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Yes we Kony! (parte 2)

Parte 1

Intrattenimento sensazionalista per stomaci forti? Un disgustoso spettacolo dai toni neocolonialisti? O una nuova forma di attivismo globale? Kony 2012 è in realtà la grande celebrazione di un comune fondato sull’ideologia neoliberista della Silicon Valley.

Sull’inconsistenza delle critiche a Kony 2012

«Ho una mentalità così americana, che dovevo fare qualcosa»

Taylor Forman, uno studente dell’ultimo anno presso la Broad Run High School di Ashburn dopo aver visto il video di Kony 2012

 

 

A partire dagli anni ’90 le televisioni satellitari si affermano come fattori cruciali nella politica internazionale. È allora che le organizzazioni non governative (il cui numero in quel periodo è in impennata) per garantirsi l’attenzione dei grandi network globali cominciano un’ossessiva ricerca dell’impatto pubblico. Per calcare un palcoscenico di grande risonanza da cui lanciare appelli alla donazione, le diverse ONG rivaleggiano tra loro. Producono documentari tarati sulla più scottante attualità giornalistica (spesso siglando accordi di partnership con le stesse reti televisive che li trasmetteranno). Lanciano controverse campagne promozionali che vedono il massiccio impiego di tecniche pubblicitarie. In un serrato clima di competizione aziendale la rappresentazione delle vittime viene elaborata di concerto con esperti di marketing e giornalisti e subordinata alle necessità imposte da aggressive strategie commerciali.

 

L’ONG fondata da Jason Russell si inserisce in pieno lungo questa scia. Kony 2012 costruisce una visione morale di un mondo di giustizia da applicare all’attualità di cui IC si fa garante simbolica. Come accade per ogni campagna umanitaria l’intento è conseguire tre differenti obbiettivi: sensibilizzare l’opinione pubblica, raccogliere fondi e rappresentare l’ONG che la promuove segnalandone la presenza, affermandone l’identità e legittimandone la pratica

Per raggiungerli IC ha dato in pasto al proprio target di riferimento una vittima esemplare confezionata su misura. Con lo scopo di far breccia nel cuore di un segmento di audience prevalentemente statunitense e compreso tra i 13 ed i 18 anni, ha costruito un’icona della sofferenza con cui lo spettatore potesse identificarsi o identificare una persona a lui vicina (come scandito a chiare lettere nel video «Immagina se succedesse anche una sola notte negli USA: sarebbe sulla copertina di Newsweek il giorno dopo»). Accumulando una grande quantità di dettagli raccapriccianti è stata pennellata la figura di Jacob, l’ex bambino soldato ugandese protagonista del video, la cui immagine è costantemente sovrapposta e sfumata con quella di Gavin, l’occidentalissimo figlio del regista. Inoltre per accentuare la familiarità e l’empatia del suo pubblico di nativi digitali con le immagini sullo schermo, l’ONG ha proposto una rappresentazione della realtà ugandese adoperando un taglio estetico dal sapore folkloristico-coloniale. Tale criterio ovviamente produce un’astrazione della vittima e ne traslittera la rappresentazione all’interno di un paesaggio mediatico deformato da cliché, banalità, inesattezze e luoghi comuni. In questo senso vanno lette sia le comprensibili reazioni rabbiose che hanno fatto da cornice alla proiezione del video di IC in alcune sale cinematografiche di Kampala, sia l’hashtag #WhatIloveaboutAfrica, lanciato da alcuni netizen africani in risposta a #Kony2012. Ma compiere uno scippo di soggettività e impiegare un immaginario sottrattivo per veicolare una campagna comunicativa non è in nessun modo una peculiarità che attiene a Kony 2012. Al contrario pianificare una campagna umanitaria attingendo ad un background di codici culturali stereotipati – conformi più all’immaginario del contesto in cui essa si inserisce che non alla realtà a cui fa riferimento – è una tecnica standard a cui si ricorrono molte ONG (cui quindi dovrebbero essere estese le accuse di razzismo e neo-colonialismo piovute su Russell e soci) per renderne immediatamente intellegibile il messaggio agli occhi di possibili benefattori. Per questo motivo le reazioni indignate di coloro che hanno denunciato di carità pelosa la IC non sembrano essere troppo diverse da quelle entusiastiche di chi ha ritenuto che l’attivismo si condensasse nella condivisione di un video su Facebook o di un’immagine su Twitter. In entrambi i casi il motore scatenante che le ha provocate è stata la capacità di Kony 2012 nel catalizzare attenzione.

 

Oltre che ad immagini ed immaginari ritagliati su misura, IC si è servita anche di un altro sistema comunemente adottato per sfruttare la visibilità umanitaria della vittima. Inscritta nel nome della campagna e presente già dalle primissime immagini del filmato, Kony 2012 stabilisce una dimensione all’insegna dell’urgenza nel rapporto tra tempo e denaro. Con lo scorrere dei minuti, in un’alternanza di emozioni che costringe lo spettatore tra senso di colpa ed esaltazione liberatoria, la possibilità di catturare Joseph Kony e di riconsegnare in tempi brevi l’Uganda alla pace viene fatta dipendere dall’acquisto degli action kit (o dalla loro pubblicizzazione attraverso i canali di cui ciascuno dispone). Qui non è il tempo ad essere denaro, ma il denaro ad essere tempo, anzi, ad essere l’inizio di un tempo nuovo (laddove tra l’altro il tema della classe emergente rimane in sotto traccia per tutta la durata del filmato). Aver dipinto le violenze del Lord Resistance Army (in realtà fortemente ridottesi a partire dal 2004) come gli effetti di una crisi umanitaria in pieno svolgimento è costato all’IC l’accusa di bieco sensazionalismo per guadagnarsi la luce dei riflettori. Il che è senz’altro vero e la cosa può non piacere. Ma neppure questa è una peculiarità di Kony 2012! Al contrario calare il pubblico in una dimensione temporale artificiale, contratta e segnata dalla semantica dell’emergenza per annullarne la capacità di giudizio, è un espediente banalissimo e già ampiamente utilizzato in passato da altre ONG per convogliare attenzione mediatica su scenari di crisi poi non rivelatisi come tali (vedi la carestia in Zambia nel 2002: annunciata come una catastrofe senza precedenti, colpì in realtà solo una piccola parte del paese).

 

Ipersemplificazione, sensazionalismo, carità pelosa e razzismo.

Sono queste le principali critiche emerse dal vortice di reazioni dell’uragano Kony 2012. Come abbiamo visto però, esse sono incapaci di cogliere una qualsivoglia specificità del fenomeno. A dispetto della quantità di inchiostro versato e di bile ingoiata, si tratta nella maggior parte dei casi di giudizi di pancia che, tra le altre cose, hanno fatto proprio il gioco di IC, garantendole quel ritorno di visibilità necessario per assicurarle un posto al sole nell’affollato condominio delle ONG globali.

 

L’idiota che guarda il dito e non il network

«Tutta la mia vita mi era sempre sembrata così distante, ma questa volta ho sentito che avrei potuto farne parte.»

Flannery McGale, studentessa dell’ultimo anno alla Brookewood School for Girls di Kensington a proposito di Kony 2012

 

Nella top ten dei peana più in voga però non poteva certo mancare il filone complottista. Kony 2012? Propaganda illuminata 2.0! Invisible Children? Il vettore di una cyber-black-psy-op dell’NSA distribuita sui social network! Jason Russell si fa le pippe in pubblico? Gli effetti collaterali di un esperimento di manipolazione mentale della CIA spintosi un po’ troppo in la!

 

Primo. Per capire che la campagna Kony 2012 si faccia bandiera del potere statunitense non serve essere degli esteti. È un fatto esplicitato senza mezzi termini nel filmato. Il che è perfettamente congruente con la funzione dell’immaginario umanitario di incanalare le emozioni suscitate dalla rappresentazione delle vittime e di riconfigurare così le stesse rappresentazioni del potere.

Secondo. Colpisce che questi maître à penser, mentre si prodigano nell’impresa di lacerare il velo della menzogna, riproducono inconsapevolmente la brutta copia del paradigma narrativo su cui poggia lo spettacolo di Kony 2012: ricostruzioni frammentarie, semplificazione dei fatti e colpi di scena da b-movie. Ancorati ad una visione orwelliana della società sembrano ignorare che il potere non è unitario, non si concentra in un unico luogo, non è diretto dall’altro al basso, non sovrasta la società ma in essa circola, sollecitando condotte di vita e comportamenti che ne sono costitutivi.

 

È qui che bisogna cercare la vera cifra di Kony 2012. Non solo nel suo contenuto fortemente emozionale ma nella sua capacità di incarnare il paradigma ontologico della nostra era: quello del network.

Forte di una strategia di marketing ben congegnata, ricalcando alla perfezione i dettami e le regole pubblicitarie ridefinite dall’avvento dei social media, IC ha costruito un rapporto partitario con la propria audience cercando di fondersi con il suo mondo. Il focus della sua pubblicità non è stato il prodotto sponsorizzato (gli action kit) o le sue caratteristiche bensì il dibattito che esso ha suscitato in rete e le relazioni che ne sono derivate. 184 milioni di visualizzazioni, 2400 clip associate al video originale, 1,2 milioni di commenti, un numero incalcolabile di post sulle piattaforme di blogging e migliaia di profili Twitter e pagine Facebook sorte spontaneamente in supporto alla campagna. Cifre da capogiro con cui IC è riuscita ad enunciare la propria presenza modellando un contenitore di pratiche a cui chiunque potesse partecipare con le proprie competenze, linguaggi ed attitudini. Cifre che parlano il linguaggio dell’empowerment dell’individuo e descrivono la didascalia peer to peer che ha determinato il senso delle immagini veicolate da Kony 2012 (che questa didascalia racconti o meno la verità è poi tutt’altro paio di maniche).

 

Non sono forse questi gli elementi che hanno caratterizzato le più riuscite esperienze di comunicazione politica degli ultimi anni? Quelle di Wikileaks ed Anonymous con le loro richieste di trasparenza e change, le loro forme di organizzazione aperte e molecolari e la loro pretesa di elevarsi a sentinelle del potere. Oppure quelle del movimento 5 stelle e dei loro epigoni del partito pirata con la loro capacità di sintetizzare due necessità della comunicazione politica attuale: lo spettacolo e una retorica che assegna al cittadino in rete il ruolo del protagonista. E che dire della corsa di Barack Obama alle presidenziali del 2008? Segnata da una mescolanza di toni a metà tra il populismo delle origini e la tensione al rinnovamento, interpretata come un confronto generazionale tra le diverse anime liberal, essa ha trovato la sua chiave di volta nella connettività ovvero, come ha scritto Manuel Castells, nella «capacità del candidato di ispirare emozioni positive in un ampio segmento della società, connettendosi direttamente agli individui ed organizzandoli in reti e comunità di pratica, cosicché la sua campagna fosse la loro campagna»[2]. Una vittoria che è stata assicurata, ha scritto in proposito Carlo Formenti, dalle «reti sociale e le competenze di milioni di giovani nerd ai quali, grazie alle modalità partecipative e collaborative con cui hanno condiviso una campagna vissuta dal basso, si è fatto nutrire l’illusione di essere i veri vincitori, laddove avevano semplicemente fornito la massa di manovra»[3]. Una dinamica del tutto simile a quanto accaduto con la campagna Kony 2012 se, come abbiamo scritto in precedenza, «chi vi ha partecipato ha avuto la percezione che l’agenda setting venisse fissata dal basso».

 

Se «il significato è un attributo del simbolismo ed è una funzione del contesto in cui simbolo dell’individuo stesso è collocato» allora non serve lanciare l’ermeneutica alla prova del crowdsourcing su Youtube. Dovrebbe risultare anzi piuttosto chiaro a cosa alluda la piramide rovesciata, logo di Kony 2012: alla costruzione di un nuovo comune perverso.

Transnazionale ma attraversato da legami sociali deboli, relazioni poco significative e valori sbiaditi. Specchio di una società leggera e ricca di mezzi (i social media su cui essa si fonda) ma priva di qualsiasi fine che non sia già inscritto nei mezzi stessi (share, like, tweet). Apparentemente governato da forme di democrazia diretta mentre è dominato da sistemi esperti e tecnicamente mediati ma mai percepiti come tali. Un grande ecosistema pacificato, dove il conflitto sociale è assente come pure qualsiasi forma d’identità che non sia il pallido riflesso di un trending topic o di un video popolare. Un luogo dove il cittadino/netizen, privato di qualsiasi autonomia, può realizzare la sua piena libertà unicamente nel consumo di informazione, gadget e merci.

Quello di Kony 2012 è il comune che ha le sembianze delle internet companies della Silicon Valley, i lineamenti del turbo-capitalismo californiano e la fisionomia del neo-liberismo al suo stadio compiuto.

(continua…)

 

InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut

 

Note

[1] Sul concetto di visibilità umanitaria si veda P.Mesnard, Attualità della vittima, Verona, 2004, Ombre Corte a cui questo testo si rifà

[2] M.Castells, Comunicazione e potere, Milano, 2009, Egea, p.517

[3] C.Formenti, Felici e sfruttati, Milano, 2011, Egea, p. 127

 

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