con le forze dell’ordine.
Il consolidamento di un certo rapporto di forza su queste pratiche e di legittimità sulla Zona Universitaria ha suggerito, a partire dal 2013, di provare a sperimentare all’interno di questo aggregato sociale alcune lotte sul reddito che indagassero il tema dei bisogni a partire da mensa, alloggi, libri di testo, trasporti, cultura, intrattenimento. Di fronte all’impoverimento, ai tagli e alla precarizzazione si cominciarono a sperimentare ipotesi di percorso che alzassero il costo sociale di chi era destinato ad essere sempre più dequalificato e immesso a basso costo nel mercato del lavoro. Intanto l’avanzata dell’egemonia di destra nel mondo della cultura, riconsegnava interesse e partecipazione ai percorsi seminariali autogestiti nelle aule occupate, dove era ancora possibile, anche solo banalmente, sentir parlare di cambiamento sociale.
Ma i rapporti di forza non sono mai dati e nel maggio del 2013 il nuovo sindaco Merola decise di tornare ad impedire le iniziative senza autorizzazione in piazza Verdi conquistate nel 2010, provando a sfruttare l’assist garantitogli da una festa organizzata da un sindacato studentesco (che non si era mai visto e che pensò di sfruttare la visibilità della piazza in periodo di elezioni) che durò fino all’alba. Questo produsse l’infelice tentativo di sgomberare un iniziativa successiva in via Zamboni che, però, fu difesa con le barricate riuscendo dopo ore di scontri a scacciare la celere. In un successivo confronto in piazza Verdi pochi giorni dopo, la polizia, circondata da centinaia di studenti e precari inferociti, dovette abbandonare il campo sotto le cariche della piazza. Questa fu solo una delle tante e costanti aggressioni ai processi di territorializzazione delle lotte in Zona Universitaria operati da rettore, carabinieri, poliziotti e procuratori che vedono in questi processi i pericoli reali per l’ordine che vorrebbero imporre.
Il post piazza Verdi vide un grosso consolidamento del percorso antagonista in Zona Universitaria che portò all’intensificazione delle lotte sui bisogni, che permisero di diversificare i fronti, con l’occupazione dello studentato Taksim, le autoriduzioni in mensa, cinema, mostre e teatri e l’occupazione della “biblioteca sociale” al 36. Si è quindi prodotta, a partire da questi percorsi, un’effervescenza, che ha permesso anche l’affacciarsi di nuove energie, e che ha cominciato a sfidare su un terreno concreto l’università di Dionigi, producendo il cortocircuito dell’opzione da lui incarnata. Non potendo, stretto dai lacci della riforma Gelmini, provvedere davvero alle esigenze sollevate in termini di diritto allo studio, reddito e bisogni, ha finito per ignorarle, lanciando qualche lamento sulla crisi dell’università.
Inoltre, la crisi di una rappresentanza che, stretta nei meccanismi burocratici, non riesce ad agire sul nodo università-città, ha completamente esautorato i sindacati studenteschi dal poter rappresentare istanze, che un tempo si palesavano nella forma classica di trattativa e gestione del diritto allo studio e che ora, invece, ricadono direttamente sul piano della lotta. Soprattutto per questa ragione negli ultimi anni si è assistito ad una sorta di indurimento delle lotte a cui l’istituzione accademica capeggiata da Dionigi ha dovuto far fronte tentando di disarticolare i processi di territorializzazione e conflitto sociale. Una sorta di “can che abbaia” del rettore e dei suoi pasdaran che là dove si è scontrato con esperienze reali di organizzazione del conflitto e del contropotere non ha prodotto alcun risultato, enfatizzandosi al contrario là dove la resistenza non c’è stata o si è espressa solo in forma verbale o tutt’al più stancamente vocativa, o peggio chiudendosi poi in una richiesta di grazia.
Ora la palla passa al nuovo rettore Ubertini che, in campagna elettorale, si è dichiarato contrario alla “buona scuola” di Renzi e alla repressione manu militari all’interno dell’università. Al di là delle promesse e delle mosse propagandistiche una cosa è certa: a lui spetterà la scelta di continuare a interpretare la crisi della rappresentanza e della sinistra in generale come volano per normalizzare e disarticolare la presenza politica dei percorsi antagonisti nelle facoltà, oppure accettare il dato di fatto e rimodulare la reazione su altri terreni e strategie. Fino ad ora il tentativo di utilizzare la sponda dei sindacati studenteschi contro le lotte non si è rivelata efficace proprio per la loro esternità alla fluidità delle istanze sollevate ai bordi dell’università, che non sono navigabili con la bussola della legalità o della questua liberal di maggior democrazia.
Tratto da Univ-aut-org
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