Covid e post-Covid. Il punto di vista di una madre single lavoratrice
Terza memoria su virus e riproduzione sociale. In questo articolo c’è il racconto di una delle tante madri che si è ritrovata “senza servizi educativi”. Lasciate sole a fare i conti tra le necessità del lavoro, quelle del riposo e della crescita dei figli, si narrano le difficoltà nell’accesso al congedo parentale, sulla gestione della ferie e dei permessi, nell’elargizione dei bonus. Si parla di come l’assenza di tutele statali nelle garanzie educative delle nuove generazioni, sia funzionale ad un’ulteriore “messa a lavoro” del lavoro domestico.
Ma la storia racconta anche del proprio mestiere di lavoratrice di servizi di assistenza e cura dei figl_ degli altr_. Si fa strada una profonda critica del sistema socio sanitario rivolto ai minori, su tutto ciò che manca e su quello che servirebbe.
Ho 35 anni, quasi 36. Sono mamma single di un bimbo di due anni. Il 4 marzo sono andata a prenderlo all’asilo nido non sapendo che quello sarebbe stato l’ultimo giorno di scuola per quest’anno.
Sono una dipendente pubblica e lavoro in ambito sanitario, ho quindi la fortuna di un lavoro sicuro e, in questi giorni pieni di ansie e incertezze, almeno posso mettere il pranzo e la cena in tavola. Cosa non scontata per tanti e tante.
Sono andata a lavoro fino al 9 marzo, poi mio figlio aveva febbre, raffreddore e tosse, vietatissimo lasciarlo ai nonni in queste condizioni e quindi sono rimasta a casa con lui.
Finita la sua malattia, è iniziata la mia: sembra un semplice raffreddore ma vista l’epidemia in corso, il medico con cui parlo (sostituto del mio medico di base) preferisce essere prudente e farmi stare a casa. Nei giorni seguenti i miei sintomi aumentano e continuo a stare a casa senza cure e senza tampone. In quei giorni penso solo che non devo peggiorare, perché se ho il covid 19 ho certamente contagiato anche mio figlio e quindi non posso lasciarlo a nessuno. Non dormo per l’ansia: se dovessi peggiorare chi potrebbe occuparsi di mio figlio potenzialmente contagioso?
Per fortuna le cose vanno bene, non so cosa ho avuto, ma sono guarita. Per il mio medico (non più il sostituto), sono stata a casa abbastanza, per cui il 31 di marzo interrompe il mio certificato e mi dice che posso tornare a lavoro con le giuste precauzioni (???).
Ovviamente per quel che si sa di questo virus io sono consapevole di poter essere ancora contagiosa, per cui al di là del parere del medico, rimango a casa iniziando ad usufruire del congedo straordinario covid 19 per genitori. Solo 15 giorni (diventeranno 30 con il prolungarsi della chiusura delle scuole…wow) in cui vengono conteggiate anche le giornate festive, pagati al 50%.
Scoprirò più avanti che non è certo che mi spettino perché risulto ancora sposata e il mio quasi ex marito è disoccupato. Per cui, anche se vive da mesi molto lontano da noi, si suppone possa essere lui ad occuparsi del bambino. Quindi sto a casa ma rimango in questo limbo di non sapere se dovrò coprire questi giorni di assenza con le ferie oppure se mi verrà concesso il congedo.
Io e il duenne in solitudine.
L’isolamento con un bambino di 2 anni non è facile, le sue esigenze sono tante, occorre cercare di mantenere delle routines nella giornata e l’improvvisa chiusura del nido è un grande cambiamento da metabolizzare per un bimbo così piccolo.
A fronte delle tante ansie che arrivano dall’esterno, in casa devi cercare di essere calma, di coinvolgerlo in delle attività e di mantenere dei piccoli spazi per te che ti permettano di riprendere fiato e staccare, perché altrimenti il rischio è di rompere un delicato equilibrio e finire in una spirale di ansia e nervosismo.
Costringere un bambino a stare in casa, rinunciare alle passeggiate, al parco giochi, ad osservare quello che avviene normalmente in strada e in cielo sempre fonte di grande curiosità e meraviglia, è di una violenza unica. Quando sento dire che i nostri bambini stanno bene perché tanto in casa hanno tutto mi si chiude la vena: certo il mio bimbo non soffre la fame e ha tanti giochi, ma la totale mancanza di coetanei, l’improvvisa assenza di nonni, zii ed educatrici, il divieto di varcare la porta di casa sono cose difficili da spiegare e da capire.
Un bambino “non cresce” da solo, cresce se c’è una comunità. E alla fine di questa emergenza il compito più difficile della comunità umana sarà raccogliere i cocci di questa generazione in crescita che da un giorno all’altro è stata privata di un grande pezzo del senso stesso della vita: le relazioni umane.
Una madre sola e il ritorno a lavoro.
Quando si è cominciato a parlare di fase 2 sul mio volto è comparso un sorriso amaro. Anno scolastico concluso, parchi pubblici ancora chiusi (unico paese in Europa), i bambini cancellati dalla mente di questi signori che decidono per noi.
La prima domanda è: come fa un genitore a tornare a lavoro? Dove li lascia i figli? Il “welfare nonni” è fuori gioco (hanno fatto una campagna basata sullo stare a casa proprio per il bene dei nonni, tralasciando la regione Lombardia che in casa dei nostri nonni ci ha messo i malati covid).
Il bonus babysitter? Innanzitutto è accessibile solo a chi non ha usufruito del congedo straordinario, ma è chiaro quanto sia una pagliacciata in un paese in cui, purtroppo, mettere in regola una babysitter è un percorso complesso e costoso (ma fanno finta di niente, dove vivono?). Ma ipotizziamo anche di mettere in regola una babysitter e facciamo due conti: 9 ore di assenza giornaliera da casa per cinque giorni a settimana, 8 euro netti l’ora (10 lordi quindi) fanno 450 euro a settimana, 1800 euro al mese (molto più del mio stipendio).
Il bonus previsto è di 600 euro (diventeranno poi 1200); non mi stupisce che questa gentaglia al governo pensi che la paga di una babysitter possa essere 3,30 euro l’ora. Sono dei criminali.
Le soluzioni sono quindi ben poche: un’aspettativa non retribuita? Provare ad accedere ad un part time? Andare a lavoro per mantenere il posto ma spendere l’intero stipendio per pagare una babysitter? Come sempre ci si affiderà alla fantasia di madri e padri per capire come organizzarsi…e di fantasia, alle nostre latitudini, ne serve tanta.
E a settembre? La totale assenza di un progetto sembra fare da padrona. Il governo blatera di quanto è buona e bella la didattica a distanza, non immaginando niente di alternativo, non tenendo in considerazione le età in cui questa non ha alcun senso (nidi, materne e buona parte delle elementari), oppure tutta quella fascia di popolazione tagliata fuori per mancanza di strumenti e connessione.
La scuola, con tutti i ben noti difetti che già aveva, sembra diventata un vezzo. La grande esperienza di socialità e convivenza che la scuola rappresenta, non sembra interessare la ministra Azzolina, che addirittura chiarisce che anche se quest’anno saranno tutti promossi bisognerà tenere in considerazione le insufficienze…questione di priorità. Bene dice una docente di Rimini quando afferma che i suoi alunni avranno 9 in pagella, perché “nel compito di realtà hanno riportato tutti il massimo”.
Di fronte a questo scenario, alla totale incapacità di cogliere questa occasione per pensare ad una scuola diversa, il rischio è che molti genitori (per lo più madri) potrebbero essere costretti a rinunciare al proprio lavoro per crescere i figli. In un paese dove questo già avveniva (sono tantissime le donne costrette alle dimissioni dopo il parto), un così tragico epilogo sembra non preoccupare abbastanza il governo.
Sul mio lavoro.
Cosa sta succedendo nel sistema sanitario? Si parla tanto di pareri scientifici, di linee guida, di comitati di esperti, ma il grido di dolore lanciato dagli operatori sanitari in questi mesi di emergenza sembra restare inascoltato.
La lettera scritta dai medici di Bergamo pubblicata dal “New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery”, nella quale con fin troppa umiltà, indicano la strada per affrontare futuri focolai e nuove pandemie, è già caduta nel dimenticatoio.
Non ci sono piani di adeguamento delle strutture, non ci sono approvvigionamenti straordinari di dispositivi di protezione, non c’è un rafforzamento della medicina di base.
Insomma dicono che con questo virus bisognerà imparare a conviverci, ma come? Un sistema sanitario devastato quante altre emergenze potrà affrontare?
Lavoro nel sistema sanitario pubblico da 7 anni e quotidianamente tocco con mano lo sfacelo in cui versa. Durante questa emergenza, oltre le gravi carenze sotto gli occhi di tutti e tutte, quelle carenze che hanno portato alla morte di migliaia di persone, le piccole realtà sui territori hanno dovuto affrontare un’importante riorganizzazione.
Nella prima fase di lockdown molti servizi non essenziali sono rimasti aperti costringendo ogni giorno i lavoratori a rompere il confinamento per recarsi in luoghi di lavoro dove di fatto le attività erano interrotte per mancanza di utenza.
Più avanti alcune Regioni hanno assunto la decisione di mettere tutto il personale sanitario la cui attività erano appunto ridotte o del tutto ferme, a disposizione delle unità di crisi delle aziende. A seguito di questa decisione, è stato dirottato soprattutto sui check-point agli ingressi di ospedali e presidi sanitari, personale senza alcuna formazione per svolgere tale mansione.
Questa improvvisa riorganizzazione ha naturalmente creato non poche tensioni: se da una lato una minima parte del personale – aggrappato alla retorica degli “eroi per la patria” – si è reso disponibile a svolgere altre mansioni con cambi turni e orari non previsti dal proprio inquadramento, per tanti e tante questo passaggio non è stato così scontato.
A questo proposito riporto l’esperienza di una lavoratrice che in qualche modo si è vista costretta a svolgere alcuni turni di check-point e una mattina si è ritrovata nella sala di vestizione senza la disponibilità di visiere di protezione. La lavoratrice ha segnalato la mancanza del dispositivo alla caposala e dunque l’impossibilità di svolgere il turno in sicurezza; le è stato risposto che le visiere non erano state sanificate e che per quel giorno non ci sarebbero state.
La lavoratrice ha quindi rifiutato di svolgere quella mansione ed è stata minacciata di provvedimento disciplinare dalla diretta superiore. A quel punto la lavoratrice ha fatto presente che insieme al provvedimento disciplinare avrebbe gradito ricevere anche la delibera sul cambio di mansione a cui era stata destinata. Di fronte a tale richiesta ci sono stati dei tentennamenti e, ad oggi, pare sia stata sufficiente per far arretrare la dirigente sull’idea di comminare un provvedimento disciplinare.I giorni passano e, con cautela, i servizi territoriali iniziano a riaprire. Il servizio in cui lavoro, che accoglie per lo più minori con disabilità, comincia a riorganizzarsi partendo dai bambini e dalle bambine che si pensa possano svolgere l’attività mantenendo la distanza sociale e utilizzando i dispositivi di protezione.
Ricontattare le famiglie è un compito complesso: hanno vissuto un periodo davvero difficile e scaricano sull’operatore che le chiama tutte le inevitabili frustrazioni e sofferenze che si sono accumulate.
La paura del contagio, quella che ci ha tenuto tutti e tutte rinchiuse in casa, è ancora molto forte. Si individuano così in maniera molto chiara due tendenze: le famiglie in cui i bambini e le bambine non hanno gravi disabilità e che durante il lockdown sono riuscite in qualche modo a trovare un equilibrio – per lo più grazie a maggiori possibilità materiali e non solo – assumono un atteggiamento attendista e non se la sentono di far riprendere subito le terapie al figlio.
Le famiglie che hanno sofferto di più il confinamento, perché costrette in case sovraffollate, con pochi strumenti per restare in contatto con l’esterno, con bambini e bambine molto problematici, accolgono con speranza le nostre telefonate e vorrebbero riprendere subito il percorso terapeutico interrotto.
Rispetto però alle sommarie indicazioni che abbiamo ricevuto per riprendere il nostro lavoro, è proprio questa seconda fascia di bambini e bambine che dovrà attendere più a lungo per ricominciare. Infatti hanno per lo più patologie complesse, spesso situazioni familiari e sociali difficili e già prima della pandemia vivevano la socialità con non pochi ostacoli.
Come per la scuola, anche per i trattamenti specialistici (psicomotori, fisioterapici, logopedici…) se non si comincia ad immaginare nuovi approcci, sarà difficile riprendere il lavoro. Cosa intendo per nuovi approcci? Provo a fare qualche esempio: spazi più ampi e anche all’aperto per svolgere le terapie, utilizzo di dispositivi di protezione che siano efficaci nel limitare la diffusione del virus ma che non ostacolino la relazione (es: mascherine trasparenti che mostrino le espressioni del viso, camici o meglio tute monouso colorate e che permettano all’operatore di muoversi agilmente), un maggior coinvolgimento delle figure adulte di riferimento sia in modo diretto nel trattamento ma anche offrendo loro degli spazi di elaborazione del difficile percorso con i propri figli.
Le idee e le proposte da parte di chi lavora a stretto contatto con i bambini e le bambine sembrerebbero esserci. La volontà di investire per metterle in pratica al momento sembra mancare.
Andrà tutto bene? Non si direbbe.
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