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Nuovo tentato golpe contro Maduro, Venezuela in bilico

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Situazione tesissima in Venezuela dopo che il neo-presidente del parlamento, Juan Guaidó, si è auto-proclamato Presidente ad interim al post di Maduro.

Guaido ha dichiarato, davanti a decine di migliaia di persone, di non considerare legittimo il governo dopo le ultime elezioni chiedendone di nuove. Pochi minuti dopo l’annuncio di questo 35enne leader del partito Voluntad Popular, finora sconosciuto nel panorama politico venezuelano è stato riconosciuto da Donald Trump come presidente legittimo. Al riconoscimento americano sono seguiti quelli di Argentina, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Panama, Paraguay e Peru mentre le posizioni europee sono ancora in bilico. Dopo un anno drammatico, gli eventi sono precipitati di nuovo, lunedì scorso ventisette militari si sono barricati in una caserma al nord di Caracas lanciando appelli all’insurrezione prima di essere arrestati. Ne erano seguiti scontri in diversi quartieri della capitale e l’appello a scendere in piazza in una giornata altamente simbolica, quella del 23 gennaio anniversario della caduta della dittatura di Marcos Perez Jimenez nel 1958. È stato proprio questo il giorno scelto da Guaido per proclamarsi presidente rinforzando una giornata di tensioni annunciate. La situazione è piuttosto confusa ma si registrano scontri in diversi quartieri della capitale e si contano già più di una decina di morti mentre Maduro, per bocca di Diosdado Cabello, numero due del partito socialista, ha chiamato alla contro-risposta popolare e ha deciso ieri di espellere i diplomatici americani dal paese. Grande importanza sarà rivestita ovviamente dall’esercito, nonostante l’amnistia offerta dal parlamento ai militari, per ora solo qualche sparuta unità della guardia nazionale e della polizia ha raggiunto l’opposizione. La fedeltà dell’esercito alla rivoluzione bolivariana non sembra per ora in dubbio e ieri Vladimir Padrino Lopez, il ministro della difesa, ha ribadito il sostegno dei militari a Maduro.

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 Gli eventi degli ultimi giorni si inseriscono in un quadro complesso di cambiamento di alcuni equilibri geopolitici e interni al paese. 

Da una parte, parallelamente al disimpegno americano in Medio oriente marcato dalle ultime due amministrazioni, sembra riaccendersi un’attenzione statunitense per quello che si continua a considerare il proprio cortile di casa. Il segno più visibile di questo cambiamento di passo, rinforzato dall’arrivo di Donald Trump alla Casa bianca, è stata la creazione, nel settembre del 2017, del gruppo di Lima, un’organizzazione internazionale nata in reazione alla mancata esclusione del Venezuela dell’OAE (Organización de los Estados Americanos). Dopo anni di governi progressisti una sorta di blocco conservatore sembra delinearsi in America Latina, la recente elezione di Bolsonaro in Brasile ne è forse il simbolo più terribile ed evidente. Un processo che non si dà senza tensioni. Al di là della resistenza dei ceti popolari venezuelani, per la maggior parte schierati nonostante tutto con la rivoluzione, restano tensioni ineliminabili legate al cambiamento del rapporto tra economia USA e resto del continente americano nella strategia di parziale re-shoring, ritorno in patria, di alcune attività industriali promosso da Trump. La riforma del NAFTA, in questo senso, non rappresenta che un parziale successo e il mancato immediato riconoscimento da parte messicana del nuovo presidente auto-proclamato è piuttosto significativa.

Sotto il mare agitato ritroviamo le vere correnti che determinano la tempesta in superficie. Ci riferiamo ovviamente alla inevitabile perdita di centralità dell’economia americana e sopratutto del dollaro. La sguaiata interferenza americana degli ultimi mesi arriva nel contesto di un massiccio piano di investimenti cinese in Sud America che ha portato la Cina ad essere il terzo partner commerciale (leggasi petrolifero) del Venezuela, dopo USA e India. Una relazione di partnership formalizzata e rinforzata da Maduro durante una visita a Pechino nel settembre scorso in cui sono stati firmati 28 accordi di cooperazione economica. Per ora non ci sono state reazioni marcate della discreta diplomazia cinese mentre si parla di irritazione russa per la fuga in avanti americana anche visto lo sfilacciamento dell’opposizione di cui Guaidó rappresenta soltanto una parte.

Al di là delle tensioni internazionali, la parola ora, come ha detto lo stesso Maduro, torna al popolo. Sono stati anni di crisi economica devastante che hanno ridotto alla fame una buona parte della popolazione. Certo eterodiretta da parte USA e dagli ambienti industriali locali ma che marca anche i limiti di un modello di sviluppo fortemente dipendente dall’industria estrattiva e dall’indebitamento esterno che ha spinto il governo socialista a lanciare un vasto piano di ristrutturazione economica e una nuova moneta, il bolivar sovrano, che però non sta fermando le dinamiche di iperinflazione. Nonostante le allusioni statunitensi, un intervento diretto yankee resta improbabile. Rimane, appunto, da capire come si muoverà il popolo venezuelano, soprattutto fuori Caracas, se questa nuova crisi riconnetterà lo PSUV con la sua base storica, in parte tiepida negli scorsi mesi e fiaccata dalla crisi.

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