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Fuggire dal lavoro. “Prima che sia troppo tardi”

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Questo vuol essere un breve commento ad un’intervista rilasciata per “De Heeling” (Olanda) da Marguerite van den Berg, autrice del saggio “werk is geen plossing” [Il Lavoro non è una soluzione]. L’autrice incomincia spiegando la genesi del suo libro, avvenuta in piena pandemia, sicuramente un periodo in cui sono emerse con più forza le contraddizioni nel mondo del lavoro. Da quasi due anni chiunque ha potuto vedere come ogni aspetto piacevole e non-economico dell’esistenza sia stato eliminato per consentire il perpetuarsi della produzione.

Da Ecologia Politica Milano

In questo senso và letta la successiva critica ai sindacati olandesi, che, di fronte all’emergenza sanitaria, decisero di proteggere in primis i posti di lavoro, appoggiando governo e imprenditoria nella scelta di non sospendere le attività produttive, anteponendo il lavoro alla vita. La cosa paradossale è notare che questo immaginario ha effettivamente avuto presa: il lavoro, nella nostra testa, è radicato a un livello gerarchicamente superiore ad ogni necessità vitale, bisogno, o sogno che sia.

Per risollevarci da tale situzione, sottolinea l’autrice, è necessario passare da “I’m tired” a “we are exhausted”. In pratica, riportare su un piano politico e collettivo l’interpretazione degli effetti nefasti del tempo di vita in questo mondo coincidente in modo quasi totale con il Lavoro (o la produzione di ricchezza in senso lato). Questa potrebbe essere una rivendicazione estremamente trasversale dato che, al contrario del passato, il mondo contemporaneo distribuisce stress e burnout in modo molto più uniforme tra le fasce di reddito e i gruppi sociali, anche se questi disagi sono declinati in modo diverso da individuo a individuo.

Un grosso problema, secondo la van den Berg, riguarda anche i movimenti politici vertenzialisti, spesso impegnati a migliorare le condizioni materiali del lavoro dipendente (salari più alti, sicurezza, ecc…), senza discuterlo né aspirare a controllarlo. Questo lascia inalterate le dinamiche sistemiche, creando tutt’alpiù categorie privilegiate, spesso incapaci di ampliare le loro lotte per timore di perdere il privilegio conquistato.

La soluzione, da applicare ad ogni ambito della nostra vita, sembrerebbe abbastanza banale: “Just say NO”, ma, come sottolinea l’autrice, il contesto certamente non aiuta. Stress, esaurimento e insicurezza costante spingono a smussare la volontà di cambiamento, posticipando quell’impulso salvifico di abbandonare il gioco.

Ma questo atto è sempre possibile, anche se, al momento, è necessario organizzarlo.

Questa sorta di sciopero, anche interpretabile come fuga collettiva dal lavoro, potrebbe essere una delle poche vie sicure per mitigare le future catastrofi climatiche, riducendo la crescita economica e provocando un collasso nel senso stesso del sistema.

L’autrice prosegue affermando che, ovviamente, questa inversione di tendenza causerà inevitabilmente nuove frizioni e conflitti sociali, ma, d’altro canto, proseguire sulla strada tracciata dal mercato ci porterà certamente ad una catastrofe esistenziale e ambientale. Dunque conviene, anche senza grosse illusioni, iniziare a tentare di costruire un’alternativa, sperimentando e valutando “work in progress” come risolvere gli inevitabili problemi che sorgeranno.

Gli strumenti per farlo sono innumerevoli, bisogna solo iniziare. Al più presto…

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