
‘È la fine del contratto nazionale’

Gli operai del maggiore gruppo industriale italiano perdono il diritto di sciopero, e peggiorano i ritmi di lavoro.
L’intervista a Giorgio Airaudo a cura di ‘Conflitti Globali’ (trx di Radio Blackout):
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«L’accordo esteso a tutti gli stabilimenti Fiat è un passo verso la fine del contratto nazionale. Un fatto grave in un momento in cui i lavoratori sono divisi e frammentati, si perdono tutele fondamentali». Il professor Luciano Gallino, sociologo del lavoro molto attento al mondo dell’industria, non ha dubbi: l’intesa siglata ieri è tutta a perdere.
Dunque, professor Gallino, diciamo addio ai contratto nazionale.
È  perlomeno un passo verso la sua fine, a cui hanno contribuito gli  ultimi governi, in particolare quelli di Berlusconi: hanno sparato a  zero, trovando spesso riscontro nella Confindustria. Non credo che  questo sia un buon segno, perché il contratto nazionale in Italia ha  almeno un secolo di storia, è stato e dovrebbe essere uno strumento  importante di difesa complessiva dei diritti dei lavoratori, ha  l’importante funzione di redistribuire il reddito, mantenendo il  contatto con l’aumento della produttività e del carovita.
Ma  ha ancora senso difendere il contratto nazionale quando il lavoro è  ormai sempre più diviso e figure come ad esempio le partite Iva non ci  rientrano nè mai ci rientreranno?
Io credo che abbia sempre e  comunque un senso, per tutti quei lavoratori che cerchino una garanzia  di base e collettiva. Anzi, oggi ci sono ancora maggiori ragioni per  difenderlo. Quando c’erano le fabbriche con migliaia di lavoratori, per  certi aspetti un contratto per un grande sito copriva la maggior parte  degli addetti dell’intero settore, ma adesso che le fabbriche con  migliaia di addetti non ci sono più, perché sono disperse sul  territorio, il contratto nazionale funge da essenziale contrappeso alla  frammentazione.
I lavoratori Fiat hanno aumentato gli  straordinari comandati, la fatica alla catena con pause ridotte, perdono  il diritto di sciopero. A fronte, però, sarebbe assicurata la  permanenza della Fiat in Italia, e una monetizzazione con premi di  produzione. È forse necessario in un momento in cui le buste paga sono  sempre più sottili?
Non direi che è necessario. Ma è certo  che un lavoratore messo alle strette, in preda al timore di perdere il  posto, in una situazione in cui sono letteralmente milioni quelli che  non hanno un’occupazione, o sono precari e malpagati, possa finire per  dover scegliere il male minore. A me però questa non sembra una buona  strada per relazioni industriali progressive. Mi pare piuttosto che vi  sia un’ulteriore discesa, un arretramento, verso relazioni non dico  pre-moderne ma quasi. Un regresso verso il modello statunitense, dove  tanto le relazioni industriali nel complesso quanto la legislazione e la  giurisprudenza sul lavoro, sono molto più arretrate che da noi, o  meglio lo erano fino a ieri. Stiamo correndo indietro per raggiungere i  parametri degli Usa.
Sembra approfondirsi la divisione  tra Cgil-Fiom da un lato e Cisl-Uil dall’altro. Le Rsu Fiom sono escluse  perché si applicherà l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori.  Aumenterà il conflitto dentro le fabbriche?
Lo scenario sarà  sempre più frammentato in una miriade di vertenze locali e puntiformi.  Per certi aspetti è un contributo a una sorta di «giungla» delle  relazioni industriali. Soprattutto se non si trovasse il modo di  bloccare, se non addirittura di abolire, l’articolo 8 della manovra, che  permette qualsiasi tipo di deroga alle leggi. Molti si soffermano solo  sull’aggiramento dell’articolo 18, ma per certi versi direi che non è  nemmeno l’aspetto peggiore. Nel secondo comma dell’articolo 8 sono  minuziosamente indicate tutte le materie su cui è possibile derogare:  dalle assunzioni con contratti atipici alle paghe, fino agli agli orari e  all’organizzazione del lavoro. E tutto questo, neanche con la  maggioranza dei sindacati, ma basta quella delle Rsu. Altri gruppi  potrebbero decidere di seguire l’esempio Fiat, disegnandosi un contratto  di settore e uscendo da quello nazionale: aggiungendo questo aspetto  alla esclusione delle Rsu e alle deroghe permesse dall’articolo 8,  abbiamo un mix disastroso, un combinato disposto micidiale che alla  lunga non gioverà neanche alle aziende. Perché le imprese hanno  l’interesse di fondo ad avere un interlocutore relativamente unitario,  che non cambia voce e faccia a seconda che sia laziale, siciliano o  veneto. Quanto all’articolo 19 dello Statuto, credo dovrebbero  pronunciarsi i giuristi, ma certo, se ce ne sono le ragioni, potrebbe  essere necessario modificarlo.
Ma incassato questo accordo, almeno Marchionne resterà in Italia? O lei vede comunque una Fiat in fuga?
Se  ragioniamo sui dati e sulla realtà attuale, è piuttosto preoccupante. A  Pomigliano si parla non già di riassumere tutti i 5 mila operai, ma  intanto solo un migliaio entro febbraio 2012: stanno facendo una  selezione con aspetti che sembrano un po’ strani, che mettono in  difficoltà la Fiom. Termini Imerese ha chiuso e non si sa quale sia il  suo futuro. A Mirafiori non so da quanto tempo lavorano una settimana al  mese, e si annuncia una cassa integrazione fino a metà 2013, in vista  di un nuovo modello che non si sa che cosa sia. Quest’anno la produzione  di vetture Fiat toccherà il minimo storico, molto al di sotto delle 600  mila unità. Il che vuol dire meno della Francia, della Germania, del  Regno Unito, della Spagna, perfino della Repubblica ceca e della  Polonia. Il grande produttore europeo che se la batteva alla pari con la  Volkswagen, è oggi al settimo/ottavo posto come produttore nazionale:  la Volkswagen quest’anno arriverà a circa 5 milioni di vetture prodotte  in Germania, più circa 2 milioni all’estero. E intanto il famoso piano  «Fabbrica Italia» Fiat ancora nessuno lo ha visto.
Ma lasciare l’Italia per paesi più a basso costo, è almeno una scelta furba sul piano economico?
Io  ribalterei la visione: mi chiederei cosa ci interessa come cittadini  italiani. Credo innanzitutto i posti di lavoro, e le imposte pagate in  Italia, per produzione fatta nel nostro Paese. Ci interessa la ricerca, e  che l’industria nel suo complesso resti da noi. Che poi la Fiat abbia  migliaia di lavoratori all’estero non ci riguarda più di tanto, sono  posti di lavoro e imposte versate fuori.
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