Venezuela: la disputa è per i territori. Ripensare un progetto di emancipazione, in tempi molto difficili
Riportiamo un interessante contributo tradotto su L’America Latina. Partendo dalla questione petrolifera e dalla crisi economica degli ultimi anni l’articolo concentra il suo sguardo sulle composizioni sociali e sui territori venezuelani.
Già da settimane si annunciavano turbolenze in Venezuela a cominciare da gennaio con l’insediamento dell’Assemblea nazionale e l’inizio di un incerto periodo presidenziale per Nicolás Maduro (2019-2025). Ancora una volta, saltano alla vista una serie di mosse politiche e geopolitiche di breve e medio termine, movimenti, alleanze e decisioni che ravvivano le tensioni già esistenti creando nuovi punti di inflessione e cambiamenti di scenario. La drammatica progressione del disastro economico e la decomposizione politica e istituzionale del paese, sommandosi ad un panorama internazionale ostile, ci conducono verso un periodo di volatilità molto maggiore rispetto a quello già di per sé di forte conflitto del 2017.
In ogni caso, tutto ciò va ben al di là dei riassestamenti del potere istituzionale e del potenziale cambio di presidente. Di fronte al collasso del modello “rentista” (1), del Petro-stato e di tutte le sue istituzioni, la disputa per il controllo delle rendite petrolifere ha perso centralità dirigendosi con più forza verso l’appropriazione diretta delle risorse e il controllo dei territori.
Mentre l’attenzione è quasi interamente focalizzata sull’esito del conflitto ai vertici del potere, la verità è che da diversi anni è in atto un intenso processo di deterritorializzazione (2) e ricolonizzazione lungo tutta la geografia venezuelana che sta provocando un enorme impatto non solo sul tessuto sociale, nella correlazione di forze, negli ecosistemi e nella riproduzione della vita socio-ecologica, ma anche nella forma stessa della sovranità politica nel paese.
È chiaro che lo Stato/Governo di Nicolás Maduro sta svolgendo un ruolo chiave in questo complesso processo di ricolonizzazione, intensificando la logica estrattiva, infliggendo un brutale aggiustamento economico sui territori (zone economiche speciali, mega-progetti come l’Arco Minerario dell’Orinoco A.M.O., tra gli altri), mentre allo stesso tempo diventa politicamente molto aggressivo e autoritario e, di fatto, ha soppresso lo stato di diritto (stato di eccezione permanente, zone militari speciali, ecc.).
Tuttavia, nonostante si vorrebbe ometterlo in alcune analisi, non è l’unico attore gioco. In realtà, non è nemmeno un attore solido ed omogeneo. La crisi egemonica iniziata nel 2013 con la morte di Chávez e le metastasi della corruzione si uniscono alla straordinaria crisi economica che paralizza e rende caotico il paese, cosa che fa sì che il Petro-stato venezuelano oggi sia poco più di una collezione di gruppi di potere (che presentano conflitti e tensioni tra loro) e un insieme di istituzioni precarie e incoerenti.
L’impatto di questa Grande Crisi (2013-2019) è stato così profondo che ha smosso e dato una nuova dimensione alle molteplici contraddizioni e tensioni territoriali già esistenti, mentre i territori sono in balia dei flussi selvaggi della tardiva e scomposta globalizzazione attuale. Lungi dall’essere omogenea, ci troviamo di fronte una cartografia politica frammentata, molto mobile e volatile: una parte della società venezuelana, precarizzata, migra da una economia formale svuotata a queste dinamiche di appropriazione diretta delle risorse e controllo dei territori; prolifera il paramilitarismo nelle sue varie forme; le bande criminali e i sindacati minerari; settori militari corrotti che esercitano un potere feudale; fronti della guerriglia “smobilitati” (ex FARC) o no (come l’ELN); potenti settori di allevatori di bestiame e proprietari terrieri; e la crescente influenza/presenza, diretta o attraverso intermediari, delle corporazioni transnazionali. È il capitalismo globale 2.0 allo scoperto.
Non si possono comprendere questi processi mediante un codice binario/lineare, polarizzato, o semplicemente come gli interessi della Nazione contro l’Impero. I gruppi in conflitto agiscono in base a interessi particolari/locali o si articolano fino a far parte di reti regionali, nazionali e internazionali collegati ai mercati globali delle materie prime, legali o illegali. In questa molteplicità di livelli possiamo parlare quindi di una geopolitica della regione della Guayana, una geopolitica de Los Llanos, una geopolitica dell’Amazzonia, ecc.
In ogni caso, tutti gli attori menzionati sono agenti di accumulazione per espropriazione e, in un modo o nell’altro, operano attraverso una logica di guerra. Su questo punto, anche se non fossero articolati tra di loro, coincidono. Costituiscono le diverse strutture di potere che promuovono una ri-territorializzazione dell’esproprio e del saccheggio, e sembrano condurre il Venezuela a riconfigurarsi come una o un insieme di economie di enclave.
Cartografie del saccheggio, guerre e resistenza: alcune coordinate
È impossibile presentare le molteplici caratteristiche e tonalità delle dispute territoriali a livello nazionale. Possiamo solamente menzionare alcune di esse e le tendenze in modo generale.
Oltre al crollo del capitalismo basato sui proventi del petrolio (3), le aree delle enclave petrolifere sono entrate in declino (così come le città di riferimento). Ciò ha favorito un auge molto significativo delle diverse economie informali di estrazione. Le logiche di potere e di appropriazione sono ora rivolte con forza al controllo della terra, dei territori e alle possibilità di estrazione delle risorse (oro, diamanti, coltan, legname, specie protette, ecc.) e persino dell’acqua, così come al controllo dei movimenti della popolazione, delle merci, dei corridoi strategici e del commercio transfrontaliero.
La regione della Guayana e quella amazzonica – cioè le nuove frontiere delle materie prime venezuelane – probabilmente sono le aree in cui assistiamo a queste dinamiche con maggiore crudezza. Le principali zone aurifere, nella Riserva Forestale di Imataca (a est dello stato Bolivar), sono attraversate da logiche di guerra dove si sono formati dei feudi minerari dominati da bande criminali, militari corrotti e/o settori della guerriglia colombiana, cosa che non esclude il verificarsi di scontri a fuoco con componenti delle Forze Armate, principalmente attraverso operazioni militari. Le nuove frontiere delle commodity sono fondamentali nella ridefinizione del progetto estrattivo venezuelano, ma allo stesso tempo servono anche per l’arricchimento e il consolidamento di interessi particolari ed il posizionamento territoriale in relazione al conflitto politico nazionale. Ecco perché l’evoluzione di quanto accade in queste aree è così importante.
Questi processi hanno già prodotto metastasi nell’area, espandendosi con grande forza dalla metà del passato decennio e specialmente nel momento di crisi attuale. Si sono intensificati nel bacino del Caroní, nel Parco di Canaima, nel bacino del fiume Paragua, a sud-est dello stato Bolivar (confine con il Brasile) e nel Caura, così come nei territori Yanomami e nei municipi nord-orientali dello stato di Amazonas. Allo stesso modo è accaduto con il coltan dal nordovest di Bolivar fino all’asse autostradale e al confine di Amazonas con la Colombia a sud per l’oro.
I conflitti tra gruppi armati e l’installazione dell’A.M.O. (Arco Minerario dell’Orinoco) hanno generato violenza, morti e spostamenti forzati. Diverse popolazioni indigene hanno opposto resistenza, come i Pemón, Yekwana, Yabarana, Wótjüja, Yanomami tra le altre, ma molte di queste comunità si sono anche incorporate sempre di più all’estrazione illegale di minerali. Per diversi anni i Pemón hanno combattuto duramente contro gli spostamenti forzati e l’espropriazione e costituiscono oggi uno dei principali bastioni della resistenza in questi territori (4).
Le operazioni di estrazione si stanno espandendo rapidamente in tutto il paese secondo una logica di saccheggio. Non solo nel sud: miniere metalliche (come l’oro nello stato Carabobo o Yaracuy) e non metalliche (sabbia e calcare tra le altre) proliferano su tutta la geografia nazionale. Quest’ultime sono favorite soprattutto da militari corrotti per il loro usufrutto personale provocando deforestazione, deviazione dei fiumi e conflitti con le popolazioni locali. Una situazione simile si sta verificando con il legname.
Nell’estesa regione dei Llanos, dal 2001 ad oggi, si sono intensificati i conflitti per la terra lasciando un bilancio di oltre 350 contadini uccisi. In questo periodo di crisi sono aumentati gli sfratti arbitrari nelle terre recuperate dalle comunità contadine e riappropriate dai latifondisti. I contadini sostengono di essere stati abbandonati dalle istituzioni governative, di essere assediati e perseguitati, criminalizzati, sottoposti a giudizio, minacciati e in molti casi uccisi dai paramilitari e dai sicari assoldati dai proprietari terrieri e dai grandi latifondisti. Sono state registrate aggressioni negli stati di Barinas, Portuguesa, Monagas, Anzoátegui, a sud del lago di Maracaibo (Zulia), Apure, Cojedes, Trujillo, Guárico e Mérida. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi omicidi di contadini, come i due appartenenti alla tenuta Hato Quemao (Barinas), il dirigente contadino del Partito Comunista del Venezuela Luís Fajardo (a sud del Lago di Maracaibo) e più recentemente (12/01/19) José “Caballo” de La Cruz Márquez sempre a sud del lago.
Il 12 luglio del 2018 un gruppo di 200 contadini che fanno parte della Piattaforma di Lotta Contadina ha iniziato una marcia di 21 giorni da Guanare (stato delle pianure di Portuguesa) percorrendo a piedi i 430 km fino a raggiungere la capitale Caracas. È un fatto che rappresenta una mobilitazione inedita in Venezuela con importanti ripercussioni politiche per i movimenti popolari. I contadini chiedono giustizia per gli assassinati e denunciano la partecipazione di agenti di sicurezza della Guardia Nazionale e della Polizia Nazionale Bolivariana ad attacchi contro di loro. Inoltre hanno sollevato la necessità di riorientare il modello agricolo, riconoscendo i contadini come asse centrale della sovranità alimentare nel paese. Queste mobilitazioni mostrano la necessità di riorganizzazione e rilancio del movimento contadino date le crescenti minacce a cui è esposto.
Gli stati del Zulia e del Táchira, come è noto, sono aree sovraccariche di interessi economici e conflitti, la chiave per il miliardario commercio illegale di contrabbando e l’estrazione transfrontaliera tra Venezuela e Colombia, ma incidono anche nella dinamica delle difficili relazioni tra i due paesi. Numerosi attori armati – in gran parte provenienti dal conflitto colombiano – sono entrati in Venezuela posizionandosi in vari territori ed entrando nelle intense dispute per il loro controllo così come nel business del contrabbando di benzina e di prodotti alimenti fra le altre cose. Vogliamo sottolineare, nel caso del Zulia, l’assedio a cui sono stati sottoposti negli ultimi anni gli indigeni della Sierra di Perijá (Yukpas) e La Guajira (Wayuu), che si è intensificato nei confronti delle famiglie del cacique Sabino Romero, assassinato nel 2013, e della cacica Carmen Fernández con il sequestro e la tortura dell’insegnante yukpa Mary Fernández, figlia di Carmen, e il trasferimento coatto della comunità di Kuse – sostenuta dalla cacica.
Infine le zone urbane, attraversate dalla precarietà, sono teatro di intense dispute per il controllo dei quartieri, del commercio e dei corridoi strategici. Le bande criminali sono riuscite ad ampliare la loro capacità organizzativa e di fuoco e sono riuscite persino ad articolarsi con settori corrotti dei corpi di sicurezza dello Stato. Questi svolgono frequenti operazioni di repressione nei quartieri popolari (come l’Operazione per la Liberazione del Popolo) e attraverso il dispiegamento di forze speciali che agiscono senza maggior controllo in lungo e in largo per le città del paese.
I giochi sono abbastanza aperti e la geografia venezuelana scricchiola, strattonata dai molteplici attori dell’esproprio e della ricolonizzazione. Quando nella scena politica dei partiti talvolta le cose sembrano in stallo, nella vita materiale delle comunità questi processi avanzano rapidamente a dimostrazione che, in larga misura, in Venezuela la disputa è per i territori.
Epilogo. Ripensare un progetto di emancipazione, in tempi molto agitati?
È difficile analizzare questi scenari senza fare paragoni con altre esperienze come quella colombiana, l’America centrale o alcuni paesi africani come il Congo. In questo caso, la domanda è se non stiamo assistendo alla configurazione di strutture territoriali e, soprattutto, logiche di potere mediate dalla guerra. E se così fosse, la seconda domanda è come ribaltare questa situazione. È essenziale non vacillare nei tentativi per costruire un’alternativa politica per il paese che vada oltre i due principali progetti neoliberali/autoritari in discussione (Governo Maduro e Fronte Amplio/Volontà Popolare et al), un’alternativa che possa favorire il riemergere delle potenzialità popolari e la nascita di nuove culture politiche sensibili alla vita socio-ecologica. Se tale scenario non fosse reversibile nel prossimo futuro, è chiaro che i popoli hanno diritto alla propria difesa. In questo caso, ciò significa ripensare un progetto di emancipazione, in tempi molto agitati.
1 NdT, basato sui proventi del petrolio.
2 Intendendo la “deterritorializzazione” come un processo di rottura e sconvolgimento di un determinato territorio nella sua configurazione socio-culturale, metabolica ed ecologica. La deterritorializzazione nel sistema capitalista è solitamente determinata dall’apertura forzata e violenta di nuovi processi di spoliazione e accumulazione di capitale, e per i paesi del Sud Globale può implicare varie forme di perdita del territorio.
3 NdT, l’espressione nell’originale è “capitalismo rentístico”.
4 Si veda http://www.ecopoliticavenezuela.org/2018/12/13/video-consejo-caciques-del-pueblo-pemon-denuncia-al-ministro-padrino-lopez/.
Scritto da Emiliano Terán Mantovani per Rebelión
Tradotto da Daniele Benzi per L’America Latina
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