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Sullo sgombero del Leoncavallo

Com’era prevedibile, alla proditoria azione di sgombero attuata dal Ministero per giocare d’anticipo e bloccare a) una programmata azione di mediazione del Comune di Milano con la ricerca di una nuova sede, b) un ricompattarsi di quel che resta del “movimento” al rientro dalle ferie, è seguito un dibattito sulla stampa e sui social dove se ne leggono di tutti i colori e s’aggiunge confusione a quella che già ammorba da tempo lo spazio pubblico.

Di Sergio Fontegher Bologna, da Officina Primo Maggio

Nella speranza di diradare un po’ di questa nebbia fitta mi permetto di fare qualche osservazione. Tanto per cominciare: un minimo di memoria storica non fa mai male.

I “centri sociali” sono nati negli anni Settanta come contenitori di una conflittualità e di un antagonismo sociale che non trovava spazi adeguati nemmeno nei gruppi extraparlamentari, erano già espressione di una generazione successiva al ’68. Non a caso prenderanno slancio dopo il ’77 e in particolare negli anni della grande repressione e della sconfitta operaia, quindi nei decenni Ottanta e Novanta.

Ci cresceranno i nostri figli, che oggi hanno più di 50 anni, troveranno un luogo dove mantenere certi valori, dove difendersi da certi pericoli (la droga pesante), dove cominciare a produrre e consumare una nuova cultura, che fu chiamata cultura underground, dove trovare situazioni affini quando andavano all’estero, in Germania, negli Stati Uniti, cioè nei paesi a capitalismo avanzato, dove trovare chi li rendeva famigliari con le nuove tecnologie, con quell’universo chiamato web, con il movimento dei cyberpunk, degli hacker. Dai “centri sociali” sono venuti fuori fior di informatici, di ex “smanettoni”, sono venuti fuori tecnici del suono ed esperti di trattamento immagini. A Milano quanti lavoratori del cinema, del mondo dello spettacolo, della musica, dell’editoria digitale, sono usciti dai “centri sociali”!

Sentir parlare oggi dei “centri sociali” come posti dove la birra costava 1,50 euro, come luoghi di sfogo della street art, come sedi di concerti a tutto volume fino alle 2 di notte, sentirne parlare con la nostalgia pelosa di quelli che ne rappresentano l’opposto, leggere che li apprezzava pure Vittorio Sgarbi, mi fa venire il voltastomaco. E ancora di più quando leggo che l’opposizione parlamentare esplode in un: “allora per par condicio chiudiamo anche lo stabile occupato da Casa Pound a Roma, per ristabilire la legalità”. Lo dicono in un paese dove dilaga la simil-schiavitù nelle campagne, nella logistica, nella ristorazione, nel food delivery ecc..

Certo, anche i “centri sociali” hanno avuto il loro declino, in parallelo con tutta la società italiana. Primo Moroni, che ne è stato il “tutor” più illustre con la sua Libreria Calusca di Milano, li definiva “luoghi d’aggregazione del disagio giovanile” già alla fine degli Anni Novanta. La cosiddetta cultura underground ha perso tutto il suo slancio, anzi, ha fornito modelli per la più becera cultura del consumismo, dal prêt-à-porter alla musica rap molti ambiti del consumismo moderno hanno attinto a piene mani ai modelli lanciati dalla cultura underground. Oggi tanti segni identitari dei radical chic sono identici a quelli diffusi nei “centri sociali” anni Novanta, quando il figlio del brigatista condannato all’ergastolo si alzava nelle assemblee dichiarando con orgoglio, “sono figlio di un combattente comunista”. Ma mentre sul carro della cultura underground, della street art, saltavano tanti paraculi, dai “centri sociali” all’inizio del nuovo millennio partiva lo spunto della lotta al precariato. San Precario non l’hanno mica inventato CGIL CISL e UIL. A Milano alle May Day Parade c’erano duecentomila giovani in corteo con gli impianti hi fi a pieno volume caricati su semirimorchi il pomeriggio del Primo maggio, alla mattina, alla manifestazione ufficiale con sindacati, autorità e compagnia cantante se c’erano 5 mila presenti era tanto.

E allora qui bisogna tornare, da qui occorre riprendere il discorso. Urgente è ricostituire un movimento antagonista, conflittuale, radicale, che ponga al centro il dramma numero 1 oggi in Italia (ma in realtà presente nel mondo capitalista tutto): lo squilibrio spaventoso tra capitale e lavoro. Il problema che aveva il figlio del brigatista negli anni Novanta ce l’ha oggi il laureato a pieni voti alla Statale, ce l’ha il guardiasala della Fondazione Prada, laurea in storia dell’arte e conoscenza di due lingue straniere a 5 euro l’ora, e ce l’ha l’autista dell’ATM a 1600 euro al mese, che non si può permettere un affitto a Milano e al mattino si fa 1 ora e mezza di viaggio per venire a lavorare. Ce l’hanno le migliaia di donne e uomini a partita Iva, che lavorano in prestigiosi studi professionali o nei servizi di cura in appalto presso enti ospedalieri, case per anziani e altro, per non parlare delle cameriere e dei camerieri che lavorano in nero nei bar, nei ristoranti, negli alberghi, nelle pizzerie. Ridare un minimo di dignità al lavoro, un minimo di prestigio alle competenze, questi sono i temi che mi piacerebbe entrassero con forza nella manifestazione del 6 settembre. I “centri sociali” sono luoghi dove persone giovani e meno giovani si riprendono il senso dell’esistenza, si riprendono i loro desideri, non sono (o non dovrebbero essere) ambiti in cui una generazione ripiegata su se stessa cerca consolazione alle proprie sfighe.

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