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Ravvivare la fiamma. La serenata olimpica del M5S alla città che conta

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Mentre nel resto del mondo si sta scatenando il fuggi fuggi generale dalle Olimpiadi, l’Italia scodinzola davanti al CIO per la concessione del grande intrallazzo. Da grande mietitrice della casta a garante del sistema Torino, un articolo sullo slalom e la rovinosa caduta della giunta Appendino

Per l’edizione precedente, quella del 2022, tra defezioni e rinunce, in lizza c’erano solo due contendenti, Pechino e Almaty, località sciistica kazaka. Non un grande successo. Da noi, però, le cose sono diverse. Influenzati da lobby e correnti affaristiche, l’Italia è l’unico paese in cui ci si scanna per la concessione delle olimpiadi. Basti pensare che per l’edizione 2026, rimangono solo sei città candidate. Guarda caso, le italiane rappresentano la metà dei contendenti. Ed è notorio che nella partita dell’assegnazione non valgono le regole del curling ma del poker: se non riesci a individuare il pollo nella prima mezz’ora di gioco, allora il pollo sei tu.

Le tre città italiane sono Cortina, Milano e Torino. La prima è una lussuosa località sciistica in cui la candidatura è, di per sé, una campagna pubblicitaria. Quanto a Milano, la capitale meneghina è ormai una città strutturalmente basata su “pacchetti” di sviluppo. La giunta del sindaco Sala ha saputo abbandonare a tempo la nave renziana per vivere in simbiosi con gli investitori del cemento e lo sciame di imprenditori del capitalismo immateriale che vivono di immagine e di sfruttamento del lavoro semi-gratuito (ancora un altro trattino sul curriculum, ancora un altro stage, ancora un altro contatto giusto). È il modello EXPO. C’è poi Torino, in cui “governa” una giunta comunale che ha basato una grossa parte della sua campagna elettorale alla contrapposizione col pensiero unico della grande mangiatoia. “Pochi grandi eventi, tanti piccoli eventi e attività capillari che rendano più vivibile la città”, annunciava solo due anni fa, in un’intervista a La Stampa, il vice-sindaco Guido Montanari, proprio in occasione dei primissimi interventi finanziari della giunta grillina, riconoscendo che la fissazione sui grandi eventi “è proprio la ragione per cui Fassino ha perso le elezioni”. Niente di rivoluzionario, puro buon senso contabile in una città in cui le Olimpiadi 2006, al netto di “volano”, immagine, ammennicoli, ricadute dal segno più e dal segno meno, si erano lasciate dietro una fattura da 800 milioni di euro (dati fondazione Leoni) contribuendo a far crescere il debito della Città da 1,8 miliardi del 2001 ai 3,3 del 2011. I soldi li spese Chiamparino ma il conto, ovviamente, non lo pagò Fassino. Il banchetto olimpico, un po’ all you can eat, un po’ vieni-con-chi-vuoi, come ogni festino in cui i commensali non passano alla cassa, è stato compensato da tutti i torinesi con anni di tagli ai servizi comunali e una svendita del patrimonio pubblico degna delle migliori televendite: messa all’asta dei parcheggi, cessione di quote delle società che gestiscono l’aeroporto e i trasporti pubblici, e poi vendita di decine di immobili compresi complessi patrimonio dell’Unesco come la Cavallerizza reale, la facoltà di agraria e persino la questura. Indebitator & Liquidator, così il M5S aveva efficacemente soprannominato l’azione del duo Fassino e Chiamparino durante la campagna elettorale.

Poi, d’improvviso, il miracolo. Le olimpiadi, nella bocca dello stesso vice-sindaco Montanari, diventano “la benzina che serve a far ripartire Torino”. Transustanziazione. Lo spirito di Fassino si è incarnato nell’ostia di Appendino.

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 Certo si potrebbe cercare l’origine di questo miracolo nell’inconsistenza politica dei 5 stelle, in quella clamorosa incapacità nel sapere imporre un punto di vista di parte che abbiamo imparato bene a conoscere in questi due anni, nella subalternità culturale, ancor prima che politica, alla grammatica del buon gioco democratico. Quello in cui chi distribuisce le carte e sceglie le regola del gioco è la tanto vituperata casta. La Verità risiede senz’altro in questo peccato originale grillino. Ciononostante, questo non aiuta a comprendere la parabola di una sindaca che, sebbene nessuno si aspettava cacciasse i mercanti dal tempio, è diventata in meno di due anni il loro predellino…

Alle origini del miracolo eucaristico

Roma. Febbraio 2017. Sono giorni convulsi per il destino della prossima grande speculazione nella capitale: il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Poco meno di cinque mesi prima Virginia Raggi aveva rifiutato la candidatura ai giochi olimpici. Inaudito. Le mani sulla città già fremevano eccitate pregustando la scorpacciata e salta tutto. Non la ragionevole proposta di una versione “alternativa”, magari con uno smalto ecosostenibile e qualche ninnolo sociale per le associazioni amiche. Salta tutto. Saltano gli appalti, saltano le mazzette, salta soprattutto un assetto di potere consolidato che ha fatto della rendita il vero perno del rapporto tra economia e politica, in particolare a Roma, dove più che altrove i profitti sono sempre passati prima dal mattone poi dal vetrocemento. Ora si sono impuntati e vogliono far smontare anche il progetto dello stadio. Cosa si sono messi in testa in Campidoglio? Bisogna correre ai ripari.

Già da giorni l’apparato mediatico-politico della città di sopra sta giocando le sue carte con meno leggerezza dopo la sorpresa olimpica. La retorica è sempre la stessa. Grillini poveretti e incompetenti, trogloditi e senza visione. Nemici dello sport, nemici delle opportunità, nemici dello sviluppo. Il 5 febbraio arriva la mossa decisiva. L’allenatore della Roma, Spalletti, e i giocatori al gran completo, con Francesco Totti in testa, lanciano l’hashtag #FamoStoStadio interpellando direttamente la sindaca sul futuro del progetto. Scala colore. Il M5S cade nel panico. “Ci massacrano, dobbiamo cedere” dicono alla sindaca. Lo stadio si farà. La decisione sarà annunciata ufficialmente un paio di settimane dopo, dopo un veloce maquillage che permette di parlare di revisione del progetto con “caratteri fortemente innovativi”. Sospiro di sollievo. Si può ricominciare a puntare, tanto il banco vince sempre.

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La vicenda stadio della Roma rappresenta forse l’ultimo momento in cui il M5S ha rappresentato un’effettiva anomalia dentro il sistema istituzionale. La cosa è venuta fuori in maniera plateale proprio qualche settimana fa, con l’inchiesta che ha porta dritto in carcere il costruttore del nuovo stadio Parnasi e a diverse misure cautelari che hanno colpito esponenti del M5S, del PD e di Forza Italia. L’ennesima prova che le grandi opere nel nostro paese non sono dei “progetti” riformabili ma uno della risorse imprescindibili con cui il sistema economico e mafioso, ormai tutt’uno indistinguibile, si sostiene. Le intercettazioni di Parnasi attestano il grande pressing dall’esecutivo pentastellato sulla sindaca per evitare di essere impallinati dai padroni di Roma: “A un certo punto la Raggi intuisce il fatto che poi alla fine se non avessi fatto lo stadio sarebbero stati problemi seri…per lei”, dice il costruttore. E allora #famostostadio. Da lì in poi è tutta in discesa: arrivano le dimissioni da assessore dell’urbanista Berdini (“un pazzo totale” secondo Parnasi), e l’ascesa di quel Luca Lanzalone, il Mr Wolf del MoVimento in seguito “premiato” con la presidenza di Acea per come ha ha risolto la questione stadio. Era arrivato qualche mese prima nella capitale per commissariare la sindaca in compagnia di due figure che saranno al centro della successiva legislatura, i futuri ministri Fraccaro e Bonafede.

La moltiplicazione dei pani e dei cerchi

Se ormai è chiaro che il M5S non porrà più alcun problema perché non provare il colpo anche sulle olimpiadi invernali? Certo è che in una città come Torino resta difficile girarci intorno. Un po’ perché il M5S torinese non è solo generalmente “contro i grandi eventi”. È contro quel grande evento. Di questo parlava la futura sindaca andando per mercati quando dicendo che l’alternativa era Chiara. Un po’ perché nel ceto politico grillino sabaudo esiste una minima stratificazione politica, legata alle battaglie contro la Torino-Lione, l’inceneritore e per l’acqua pubblica (a proposito, ora che c’è #ilgovernodelcambiamento anche questo sarà questione di settimane). Un po’ perché, nonostante i tempi di accelerazione socialmediatica delle bugie elettorali, la balla è troppo grossa anche per gli elettori grillini: i manifesti di Indebitator & Liquidator sono solo di pochi anni fa. Proprio per questo, però, per il Sistema Torino – quell’intreccio tra partiti politici, grande imprenditoria e fondazioni bancarie che ha trasformato la capitale fordista modellata intorno alla FIAT in una smart city finanziariazzata – è l’occasione win-win. Perché o le olimpiadi si fanno, e si rilancia così un altro giro di giostra. O le olimpiadi non si fanno ma la sindaca ne uscirà a pezzi, balbettante davanti alle accuse con cui la martellano dal suo insediamento, quelle che vogliono la giunta pentastellata composta da incapaci e manchevole di una visione della città. Una stantia retorica da corsi motivazionali che sembra però fare incredibilmente presa su una sindaca che cammina sui gusci d’uovo dai fatti di piazza San Carlo e a cui sembra mancare, più che una visione, una capacità ad essere conseguente. Ricordate? La visione della città era quella opposta ai grandi eventi da tre miliardi in tre settimane mentre le periferie vivono carenza cronica di servizi e manutenzione.

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La palla del low-cost e del green

Sono ovviamente i fanatici del TINA, There’s no alternative alle grandi opere ad aprire le danze. Le prime mosse spettano al PD, con Chiamparino in testa e Fassino un po’ più defilato. La mancata candidatura sarebbe un’occasione mancata, un investimento per rilanciare la città che salta, un delitto che ucciderebbe la montagna dicono. Seguono a ruota Forza Italia e Lega nella grande ammucchiata. La sindaca tentenna, valuta dice. Anche perché alcuni consiglieri non si fanno imbambolare. Ma alla fine non si tira indietro. E che Torino 2026 sia.

Certo bisogna indorare la pillola. Si inizia da subito a parlare di olimpiadi low-cost e green, di riuso dei vecchi impianti, di progetto sostenibile, di vincoli stringenti addirittura di “olimpiadi senza debito”. D’altronde la pacatezza e l’attenzione all’ambiente sono diventati una retorica inaggirabile per qualsiasi grande evento sportivo come ha sancito lo stesso CIO l’anno scorso stilando le sue “regole per i giochi del futuro”, spaventato dalla moria di candidature che rischiano di lasciare il business olimpico senza alcun avvenire. Scegliere le combinazioni, cambiare i colori delle fiches, puntare sul rosso o sul nero poco importa. L’importante è non porre mai la vera domanda: ma giocare conviene o il gioco è truccato?

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In realtà si tratta di menzogne talmente plateali che non meriterebbero neanche risposta. Per giudicare del riuso dei vecchi impianti basta farsi un giro al trampolino di Pragelato, prezzo 37 milioni di euro, oggi completamente abbandonato, costo di manutenzione stimato a 1,1 milioni l’anno. Oppure alla pista di bob di Cesana. Costata 140 milioni viene chiusa nel 2010 senza aver visto un solo evento dopo che si sono spenti i riflettori olimpici.

Torino 2006 costò 3,5 miliardi, di cui 2 miliardi di soldi pubblici. Con quei soldi si sono costruiti piste poi chiuse o strutture ricettive rivendute in seguito sotto-costo o cedute senza canone ad holding private. Quanto al “low cost”, lo stesso dossier presentato dall’architetto Sasso per la nuova edizione prevede un costo di due miliardi, una cifra altissima che rimane comunque una barzelletta. La storia insegna che non c’è MAI stata un’edizione senza sforamenti e sono i soldi pubblici che devono coprire ogni centesimo extra. D’altronde, se la commissione del CIO pare che avrà la decenza di pagarsi l’albergo durante la visita dei futuri impianti, solo per presentare la candidatura si spenderanno 5,7 milioni di euro.

Il Gigante della clientela

C’è la seria possibilità, questo sì, che quei soldi daranno i loro frutti. D’altronde queste olimpiadi non le vuole proprio nessuno. Dicevamo che di città candidate ne rimangono ben poche. Dopo un referendum cantonale, la Svizzera si è ritirata dalla corsa truccata. In Austria nessuno vuole sapere di neve e cerchi. Già la possibilità di fare le olimpiadi a Innsbruck era state bocciata dalle autorità locali. Ora è arrivato anche lo stop al piano B di Graz. A Stoccolma il comitato promotore continua a lavorare sostanzialmente a vuoto, nel disperato tentativo di convincere la giunta socialdemocratica della città a dare il suo appoggio alla candidatura dopo che la sindaca Karin Wanngård ha ritirato il suo sostegno al progetto per i costi troppo alti e le scarse garanzie date dal CIO sul suo contributo economico. Resta Cagary, in Canada, dove però è prevista una consultazione popolare che rischia seriamente di far saltare la festa e Sapporo, in Giappone, che sarebbe rimasta in gara solo su pressione del CIO, per dare una parvenza di autenticità alla sfida per la candidatura. Unica vera contendente è Erzurum ma difficilmente il CIO darà la precedenza alla Turchia, preoccupato dalla tendenza che i grandi eventi sportivi diventino gingilli costosi per regimi autocratici (vedasi futuri mondiali in Qatar e Olimpiadi invernali di Sochi). La corsa olimpica si è quindi trasformata in un Gigante azzurro della clientela con i tre principali partiti che rappresentano ognuno una cordata dei rispettivi affaristi: la Lega in Veneto, il PD la Lombardia e il M5S in Piemonte. Una gara che la dice piuttosto lunga sul rimodellarsi della mappe dei favori, delle quote e degli appalti nel grande sconvolgimento politico degli ultimi mesi, con l’arrivo del nuovo governo, la perdita di terreno del PD reziano e l’eclissarsi di Forza Italia, tanto che Sala si lamentava pochi giorni fa che la questione olimpica non diventi l’ennesimo terreno di competizione nel governo giallo-verde che rischierebbe di lasciare Milano col cerino in mano.

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Ma in fondo il partito è sempre lo stesso, è il grande partito degli affari con le sue cordate e le sue lotte intestine ma sempre in moto per difendere i suoi interessi. Basti pensare che lunedì Chiamparino, mentre attaccava gli attivisti del CO.NO. (il COordinamento No Olimpiadi) definendoli dei fafiuchè, degli strambi, ci è andato giù senza complessi. Galvanizzato, ha evocato il ritorno in campo delle stesse identiche figure del disastro olimpico del 2006. Ecco allora che si scoperchia la bara ed esce fuori “una squadra che va da Valentino Castellani a Evelina Christillin”. I giochi dei morti viventi. Uno è l’ex-sindaco promotore della svolta post-comunista nell’amministrazione della città, prima responsabile della privatizzazione delle aziende comunali, poi fautore delle olimpiadi del 2006, infine vice-presidente del think-tank Torino strategica e attuale presidente della fondazione ISI. L’altra è stata il volto pubblico dei giochi del 2006, frequentatrice di casa Agnelli fin dai tempi della scuola, assunta in seguito come addetta stampa FIAT, moglie di Paolo Fresco, uno dei manager che più ha contribuito a trasformare la casa automobilistica in una holding finanziaria, collabora all’elezione di Castellani, diventa presidente del Comitato promotore Torino 2006, membro del consiglio di amministrazione di Carige, Cariparma e SAES getters, prima “veltroniana sentimentale” (cit.) poi nominata da Renzi alla testa dell’Agenzia nazionale del Turismo.

Dodici anni dopo la sciagurata kermesse delle olimpiadi invernali del 2006 è tutto un grande revival e, tra le paillettes, regna di nuovo una concordia istituzionale senza pari. Per un paradosso solo apparente, la presenza del Movimento 5 stelle al governo della città ha rappresentato la sola possibile soluzione per imporre i giochi. Senza il bollino di Grillo, la casta olimpica sarebbe risultata davvero troppo inflazionata, la città sta ancora vivendo un dopo-sbornia doloroso e il M5S fuori dal palazzo avrebbe dato battaglia contro una nuova notte brava del Sistema Torino. Ora sono l’aspirina necessaria per far passare dubbi e mal di testa. L’acqua si è trasformata in vino. Amen.

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