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Le cazzate di Repubblica su Centri Sociali e Black Bloc

Il primo ostacolo alla discussione e all’elaborazione critica nel movimento è l’elemento rappresentato dalla campagna mediatica contro la manifestazione del 15. Contro la manifestazione, si badi, non contro le “violenze”: perché dedicare pagine e pagine agli episodi di scontro senza approfondire e raccontare i momenti tranquilli del corteo, o le ragioni della protesta, significa voler dare una rappresentazione strumentale degli eventi. Una rappresentazione, si badi, che non piace né a chi crede che resistere alla polizia sia sbagliato, né a chi pensa sia doveroso. Violenza o non violenza, come sempre, trascinano il discorso lontano dalla sostanza. Chi ha resistito ai caroselli in Piazza San Giovanni era a volto scoperto durante il corteo, a cantare e gridare con tutti gli altri; chi non l’ha fatto, d’altra parte, non necessariamente pensa sia sbagliato farlo. Certo, ci sarà sempre qualche rimasuglio di ceto politico, poco rappresentativo, che punta alla spaccatura del movimento, e all’allontanamento dei soggetti sociali più incazzati, perché tutto ciò che voleva dal 15 ottobre era la possibilità di tenere un comizio. Ma il 99% dei manifestanti, che oggi siano entusiasti o che siano dispiaciuti per gli incidenti si pone su un terreno diverso e più avanzato: quello dell’allargamento delle mobilitazioni e della sperimentazione politica continua, senza rappresentanze, senza deleghe.

I media stanno cercando in questi giorni, con pervicacia, dei “Black Bloc” da intervistare. Trovano, invece, persone che riferiscono di una resistenza di massa in piazza San Giovanni, di un fenomeno generazionale che andrà ad estendersi. Ma come, sbottano esterrefatti: “E io con questa narrazione che notizia ci scrivo? Che titolo posso fare? Quante copie vendo? Quanti padroncini o Grandi Padroni accontento?”. Tutto quello di cui ha bisogno un giornalista è qualche criminale invasato; centinaia di persone rifiutano di abbandonare la piazza alla polizia, respingono le cariche, cacciano i carabinieri più volte (episodi narrabili in mille modi diversi, condivisibili o meno) al giornalista di Repubblica o dell’Ansa non interessano, perché soltanto solo una cosa interessa: il Black Bloc da sbattere in prima pagina, per terrorizzare il cittadino ignaro e, soprattutto, per far sì che qualche indignato si indigni ancora di più, ma contro chi era con lui in quella piazza. Ciò che è avvenuto il 15 non rientra in questi schemi: nulla di più falso che vederci una ripetizione di Genova, ad esempio (bisognerebbe poi capire quale Genova; quella vera, o quella raccontata da voi giornalisti?). Tralasciando episodi che consideriamo non condivisibili ma marginali (bruciare un’auto in via Cavour durante il passaggio del corteo equivale ad esprimere disprezzo per il corteo, e crea giustamente la reazione incazzata di chi è attorno), la rabbia del 15 è una rabbia che trascende ampiamente gruppi strutturati, strutture militanti, soggetti politici organizzati; esprime un disagio sociale, e prima ancora politico (l’insofferenza verso gli inquilini dei palazzi romani, da cui il corteo è stato colpevolmente tenuto a distanza dalla questura e dall’accondiscendenza insensata degli organizzatori).

E allora, come fare? Lo sporco lavoro del giornalista non è più raccontare la realtà, e tantomeno analizzarla: deve crearla. Accade così che oggi, su La Repubblica, compaia un’intervista impossibile, un falso confezionato male, secondo noi una volgare messinscena: Carlo Bonini e Giuliano Foschini firmano un’intervista probabilmente mai realizzata, dove si inventano un nome, F., pugliese e di trent’anni, che orgogliosamente dice di essere uno dei “Black Bloc” che “organizzati in falangi (…) si preparavano da un anno” con un piano e un’organizzazione per creare battaglia. Chi è nel movimento e chi ha vissuto i fatti di Roma (non coloro che in queste ore smanettano come fanatici sul web fantasticando di infiltrati e fascisti, in preda ad imbarazzanti tic ideologici) sa che questa dimensione non è quella reale; e sa ancor più che frasi come “abbiamo fatto il master (della violenza, ndr) in Grecia” o “siamo divisi in batterie con tre gruppi di specialisti” corrispondo all’identikit non dell’intervistato anonimo di Repubblica, ma dell’intervistato di cui Repubblica avrebbe bisogno per rivendicare lo scoop perturbante (e di cui hanno bisogno i partiti e i politicanti per lisciare il pelo alle parti spaventate del movimento, cercando di strumentalizzarle contro la rivolta di massa di piazza san Giovanni).

Carlo Bonini, sempre su Repubblica, aveva già firmato un articolo dal titolo Acrobax, Gramigna e Askatasuna. “Tra di loro i nuovi brigatisti”. Nel testo non c’è traccia di riferimento a questi centri sociali, ma il titolo serve comunque a individuare un colpevole, per ridurre la rappresentazione dei fatti di San Giovanni a un complotto organizzato dai “soliti noti”, per di più immediatamente intenzionati a passare alla lotta armata. Ma certo! Non c’è forse bisogno di qualche “terrorista” ogni volta che alcune centinaia di migliaia di persone scendono in piazza? E non c’è sempre bisogno, forse, di una narrazione embedded, e schematica, del movimento “sano”, che possa lisciargli il pelo in modo da trasformarlo ben presto, a causa delle paranoie e delle lacerazioni interne, in movimento morto? A questo serve, purtroppo, anche l’opera del Fatto quotidiano, dove si tiene a sottolineare che Infoaut ha “poco a che fare” con gli indignati, esprimendo semmai, senti senti, sensibilità autoreferenziali e, come al solito, sostanzialmente estranee al movimento. Evidentemente quando ragazzi di 14 o 20 anni scrivono per questo sito, cantano negli spezzoni antagonisti o partecipano alla resistenza contro i caroselli della polizia non meritano la patente di “indignati” che Repubblica e Il Fatto pensano di dover o poter distribuire. Avrebbero preferito una narrazione spagnola in versione edulcorata, o già incanalata nelle braccia amorevoli di un Di Pietro o un Nichi Vendola, e sono rimasti delusi. La loro reazione? Schematizzare, semplificare, criminalizzare e, nel caso estremo di Repubblica, produrre artigianalmente improbabili “interviste”.

Naturalmente, per un movimento di ragazzi che eventualmente vogliano “applaudire ai carabinieri e alla polizia” mentre questi falciano i loro coetanei con i caroselli (Mario Calabresi su La Stampa di ieri) ci sarà sempre posto nel paradiso della mobilitazione accettabile, sana, rispettosa, che tanto sarebbe piaciuta anche a Draghi o a Napolitano, ossia i due uomini di riferimento di Trichet, colui che vuole fare pagare alla nostra generazione i debiti della Prima e della Seconda Repubblica messe assieme. Sarà necessario che quei ragazzi applaudano anche quando gli agenti trasformano una ragazza inerme, sola, con le mani alzate in una maschera di sangue? Per carità, in una manifestazione di 400.000 persone qualche idiota c’è sempre: qualche idiota che rispetta le forze dell’ordine, intendiamo. Ma il problema non è questo, né il suo contrario: il problema è produrre narrazioni anche diverse, contraddittorie, al limite incompatibili di ciò che è successo e di ciò che dovrà accadere, ma non lasciare a questi potentati dell’informazione, o a qualche giornalista interessato, il compito di scrivere che cosa è stato e che cosa avrebbe dovuto essere il 15 ottobre. Perché il movimento non potrà guadagnare alcuna autonomia sul terreno progettuale e dell’azione di massa, finché non avrà saputo conquistare l’autonomia del racconto, della discussione, del giudizio e dell’informazione.

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