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Via Toselli. Una resistenza che indica la luna

 

Ci sono giornate che lasciano il segno. Tasselli importanti di una storia che quotidianamente le lotte scrivono. Non in virtù di una dimensione eroica di certi comportamenti, ma della capacità di spostare più in là il confine del possibile, di agire una rottura. La resistenza allo sgombero di via Toselli crediamo sia sicuramente tra queste. L’abbiamo vissuta insieme ai tantissimi che tra la giornata di giovedì e quella di venerdì hanno deciso di sostenerla attivamente, e sulla base di questa esperienza vogliamo esprimere alcune considerazioni.

Partiamo da una banalità: è successo qualcosa di straordinario. Una resistenza coraggiosa, determinata, generosa, che ha messo a dura prova un dispositivo di polizia imponente, violento, arrogante. Le barricate, il tetto, la strada, i blocchi, le cariche, il partecipato corteo del venerdì. La cronaca la conosciamo tutti e non è qui importante ripercorrerla ma ragionare intorno ad alcuni nodi.

Il rimbalzare delle prime notizie parlava immediatamente di uno scontro duro e di una resistenza tenace messa in campo dagli occupanti. Arresti, lanci di lacrimogeni. “Qualcosa sta succedendo, andiamo”: crediamo sia stata proprio questa tenacia a rappresentare il più forte appello muto alla mobilitazione, ciò che ha portato decine e decine di giovani e giovanissimi a raggiungere gli sbarramenti di polizia in via Porte Nuove, a unirsi tutti alla sfida già accettata con determinazione dai ragazzi all’interno dello stabile. Lì abbiamo visto tante facce nuove, e ci è sembrato subito chiaro che si era aperta una partita che andava ben oltre la difesa di uno spazio occupato. E questi probabilmente sono stati i presupposti che hanno dato vita a un presidio che non si è accontentato di testimoniare la “solidarietà” ai compagni sul tetto e a quelli già portati nelle celle di via Zara. Mettere i propri corpi davanti al camion dei pompieri (che voleva raggiungere l’occupazione per partecipare alle operazioni di sgombero) è stato naturale. Come è stato semplicemente naturale non fare un passo indietro di fronte alla minaccia dei funzionari di polizia che di lì a pochi minuti avrebbero dispiegato una buona dose di manganellate. Poco importa, quando si sa di essere schierati dalla parte giusta. Perché è in momenti come questi che ci si ricorda quanto sia irrinunciabile e prezioso praticare (e non solo enunciare) un “No!”, un’indisponibilità, una rigidità. Costi quel che costi, tanto rimarremo in piedi. Qualcosa di simile crediamo abbiano pensato i compagni che hanno pagato con l’arresto la resistenza dentro lo stabile, e il sorriso con cui hanno affrontato la faccenda ci dice chiaramente quanto la repressione possa poco di fronte a una certa determinazione soggettiva.

Insomma, la resistenza allo sgombero di via Toselli è stato uno di quei momenti in cui la difesa di un’esperienza specifica riesce a parlare oltre se stessa, utilizzando il linguaggio del rifiuto e dell’insubordinazione. Quando il conflitto riesce a essere elemento centrale di aggregazione. Quando dentro una dimensione di scontro si intravedono delle possibilità di ricomposizione, anche se ancora tutte da interrogare e sviluppare. Ben fatto!

E’ evidente come la resistenza testarda abbia parlato a una voglia di riscatto e rifiuto che vive tra i giovani di questa città troppo pacificata. Ma non solo. Tantissimi (anche tra i meno giovani) nelle occupazioni abitative della zona hanno vissuto la resistenza di via Toselli come qualcosa di proprio. Alcuni, passando, si sono uniti al presidio. Con tantissimi compagni di lotta per la casa, occupanti e inquilini sotto sfratto, abbiamo partecipato al corteo del venerdì. Nessuno, probabilmente, aveva mai messo piede dentro lo spazio di via Toselli, né aveva partecipato alle tante iniziative sociali che hanno animato il posto. Eppure quelle barricate erano anche le loro. Perché dall’altra parte ci sono gli stessi poliziotti, gli stessi speculatori, le stesse merde con cui chi lotta per la casa quotidianamente si scontra. Quanto è vero che il conflitto, un essere-contro sostanziato dai fatti, può essere capace di connettere e unire in poche ore ciò che fino al secondo prima sembra irrimediabilmente distante!

E forse così distante non è… non solo perché la pratica dell’occupazione e della resistenza agli sfratti e agli sgomberi è patrimonio di un pezzo di proletariato metropolitano. Ma sopratutto perché la sfida che abbiamo tutti davanti è ricomporre un essere-contro diffuso, vissuto e agito da un’eterogeneità di composizioni sociali, nella consapevolezza che le linee di connessione non si danno necessariamente tra pratiche identiche nella forma. Lo sguardo, piuttosto, dobbiamo volgerlo alla sostanza dei comportamenti. I pugni sbattuti sulle scrivanie degli assistenti sociali dagli inquilini sotto sfratto per pretendere ciò che viene negato, le barricate di mobili per bloccare gli sfratti a sorpresa, la tenacia di un gruppo di giovani nel difendere un’occupazione che è casa ma anche spazio di autogestione e pratica di alterità, fino ad arrivare ai muri di filo spinato buttati giù dai migranti ai confini dell’Europa: tutti comportamenti con cui diverse soggettività praticano la propria ostilità verso lo stato di cose presenti, assumendo la contrapposizione come strumento di riscatto personale e collettivo. Come ricomporre queste soggettività dentro un processo che guardi alla massificazione dei comportamenti di rifiuto e all’approfondimento dei conflitti? Si tratta di un processo complesso, in cui non ci sono formule magiche. Sicuramente, ci sentiamo di dire, momenti di intensità come questi, dove la pratica di nuovi livelli di conflittualità viene agita fuori da una dimensione autoreferenziale/autistica, ci aiutano ad andare nella direzione giusta.

E’ davvero poco interessante mettersi a ragionare su tra quali barricate di quale piano dell’edificio sarebbe stato più opportuno produrre una resistenza. Né ci sembra che la questione sia stabilire quale sia la soglia minima di resistenza da raggiungere, ma preferibilmente non oltrepassare, durante uno sgombero per salvarsi da chissà quale “disonore”. Chi lo fa sbaglia punto di vista, o cerca di dare risposte alle domande sbagliate.

Dopo che un’eccedenza importante come quella espressasi tra giovedì e venerdì, possiamo davvero ridurre il ragionamento a quali sono le forme e le tecniche migliori per difendere e riprodurre ciò che già c’è? Siamo sicuri che il costo giudiziario di una resistenza vada valutato in base alla capacità di fare la differenza rispetto a una ritirata della polizia e non soprattutto a ciò che riesce a produrre fuori? In questo caso si è prodotto sicuramente troppo per guardare il dito di una resistenza che indica la luna.

Abbiamo parlato di nuove possibilità che si aprono. E che vanno praticate. Il “come” non è semplice né già dato. Possiamo solo continuare a interrogarci. Ci sembra evidente la necessità di nuove occasioni per confliggere per una soggettività che dai banchi di scuola ai luoghi della precarietà cova rabbia, rifiuto e voglia di mettersi in gioco. Per scommettere su un processo che ci porti dalla resistenza all’attacco. L’autunno che si aprirà potrà essere una di queste, alla ricerca di uno scontro capace di essere esplicitamente politico e allo stesso tempo strettamente legato all’insopportabilità di una condizione sociale condivisa da migliaia di giovani? Potrà essere lo spazio di ricomposizione di composizioni sociali diverse a partire da un essere-contro comune?

Noi crediamo di sì.

Iniziativa Antagonista Metropolitana

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