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Oltre l’indignazione pratichiamo conflitti!

Oltre l’indignazione pratichiamo conflitti!

Alla riflessione sul 15 ottobre vogliamo apporre una premessa fondamentale: la manifestazione di Roma ci mostra, al di fuori della retorica pressappochista tesa a isolare ed emarginare le pratiche di lotta più radicali, un primo ed enorme momento di opposizione globale alla crisi e alla progressiva degenerazione dei suoi effetti che, come a più riprese abbiamo ribadito, ricadono solo e soltanto sulle fasce più deboli della popolazione.

Le strade di Roma hanno visto manifestare 400 mila persone che in piazza hanno portato contenuti precisi ed obiettivi chiari, che non possono prescindere dal totale rifiuto del sistema economico dominante che ha ridotto chi ci governa a servile esecutore di diktat imposti da istituzioni sovranazionali, BCE su tutte. Milioni di persone in tutto il mondo hanno preso parte alla giornata di mobilitazione mostrando chiaramente che un’opposizione sociale e politica praticata dal basso esiste, e deve ripartire dalla difesa e dall’ampliamento dei diritti, specialmente per le categorie più disagiate e relegate ai margini del nostro mondo.

Questo processo di opposizione trova la sua ragion d’essere nella lotta contro l’imposizione di politiche neoliberiste volte a tutelare banche e grossi gruppi finanziari dalla crisi economica, tagliando la spesa sociale, deregolamentando il mercato del lavoro, chiudendo i confini, e permettendo che pochi si impossessino e gestiscano la ricchezza sociale. Stiamo lottando perché non si chiuda ogni prospettiva a studenti, precari, lavoratori, migranti e comuni cittadini, dai centri urbani alle periferie. Costruiamo percorsi radicali anche perché siamo coscienti del fatto che nessuno è più disposto a fare sacrifici a favore di banche e grossi gruppi finanziari, nessuno è disposto a rinunciare ai diritti sociali conquistati con dure lotte.

Chi è sceso in piazza il 15 ottobre è accomunato, seppure nella differenza delle pratiche e delle rivendicazioni specifiche, da un di senso di smarrimento causato dalla precarietà delle proprie esistenze e dalla rabbia per le condizioni sociali a cui si è costretti, una richiesta di cambiamento che da anni lotta per contrastare le politiche della crisi. Questa è l’anima dei movimenti, delle individualità e dei collettivi che hanno manifestato a Roma, gli stessi che da anni manifestano dissenso e rivendicano diritti, puntualmente repressi, criminalizzati a priori e, quando accolti in sede istituzionale, ripetutamente frustrati nei loro intenti, ma comunque mai messi a tacere.

I fatti di Piazza San Giovanni vanno letti in questo contesto: nessun addestramento specifico, nessun gruppo paramilitare, nessuna regia occulta, semplicemente il dirompente manifestarsi di un disagio generazionale e non solo, l’esplosione di un’emergenza sociale che la politica è incapace di recepire e affrontare in maniera concreta. Nonostante i leggendari racconti dei media sulla gente nera e cattiva che ha messo a ferro e fuoco Roma, dovrebbe oramai essere chiaro che dietro quei volti coperti e quelle barricate c’è la parte di questo paese dichiarata sconfitta prima del tempo, quella parte della popolazione che la crisi non l’ha provocata ma che, paradossalmente, la sta pagando e, nei disegni della classe dirigente, dovrebbe continuare a pagarla. C’è la nostra ribellione ad un presente di ingiustizia ed un futuro negato, dove non esistono più diritto al lavoro, alla casa, allo studio, all’accoglienza. Qualcuno sembra aver dimenticato che il conflitto sociale è un fatto storico ricorrente, specialmente in tempi di crisi e di austerità. Per questo non ci scandalizziamo per le rivolte di piazza, anche violente, che sempre più spesso vediamo esplodere nelle città di tutto il mondo.

Resta comunque, dopo sabato, la necessità di una riflessione sulla capacità del movimento di rimanere coeso pur nelle differenze dei metodi di lotta. A Roma il 15 ottobre non si è andati verso i palazzi del potere ma si è praticato il conflitto in una piazza che sarebbe comunque stata del movimento, e che dopo gli scontri è rimasta desolatamente vuota. Questo ci pone la necessità di organizzare e coordinare collettivamente le pratiche di lotta, anche e soprattutto alla luce della capacità di resistenza che il movimento ha poi saputo dimostrare di fronte alla reazione delle forze di polizia. Ciò significa che le pratiche non si impongono, che le forzature dividono e che le riflessioni condivise uniscono, anche se ciò implica fare autocritica. Non esiste una sola pratica di lotta e ancor di più non esiste un solo modo di radicalizzare le lotte. La pluralità delle pratiche va tutelata ed organizzata nella maniera più unitaria possibile.

Un’ultima perentoria presa di posizione è il rifiuto di qualsiasi tentativo di criminalizzazione della lotta e di divisione del movimento, a partire dalle pratiche delatorie. I blitz a tappeto, i riferimenti alla Daspo politica e vecchie reminiscenze come la legge Reale sono puri atti di intimidazione che non possono essere né tollerati né sottaciuti, ma che vanno denunciati pubblicamente come forme di tutela violenta dei processi decisionali, da cui si vuole escludere ogni forma di dialogo con le opposizioni sociali.

Vogliamo riprenderci tutto ciò che ci hanno tolto e dobbiamo partire dagli spazi di espressione del dissenso. Ora più che mai, in un clima di terrorismo psicologico come quello a cui stiamo assistendo negli ultimi giorni, occorre rivendicare la legittimità della lotta senza cedere il passo alla strumentalizzazione politico-mediatica dei fatti di piazza San Giovanni. Vogliamo invadere le città, ma invaderle sul serio, bloccare le strade, le stazioni, varcare le zone rosse del potere e magari anche accamparci nelle piazze, per ribadire che nessuno può decidere sulle nostre vite rinchiuso in quei palazzi del potere che poi, quando le acque si sono calmate, vengono eretti a tempio della democrazia.

Per quanto ci riguarda, come studentesse e studenti dell’Università di Urbino, vogliamo da subito rilanciare le nostre lotte a partire da un serrato lavoro di denuncia sui responsabili e sulle conseguenze del peggioramento delle condizioni materiali degli studenti nella nostra città, gli “utenti” di una città campus che sta perdendo la sua vocazione originaria a favore di una gestione aziendale della vita studentesca. Ci riapproprieremo della ricchezza sociale che sappiamo produrre, sottoponendo a critica l’offerta formativa dell’ateneo di Urbino e mostrando la natura del meccanismo di indebitamento studentesco che Banca Marche insieme a Ersu e Regione stanno proponendo quale sostituto al diritto allo studio, ormai allo sbando e fortemente sotto finanziato. Continueremo a lottare per tutelare i diritti e garantire integrazione a tutte le fasce deboli della società, a partire dalle nostre compagne e i nostri compagni disabili.

Costruiremo le nostre lotte per un futuro diverso facendo vivere gli spazi sociali della città. Lotteremo sul territorio insieme a tutte le realtà che si esprimono modo critico e dialettico rispetto all’attuale situazione sociale. Quello che sta succedendo in questi giorni ci dice che l’emergenza sociale è generale e diffusa, il conflitto che ne deriva anche. A Roma sul nostro striscione c’era scritto: “Incompatibili con la crisi, inconciliabili con chi la governa”, il resto è storia da scrivere, gestione collettiva dei processi di opposizione alla deriva economico-sociale che ci sta investendo.

L’autunno è appena incominciato, oltre l’indignazione pratichiamo conflitti.

Le studentesse e gli studenti di Urbino in mobilitazione

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