Xi in Italia, prosegue la corsa cinese all’egemonia globale
A partire dal prossimo giovedì 21 Marzo il presidente cinese Xi Jinping sbarcherà in Italia per una visita di Stato, prima tappa di un tour europeo che lo porterà anche in Francia e nel Principato di Monaco. Nelle scorse settimane la discussione politica si è molto concentrata sul significato di alcuni eventi previsti durante la permanenza di Xi nel nostro paese. In particolare, è la prevista firma di un Memorandum di Intesa con Pechino ad aver scatenato una serie di reazioni contrastanti.
Con questo Memorandum, l’Italia entrerebbe di fatto all’interno delle Nuove Vie della Seta (o Belt and Road Initiative), progetto geopolitico cinese di cui abbiamo lungamente parlato in altre occasioni. L’accordo dovrebbe includere investimenti cinesi in ambito infrastrutturale, energetico e delle telecomunicazioni. Per quanto non ci sia ancora un testo definitivo e ufficiale dell’accordo, dal punto di vista politico il governo italiano lancia comunque un segnale importante.
Il primo dato che interessa sottolineare a questo proposito è che una simile mossa sarebbe stata impensabile solo qualche anno fa. Personaggi come Romano Prodi, da sempre alfieri di un impegno tra Italia (attraverso l’Unione Europea) e Cina, si erano sempre dovuti scontrare con l’opposizione statunitense. Nonostante l’intervento di Mattarella, custode della collocazione geopolitica italiana, il governo sembra in questo caso tirare dritto. Un po’ come – sebbene su altri livelli – riguardo alla questione venezuelana, quindi, la tradizionale influenza americana sulla politica mondiale e in particolare sui suoi “giardini di casa” sembrerebbe sempre più affievolirsi.
Ciò non vuol dire che sia annullata, anzi. La reazione statunitense, espressa da un intervento del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale USA Marquis, ha di fatto costretto i gialloverdi a dei passi indietro quantomeno in termini retorici. A minimizzare, a parlare di accordo puramente commerciale, a negare l’esistenza di una svolta strategica. Lo stesso premier Conte ha stemperato i rischi di colonizzazione da parte cinese dell’Italia e in particolare dei suoi porti, affermando che la firma del MoU sia compatibile con la permanenza nella Nato e nella UE. Salvini e Giorgetti, benchè non campioni di atlantismo (sono noti i rapporti della Lega con Putin), si sono espressi in maniera scettica sull’accordo.
Ma sta di fatto che, se tutto sarà confermato, l’Italia sarà il primo paese del G7 a firmare una intesa con la Cina su quello che di fatto è un progetto assolutamente strategico, promosso dal principale rivale geopolitico americano. I cinesi non amano parlare di “ nuovo piano Marshall” in merito al loro progetto, come spesso viene fatto dai detrattori della BRI, da quelli che vogliono sottolinearne gli aspetti politici. La retorica utilizzata da Pechino è piuttosto quella della cooperazione win-win, vale a dire quella in cui entrambi i contraenti ottengono benefici, focalizzandosi principalmente su temi economici.
Eppure, se guardiamo al Pakistan, alla Malesia, allo Sri Lanka, a decine di paesi africani, vediamo che in realtà la Belt and Road Initiative è fondata sul debito. Debito contratto dagli stati con aziende cinesi per la costruzione di infrastrutture. Debito che poi si risolve nella cessione totale o nel controllo delle infrastrutture stesse. Debito che di fatto diventa poi strumento di influenza politica.
Anche un nostro vicino geografico, la Grecia, conosce molto bene queste dinamiche. Da anni ormai il porto del Pireo, uno dei principali snodi logistici del Mediterraneo, è in mano alla compagnia cinese Cosco. Negli anni questo si è tradotto in una sorta di “cinesizzazione” delle relazioni tra capitale e lavoro. Limitazioni al diritto di sciopero, riduzioni salariali, peggioramento delle condizioni lavorative e via dicendo.
Un destino che potrebbe toccare a porti come quelli di Genova e di Trieste, in procinto di firmare accordi con imprese pubbliche e private cinesi. Porti al centro degli interessi di Pechino, che potrebbero ricevere una pioggia di investimenti per renderli adeguati alle esigenze commerciali della BRI. Esigenze commerciali che significano collegamento logistico con i ricchi mercati nordeuropei. Ma anche una probabile invasione di merci cinesi all’interno del nostro mercato, in una logica di ultra-globalizzazione che è proprio quella che a parole gli esponenti gialloverdi criticano fortemente. Con probabile conseguenze proprio sui livelli occupazionali e sul tessuto economico del nostro paese, già provati da cicli continui di austerità.
Ma perchè l’Italia allora insegue a tutti i costi la Cina, al punto tale da non voler aspettare una posizione comune sulle relazioni industriali e commerciali sino-europee che è in costruzione, anche se tra mille difficoltà? Al punto di mettere in discussione anche l’attuale configurazione economica, basata su piccole e medie imprese che potrebbero entrare in grosse difficoltà? Perchè, banalmente, la Cina è un’occasione troppo ghiotta di profitti per il mondo imprenditoriale di livello alto, del Grande Capitale pubblico e privato.
Questo non ha più quello americano come mercato privilegiato, ed è anzi ansioso di sfondare il prima possibile in quello cinese. In occasione del meeting, dovrebbero infatti essere firmati più di venti accordi tra grandi aziende e la Cina. Accordi che riguardano enti come Cassa Depositi e Prestiti, Fincantieri, Eni, Enel, Unicredit e Intesa. Gli affari stanno sopra la politica e la geopolitica, anzi le ridefiniscono. Avere buoni rapporti con la Cina significa anche relazioni utili per ottenere appalti in continenti come quello africano ad esempio, dove la Cina è sempre più egemone.
Conte ha parlato di “opportunità per le imprese”, Tria di “treno su cui non si può non saltare”. Eppure, il vero tessitore della svolta geopolitica italiana è Michele Geraci, l’esponente del governo più focalizzato sulla questione. Un passato nella finanza e in diverse università cinesi, Geraci è sin da giugno promotore di un impegno attivo italiano rispetto alla Cina. Di quella che nel suo pensiero è una vera e propria svolta geopolitica, ma anche in termini di modello politico.
In passato, Geraci ha addirittura definito il modello cinese come ispirazione per risolvere differenti dei principali temi sull’agenda del governo, dalla crescita economica agli investimenti infrastrutturali, dalla disoccupazione fino al governo delle migrazioni. Un modello a base di sfruttamento sul lavoro, repressione sindacale, sradicamento, distruzione delle risorse naturali e dei territori. Un modello che, senza alcuna fascinazione occidentalista, è difficile reputare apprezzabile.
A quanto pare però, in cambio dell’inserimento italiano nella BRI Pechino potrebbe anche assumersi parte del debito sovrano italiano. Già qualche mese fa in occasione di una visita del ministro dell’Economia Tria si era paventata questa possibilità, poi smentita. Un qualcosa che coincide con uno smarcamento dal controllo europeo del debito, al centro della retorica politica gialloverde e proprio alla vigilia di elezioni fondamentali per il futuro delle istituzioni comunitarie.
Un qualcosa che permetterebbe alla Cina di avere in futuro potere di manovra sulla politica economica, e che per questo scatena le reazioni americane e del resto dell’Unione Europea. Non certo interessati a difendere la nostra indipendenza da Pechino. Piuttosto, sofferenti nel vedere come un paese strategico come l’Italia possa almeno in parte svincolarsi dal loro controllo, trovare nuovi alleati. Questo smarcamento da Bruxelles è già iniziato. La stessa Unione Europea ha lanciato negli scorsi mesi una sorta di screening sugli investimenti cinesi in Europa, registrando l’astensione italiana.
Al centro delle preoccupazioni atlantiche c’è soprattutto la questione dello sviluppo tecnologico. In particolare, delle reti 5G, vale a dire dei nuovi software digitali sui quali scorrerà il cosiddetto “internet delle cose”, quello che renderà possibile una svolta in nome dell’intelligenza artificiale in settori come la produzione industriale, la viabilità, le telecomunicazioni. E’ su questo tema che si sta giocando ad esempio il caso Huawei, tra Usa e Cina. Con i primi che mettono in dubbio la neturalità dell’azienda cinese accusandola di spionaggio e i secondi che negando le accuse ricordano agli Usa lo scandalo Prism e protestano contro l’arresto della figlia del ceo di Huawei in Canada, un fatto che ha creato uno scontro diplomatico inedito tra le due superpotenze.
Il testo del MoU non dovrebbe contenere riferimenti alla questione del 5G, proprio per non irritare Washington. Ma questo memorandum sembra solo il primo passo di una politica che se non verrà stravolta da un eventuale caduta del governo, potrebbe iniziare a fare emergere la realtà della transizione verso un mondo multipolare anche alle nostre latitudini.
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