Uno sguardo sull’università alle porte del primo ciclo pienamente neo-liberale
Proprio questo limite sta, probabilmente, al centro dei processi che hanno determinato il rapporto tra conflitti e mondo della formazione in questi anni.
L’ambivalenza con cui fare i conti è complessa e allo stesso tempo ci pone di fronte all’insufficienza dell’agire politico antagonista: 20 anni di processi di riforma dell’università hanno portato alla progressiva chiusura degli spazi di contro-soggettivazione e al soffocamento complessivo degli spazi di autonomia all’interno del mondo della formazione.
Leggere questa realtà come risultato della sconfitta di lotte e movimenti all’interno dell’università è necessario oggi per costruire nuove ipotesi di antagonismo e conflitto.
Ogni tentativo di salvare un’università ormai completamente inadeguata rispetto alle nuove funzioni economiche, sociali e disciplinari che la crisi le ha imposto ha, infatti, rappresentato, come nel caso dell’Onda, il canto del cigno di quella soggettività, legata a una figura di studente che vedeva, e in parte viveva, l’università come luogo di valorizzazione personale e dei propri bisogni prima ancora che come strumento di mobilità sociale: come un istituzione, appunto, da difendere.
Questa soggettività, in crisi e sotto attacco assieme al modello di università cui apparteneva, costruisce con quel ciclo di lotta gli ultimi passaggi di mobilitazione massificata. L’incapacità di costruire un rifiuto complessivo, che sapesse respingere gli strumenti ideologici della controparte, uno su tutti la meritocrazia insieme ai suoi corollari, e l’approvazione definitiva della riforma decretano la fine di una lunga stagione di lotte e di spazi di contro-soggettivazione nelle facoltà.
Da questa disfatta il ciclo dell’università neo-liberale ha definitivamente inizio così come quello dello studente massa ha fine. Questo il punto di partenza per l’analisi di una fase che, all’alba di un nuovo e deciso attacco del governo Renzi sulla scuola di una possibile nuova riforma dell’università all’orizzonte, ci costringe a ripensare strumenti e prospettive politiche all’interno di un quadro fortemente mutato a partire dai risvolti materiali che la ristrutturazione capitalista è riuscita a imporre.
Uno sguardo sulle tendenze in corso, ricollocare l’antagonismo in università. La struttura dell’università riformata a confronto con una nuova composizione.
Solo ad anni di distanza cominciamo a ricollocare all’interno di un quadro complessivo le tendenze che attraversano i nostri atenei, ritrovando elementi comuni a partire dalle sperimentazioni che, a seconda dei territori e dell’intensità dei processi politici, chi produce conflitto e antagonismo è riuscito a mettere in campo.
Parlare di università riformata, nonostante il processo di riforma sia tutt’altro che compiuto, è corretto nella misura in cui nuovi meccanismi di governance, di valorizzazione dello studente come dei saperi, sembrano iniziare a descrivere la struttura dell’università dei prossimi anni, pronta a raggiungere il suopieno potenziale una volta sbarazzatasi della zavorra della struttura pubblica che ancora oggi la caratterizza. Connettere questo dato con quello delle trasformazioni nella composizione è centrale: parlare diuna composizione tecnica frammentata, eterogenea, che non ha più linguaggi, immaginari, forme di riconoscimento e solidarietà comuni non può che farci ritrovare, a livello soggettivo, le ricadute materiali dei processi che le riforme hanno avviato. Ancora una volta, nella dialettica tra capitale e soggetti sociali, l’avanzare della controparte e l’arretrare degli spazi di autonomia porta con sé il furto di saperi, di linguaggi e di un’identità sociale perduta e irriproducibile nei suoi aspetti ormai passati.
E’ all’interno di questo paradigma, ovvero del nuovo assetto neo-liberale dell’università caratterizzato da un altissimo livello di disciplinamento cui si associa un’articolata scomposizione del soggetto studentesco, che le tendenze in corso assumono un aspetto nuovo e capace di creare orizzonti politici inesplorati.
In ultima sintesi, in un contesto in cui il ruolo del capitale privato e finanziario all’interno degli atenei tende a divenire sempre più centrale, il salto di scala che si produce in termini di rapporto col territorio e e col mondo del lavoro disegna gradualmente una nuove geografie, nuove possibilità.
Funzione dell’università e valorizzazione, verso nuove accelerazioni delle politche neo-liberali
Cogliere queste nuove geografie e questi spazi di possibilità è prospettiva da riarticolare a partire dalla capacità di reinterpretare la funzione dell’università stessa.
In un contesto produttivo radicalmente mutato dalla preponderanza della tecnica, soprattutto a seguito dell’informatizzazione della quasi totalità dei processi produttivi, la quantità di manodopera richiesta è sempre più bassa e, anche nelle ultime isole in cui permane un’organizzazione del lavoro tradizionale basata su un modello simil-fordista, la totalità dei rapporti di fabbrica è sconvolta dalla digitalizzazione dei tempi e degli spazi di lavoro.
Di conseguenza, l’università, da porta di accesso al mondo del lavoro per un precariato flessibile, inserito in esso tramite un meccanismo di integrazione gerarchico e modellato intorno al meccanismo del voto e della competizione inter-studentesca, inizia a configurarsi come un enorme serbatoio atto all’assorbimento della disoccupazione giovanile (una metafora possibile è quella di una sorta di workhouse 2.0 in cui, però, il soggiorno costa caro e la cui permanenza è volontaria).
La cosiddetta economia della promessa ne diviene l’impalcatura e gli atenei assumono come obiettivo ultimo il contenimento di potenziali insorgenze giovanili, spente preventivamente attraverso l’emissione di cambiali virtuali sul proprio futuro, che assumono la forma di titoli di studio e lauree iper-svalutate valide solo in una dimensione del tutto ipotetica.
In sostanza, il piano capitalistico sull’università, se di piano si può parlare, tende a concretizzarsi in percorsi di studio che abbandonano definitivamente l’obiettivo della riproduzione reale della forza-lavoro (delegata alle università private nostrane e straniere), limitandosi a occuparsi di quella non soloformale, ovvero legata alla formazione di un soggetto addestrato al lavoro da gettare sul mercato, ma anche in un certo senso potenziale, categoria da definire, ma adattabile a un presente in cui il cortocircuito provocato dalla crisi economica non rende in alcun modo possibile il ricambio e la riproduzione sociale, mentre al contempo crescono le necessità di controllo e disciplinamento.
Siamo, in sintesi, di fronte a un progressivo scollamento dell’università dal piano della realtà produttiva: l’alternanza formazione-lavoro diviene qui un puro apparato ideologico il cui carburante è la competizione su tutti i livelli, da quello inter-ateneo a quello inter-studentesco, in una bella omnia contra omnes in cui uno su mille, effettivamente, ce la fa.
In quest’ottica gli atenei di serie A mantengono e implementano il loro ruolo di HUB del capitale finanziario sui territori in un meccanismo di penetrazione e ristrutturazione nella produzione dei saperi, da vendere sui mercati per aumentare i propri rankings internazionali, nella trasformazione dei territori grazie a meccanismi speculativi e legati all’indotto e come istituzioni dove il monologo della competitività può esercitarsi liberamente, continuando a garantire un accesso misurato al lavoro non pagato e iper-sfruttato. Gli atenei di serie B lottano, a colpi di razionalizzazione e privatizzazione, per entrare nelle fasce superiori, restando funzionali alla produzione di una forza lavoro potenziale, una sorta di esercito di forza lavoro di riserva che assume la formazione permanente come prospettiva e vede preclusa ogni via di avviamento al lavoro.
E’ in questo quadro che possiamo coniugare le tecniche di inclusione differenziale all’interno dell’università con l’economia della promessa, ovvero quel dispositivo che a partire dall’ideologia meritocratica permette la produzione di una soggettività studentesca disciplinata al capitale.
Qui sta il paradosso: l’università si distanzia sempre più dal piano della realtà mentre la miseria di un presente di crisi viene completamente mistificata dalle luci scintillanti di nuovi brand di ateneo tirati a lucido e completamente offuscata, da una parte, dalla promessa di un futuro che non ci sarà e, dall’altra, sostenuta dissanguando gli ultimi residui dei miseri risparmi familiari che in Italia fungono ancora da impalcatura di una società in disgregazione.
Il nodo da sciogliere intreccia, qui, differenti piani. Da quello sociale a quello politico e, in particolare, quello culturale: dove la realtà non offre più appoggi stabili e i vecchi punti cardinali crollano davanti all’avanzare della crisi, l’università appare come un rifugio rassicurante in cui nascondere la testa sotto la sabbia mentre al di fuori infuria la tempesta.
La perdita di ogni punto di riferimento culturale, unita allo sfaldarsi di forme organizzative in grado di dare risposte dal basso e massificate a questa situazione, in atenei in cui le lotte studentesche di massa assomigliano sempre di più a un ricordo sbiadito, sta producendo un processo di identificazione studente-ateneo come appiglio ultimo per non scivolare, spesso, in un completo disorientamento esistenziale.
Le ambivalenze delle pratica antagonista sino ad oggi e nuove prospettive.
A partire da quest’ambivalenza di fondo, dalla crisi delle identità che si accompagna a processi di proletarizzazione del soggetto universitario, oggi possiamo pensare e immaginare le prospettive del possibile.
Nella categoria dei bordi, intesi come luogo fluido e in costante ridefinizione, tra università e metropoli abbiamo individuato da tempo lo spazio in cui le lotte che costruiamo tra le mura dei nostri atenei possono trovare ipotesi di generalizzazione, di meticciato con le tensioni che attraversano la metropoli, per rafforzarsi, connettersi con queste e tornare nei nostri quartieri universitari forti del portato da esse acquisito. La formazione di un blocco sociale antagonista metropolitano diviene qui il nostro obiettivo di medio periodo che, proprio nel metodo politico del lavoro ai bordi, trova le sue forme embrionali.
A partire dagli spazi politici che si aprono ai bordi dell’università, bisogna saper cogliere la sfida di un agire antagonista che ambisca a mettere in crisi i dispositivi disciplinanti che si danno a cavallo di università e metropoli. In questa prospettiva ha senso mettere a critica i limiti di letture studentiste che sia in determinate pratiche che rispetto ad un orizzonte strategico complessivo hanno caratterizzato le lotte dei cicli precedenti.
Rispetto a questi possibili balzi in avanti diventa importante risignificare le pratiche dell’autogestione e dell’ auto-formazione.
Il tema dell’accesso alla cultura ad esempio può essere lo spunto per aprire un discorso di autogestione che abbia un respiro più largo: non più solo indirizzato agli spazi interni alla facoltà e al soggetto che le attraversa. Parlare di accesso alla cultura può infatti significare anche immediatamente parlare di accesso al reddito e alla gestione del territorio, nella misura in cui pone l’istanza di una demercificazione del prodotto culturale , che si fa pretesa del soggetto giovanile proletarizzato di spazi per produrre e fruire di una cultura viva. Dobbiamo quindi immaginare laboratori culturali che trovino il proprio baricentro dentro le facoltà,ma che sappiano avere uno sguardo fisso verso la metropoli.
I nostri quartieri universitari devono diventare i luoghi in cui il soggetto giovanile metropolitano si riappropria della cultura: producendola,fruendone liberamente e ,quando lo ritiene necessario, autoriducendone i costi imposti da chi la vorrebbe una merce su cui speculare.
Anche le prospettive di lotta sui temi del sapere sono da rileggere a partire da questa concezione dei bordi dell’università come spazio privilegiato dei nostri interventi. Le modalità di trasmissione e valutazione del sapere nell’università riformata sono infatti legate a doppio filo con pratiche di disciplinamento che mirano alla produzione di una forza lavoro individualizzata e precaria,cosa che fa dei seminari autogestiti un terreno eminentemente strategico su cui impostare una discorso politico che parli della riappropriazione di spazi e tempi di vita.
Questa prospettiva ci aiuta a mettere a critica le grosse insufficienze della battaglia sul sapere sin qui messa in campo e della pratica dell’auto-formazione.
Negli anni in cui l’ auto-formazione è stata cavallo di battaglia di un’ottica studentista che ammiccava a ipotesi di autoriforma, le alleanze tattiche che attraverso questa pratica si sono date con chi lavora in università hanno segnato l’incapacità dei movimenti di opporre un rifiuto complessivo delle ristrutturazioni universitarie e di pensare un’ università autonoma concretamente praticabile e da contrapporre a quello neo-liberale.
Vediamo come alcuni di quei soggetti rinchiusi in posizioni corporativiste e autoreferenziali, alla difesa dell’indifendibile,riproducano le stesse dinamiche che hanno accompagnato quella sconfitta. All’alba di una riforma che accelera i processi di disciplinamento e impoverimento già in atto, questi soggetti producono ipotesi riformiste volte a migliorare le proprie posizioni, senza tematizzare un orizzonte critico complessivo nei confronti delle modalità di produzione, valutazione e distribuzione del sapere.
Il crollo dei corpi intermedi e dell’utilità dei membri dell’accademia per costruire consenso o relazione tra università e politica istituzionale ci consegna ulteriori strumenti di riflessione. Da una parte vediamo pezzi di corpo docente o ricercatore che si staccano da percorsi istituzionali, e quindi da intercettare per costruire connessioni e pratica politica, dall’altra permangono forme organizzative che riproducono solo proposta riformista, corporativa e al ribasso con cui è impossibile strutturare una relazione strategica.
L’elemento centrale rispetto a possibili ricomposizioni con quei soggetti che lavorano nell’università deve invece necessariamente darsi sulla base di sperimentazioni a partire da una prospettiva complessiva condivisa.
Per cui non a partire da una sommatoria di rivendicazioni slegate tra di loro, ma da quelle pratiche che possono aprire a una prospettiva comune a partire dal blocco della riproduzione del sapere dequalificato, per lasciare spazio a forme di produzione autonoma che sappia attaccare passaggi centrali nelle pratiche disciplinari della controparte, una su tutte la valutazione.
Il ruolo della militanza in università alla luce di una strategia che costruisce blocco sociale antagonista
La questione dei bordi dell’università costruisce quindi nuove geografie rispetto alla sedimentazione di comportamenti e percorsi politici, di rilancio e inquadramento dell’obiettivo, così come di ricomposizione e alleanza.
Abbiamo già praticato questo metodo negli scorsi anni: la costruzione di inchiesta e organizzazione politica all’interno delle scuole, la connessione con altri soggetti in lotta, come per esempio ai cancelli della logistica, ci hanno permesso di aggiornare le forme della militanza politica a partire da una cassetta degli attrezzi composta da categorie di analisi e pratiche politiche in grado di superare i limiti di una fase che, cambiando, rendeva inutilizzabile parte del lessico e delle forme organizzative precedenti. Legare la militanza politica alle lotte sul territorio è stato lo strumento che ci ha permesso di cogliere il nuovo ruolo dell’università nella società e le sue contraddizioni. L’emergere della centralità di nuovi terreni di lotta ci ha permesso di introdurre nuove ipotesi e pratiche che ora più che mai sono utili per costruire accelerazioni in università e ancor di più nell’ottica di una ricomposizione complessiva dei soggetti in lotta sul nostro territorio.
In un’ottica strategica puntare su questo metodo ha più livelli di applicazione. Da una parte infatti ci permette di costruire nuove ipotesi per superare la frammentazione soggettiva che viviamo nei luoghi dell’università. Dall’altra permette di formulare ipotesi rispetto a nuovi livelli di territorializzazione come di sperimentazione politica, in un orizzonte che vede, nell’intrecciarsi di diversi territori resistenti, il punto di partenza per una circolarità virtuosa in grado di portare l’attacco a quei dispositivi che nella metropoli agiscono in modo trasversale sulla composizione in senso più ampio.
Una ricomposizione dentro l’università, ma che si proietti immediatamente su un terreno più ampio e metropolitano, è la vera posta in palio che ci si presenta di fronte nello sfidare il presente.
In una fase di offensiva della controparte, solo così potremo costruire un rapporto di forza che sappia essere vettore di spazi di contro-potere all’interno dell’università, di legittimità sociale e istituzionalità autonoma a partire da contrattazioni collettive che costringano la controparte a confrontarsi con il conflitto come suo referente politico. Un metodo che trova proprio nel blocco sociale quella circolarità virtuosa, quello sbocco e potenziamento complessivo, capace di farci raccogliere l’altezza della sfida che la controparte ha messo in campo.
Collettivo Universitario Autonomo Bologna
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