Vetrine in frantumi: una riflessione sulla manifestazione Noexpo
Davide Pittioni (www.chartasporca.it)
Partiamo di una banale constatazione: Noexpo non era una manifestazione lanciata per il giorno dell’inaugurazione dell’esposizione universale. Era molto, ma molto altro ancora, con sette anni alle spalle di riflessioni, dibattiti, iniziative fatte per analizzare e criticare minuziosamente il modello che si stava producendo. Cemento, debito, precarietà, così è stato riassunto. Qualcuno ne ha parlato? Forse, in qualche angolino, negli ultimi giorni, ma sempre a margine del racconto di un pericolo imminente di scontri. Puntualmente avvenuti. Aggiungiamone un’altra: Expo sarà un’esposizione sul tema di “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Se ne è parlato, di questi contenuti, oltre i bei sentimenti che suscita l’intenzione di nutrire il pianeta intero? Non è proprio uno slogan facile: riguarda direttamente la distribuzione delle ricchezze, gli assetti sociali del pianeta, in definitiva l’intera macchina capitalistica nel suo complesso. E dubito che tra i padiglioni si affronterà tutto questo. Si è discusso delle modalità con cui un’esposizione mastodontica avrebbe trattato questo tema così cruciale? si è incrociato il suo contenuto con il guscio che avrebbe dovuto contenerlo? si è provato ad andare oltre i tronfi discorsi istituzionali che esaltavano la bontà di expo? No, semplicemente si è fatto finta di niente. Di qua e di là, il tema è rimasto tra parantesi, come ininfluente, e molti non a caso hanno parlato di una semplice operazione di social e green-washing. Gli unici che alla fine sono andati a fondo nella questione sono stati i comitati e i movimenti contrari all’Esposizione. Ma totalmente ignorati.
La vetrina è il simbolo di quanto è successo. O meglio della sua rappresentazione. Expo, vetrina dell’Italia nel mondo. Noexpo, le vetrine che vanno in frantumi. Tutto è rimasto su questo piano dell’apparenza, della messa in mostra. Questo non è il distinguo, il “sì, ma…” di cui si inizia a chiacchierare. È l’unica narrazione possibile. Che ora si alzino i cori dell’indignazione è semplicemente l’ennesima conferma di ciò che si è andato costruendo, mediaticamente soprattutto, attorno all’Esposizione. Ma la cronaca è la cronaca e se una città viene devastata bisognerà pure parlarne. Ed allora ecco i primi commenti a caldo. Fabrizio Gatti sull’Espresso scrive: “quelli che hanno organizzato la manifestazione, i soliti voltagabbana che con la loro ambiguità si trasformano in cavalli di Troia, lo devono ammettere: Milano, medaglia d’oro della Resistenza, ha aperto loro le porte e loro non hanno vigilato”. Altri si lamentano del servizio d’ordine. Altri del Ministro dell’interno. Insomma la questione è ancora di forma e riguarda la semplice scorza delle cose. Benissimo, parliamo di questo.
Al corteo c’ero. Ricordo una volta arrivato di aver pensato: “qui non si scherza”. Non era il tempo del gioco e dell’ironia come in molte altre manifestazioni, perché c’era in ballo molto. L’Italia al centro del mondo, la faccia del nuovo governo, la mobilitazione di tutti quei temi – dalle grandi opere al precariato – al centro dell’attenzione da molti anni. Quel corteo non sarebbe stata una sfilata. Forse per qualcuno, per i gruppi più organizzati, i sindacati di base per esempio. Gli altri invece esprimevano la chiara intenzione di far saltare il banco. Rovinare la “festa” che a poca distanza era ormai cominciata. Gli organizzatori non erano quindi per nulla ambigui. O meglio lo sono sembrati solo se si prova – mancando inevitabilmente il bersaglio – a dividere i 200 violenti dai 30000 pacifici. Non era così. Non esprimo un giudizio di valore nel dire che se di elementi radicali ed estremisti si vuole parlare, allora bisogna fare i conti con una “quasi” maggioranza. Il discorso consolante cade qui: non illudetevi che fossero poche centinaia. Che negli scontri più violenti fossero coinvolti solo alcuni è effetto del caso, di una certa gestione delle cose. Provate a immaginare 30000 persone, distese su parecchie centinaia di metri: i movimenti non sono fluidi, la comprensione di quello che accade è parziale, le decisioni sono improvvise. Eppure – controcorrente – mi sento di dire che i servizi d’ordine hanno, in fondo, funzionato. Erano tanti, perché “settoriali”, ma si sono mossi con prontezza, evitando che il corteo esplodesse, facendolo scorrere oltre il punto di arrivo quando le cariche – o meglio l’avanzata – della polizia spingeva sulla piazza conclusiva.
I primi messaggi che arrivavano dagli amici erano di preoccupazione: “Che succede? Tutto bene?”. Altri già di condanna: “Non sono cose che devono succedere!”. Li condivido, ovviamente, ma preferisco evitarne la trappola. Se i distinguo sono necessari, bisogna farli con attenzione. Non tutti spaccano le vetrine o bruciano macchine. Queste sono effettivamente frange piuttosto circoscritte. Ma molti, alla fine, non se la prendono troppo: ci sono vetrine e vetrine, la cose non hanno lo stesso valore delle persone, della fame, della povertà. Ma non c’erano solo le vetrine: c’erano le “azioni” concordate, i tentativi di sfondare la “zona rossa”, di “segnare” quei luoghi che esprimevano i punti della contestazione. I giornali alla fine hanno confuso un po’ tutto nelle tute nere. Ma è una lettura semplificata, tutto sommato inutile. Lo dicevo prima: il corteo era radicale nel complesso, prima di ogni scrematura.
Quello che mi interessa non è comunque dare un giudizio sulle modalità della manifestazione, su quelle legittime e quello no, su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. È una riflessione che riguarda ognuno di noi e che lascio volutamente in sospeso. Mi preoccupa di più il piano in cui è stato calato l’intero dispositivo Expo. Un contesto mediatico, che oltre la pappa indistinta delle condanne e delle accuse, è veramente andato in frantumi. Oggi i giornali parlano di questo. L’inquietante riflessione che mi prende quasi alla spalle è che su questo piano i “violenti” avessero ragione e alla fine vinto. Non è detto, fortunatamente, che debba essere l’unico.
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