Le narrazioni coloniali della crisi, di cui francamente non sentivamo il bisogno
Vogliamo dirlo molto semplicemente, perchè non si possa cadere in ambiguità poco gradevoli.
La narrazione sui giovani immigrati del sud caciaroni, mammoni e irresponsabili ha non solo rotto i coglioni, ma anche dimostrato, se ce ne fosse bisogno, l’esistenza di un problema di razzismo (che forse sarebbe ora di chiamare colonialismo) dentro lo stato italiano.
Ci sentiamo di mettere sul piatto alcune riflessioni fatte in questi giorni:
1) in un’epidemia si hanno comportamenti irrazionali dettati dalla paura: comprenderli è necessario, che non vuol dire giustificarli. Tra il criticare una scelta di superficialità dettata dalla paura e additare come traditori che ritornano in patria e untori, ne passa acqua sotto i ponti.
2) metà della gente che è scesa al Sud nei primi giorni sono lombardi e veneti RICCHI, che hanno scelto di fare un personale Decameron nelle loro case al mare. Tra l’altro nei primi giorni questa cosa veniva fuori, come dimostrano le scenate anti-lombarde verificatesi a Genova, Ischia, Capri e Palermo: OVVIAMENTE non è questa la conformazione politica che speriamo assuma la questione, e non per bontà, nobiltà morale o “razzismo al contrario”, ma semplicemente perché politicamente NON è la questione.
3) la gente non va via da Milano perché è stronza, ma perché la maggior parte dei fuori sede lavora per mantenersi. Pandemia uguale niente lavoro uguale niente affitto e niente cibo in tavola: una lettura materialistica della situazione non solo non può ignorare questo dato, ma deve necessariamente partire da questa considerazione. Allo stesso modo, moltissime famiglie che prima si potevano permettere di mandare i soldi ai figli, ora non possono più farlo, tanto meno dal momento che le università sono chiuse, quindi non c’è motivo di continuare a sostenre spese ingenti.
Sarebbe stato meglio resistere alla tentazione? Certo, quando si ha la possibilità di scegliere. Affrontiamo, con serietà, il dato che per molte e molti non è stato così.
Per tanti altri, magari lavoratori o lavoratrici stagionali, o emigrati da poco, le uniche possibilità di vita lontano dalla casa natia sono, di fatto,i soldi che guadagnano lavorando. No soldi, no spesa, no casa.
4) L’emigrazione è una questione ben più complessa di una colonna di macchine ai traghetti.
Molti, molte, certamente non tutt*, emigrano perché le condizioni di studio e di lavoro al Sud non esistono. Questa cosa è un dato, come è un dato che spesso è una “scelta” dolorosa, che implica la mancanza di una comunità intorno, la mancanza di riferimenti. Affrontare la solitudine, soprattutto per chi è più giovane, durante un evento come questo, non è una passeggiata di salute di certo. Nella sfida di non disumanizzarci che questa quarantena ci pone davanti, la solitudine è un dato politico che dobbiamo affrontare. L’isolamento e la paura non possono interessarci solo quando fanno strettamente parte della nostra comunità politica.
5) In questa questione torna sempre in ballo il problema del piedistallo, del privilegio: il nostro compito è trovare, sperimentare e rafforzare forme di comunità e di solidarietà. Evitiamo una narrazione che spoglia gli esseri umani della loro umanità, che categorizza i comportamenti e li giudica, che inserisce una scala di valori e di senso delle condotte. La responsabilità di fronte al contagio epidemico rafforza questa narrazione. Teniamo soprattutto a mente il carattere di laboratorio dell’emergenza: quando fra un mese riprenderanno gli sbarchi, quale sarà la narrazione del nemico?
Definire irresponsabile, infantile, emotivo un comportamento significa svilire un soggetto, degradarlo: detta chiaramente, è un atteggiamento patriarcale e razzista. Gli emigrati sono bambocci, sono irresponsabili, però poverini, c’è da capirli, si sentono soli. In altre parole, abbiamo la narrazione assistenzialista della migrazione.
E quindi? Quindi gambe in spalla, assumiamoci la responsabilità di ribaltare una narrazione nemica!
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