Tu quoque, Roma? Analisi del voto romano alle europee
In queste febbrili ore post elettorali si susseguono gli iperboli sul voto alle elezioni europee di domenica 26 maggio, e Roma non fa eccezione. Si va dalle celebrazioni per l’exploit della Lega di Salvini alla riscossa del PD come primo partito nella Capitale, passando per la disfatta a 5 Stelle marchiata a fuoco col nome di Virginia Raggi.
Ma possiamo davvero ridurre tutto a una dinamica così chiara e superficiale? Prendiamo una lente di ingrandimento e proviamo a capirci qualcosa in più.
Partiamo da alcune considerazioni di carattere generale. Il voto delle europee, almeno in Italia, può essere considerato a tutti gli effetti un termometro fallato del Paese. In questa tornata elettorale l’affluenza è stata del 56,1%, in calo di quasi due punti percentuali rispetto al 2014, nonostante la generale crescita in tutto il continente (51% di media contro il 42% delle scorse consultazioni). Siamo ben lontani dall’ “europeissima” Italia delle elezioni del 1979, quando più dell’86% degli aventi diritto si recò alle urne. Da allora una costante flessione, fino al dato odierno: una direttrice confermata, con diverse percentuali, anche alle elezioni politiche. In una fase di crisi profonda della rappresentanza, l’elettorato di certo non si spende per nominare i “rappresentanti” di un’istituzione percepita, mai quanto oggi, lontana dalle proprie necessità, responsabile di buona parte dei problemi strutturali del Paese e incerta tanto sul presente quanto sul futuro. Probabilmente, se non si fossero accorpate le europee con numerose elezioni amministrative (Regione Piemonte + 3.844 comuni di cui 24 capoluoghi di provincia e 6 di regione), parleremmo di affluenze ancora più basse. E la città di Roma lo dimostra ampiamente, con un’affluenza al 48,91%, dunque ben al di sotto della media nazionale. La metà degli aventi diritto, decine di milioni di persone, non si è recata alle urne.
Il voto nella Capitale ci restituisce un quadro parzialmente diverso rispetto al nazionale, confermando alcuni trend già in corso e previsioni facilmente calcolabili alla vigilia. Il primo dato lampante è, anche qui, la crescita esponenziale della Lega di Salvini, che passa dall’1,42% delle europee 2014 (16.728 voti) al 25,78 % (285.318 voti). Considerando anche il passaggio intermedio delle elezioni politiche e regionali del 2018, in cui la Lega prese percentuali intorno tra l’8 e il 12%, il dato, ad una prima analisi, sembra davvero incredibile. Ma non lo è poi così tanto. Come non lo è la scomparsa di Casapound e Forza Nuova dai radar elettorali, formazioni che, nonostante l’ormai costante sovraesposizione mediatica, sono ormai relegate a fare i topolini per la montagna salviniana.
Andiamo avanti. Il PD di Zingaretti esulta per quella che definire una “vittoria di Pirro” è dire poco. I resti dell’elettorato di centro-sinistra hanno una composizione fortemente europeista, dunque attratta dalle elezioni europee come un’ape al miele. E infatti l’intero blocco dem ha risposto presente: sul nazionale i voti sono sostanzialmente inalterati rispetto alle politiche, 6.161.896 contro i 6.045.723 di ieri. Gli occhiali indossati per vedere la realtà, però, cambiano radicalmente la percezione. E così quello che solo un anno fa era un risultato mediocre, adesso diventa l’occasione per “rilanciare il PD nel bipolarismo del Paese”. La maschera viene giù anche su Roma: i voti totali sono sostanzialmente gli stessi tra la consultazione di domenica e le politiche/amministrative del 2018 (intorno alle 340.000 unità), mentre rispetto alle precedenti europee c’è una flessione importante (all’epoca i voti furono 506.000).
E arriviamo finalmente al dato che più ci interessa: il crollo del M5S. Ferma restando una generale flessione del consenso bruciato sull’altare del governo gialloverde, se sul nazionale è veritiera la penalizzazione del Movimento per l’astensione del Meridione, a Roma non è così. Con un’affluenza sostanzialmente stabile (1.200.000 voti nel 2014 contro 1.125.000 voti nel 2019), alle scorse europee i pentastellati ottenevano 293.241 preferenze, contro le 194.545 attuali. Se consideriamo anche le elezioni amministrative del 2016, in cui la Raggi prese 412.285 voti, e le elezioni del 2018, in cui gli stellati romani furono in linea con la media nazionale ma presero solo 4 collegi uninominali alla Camera e 2 al Senato (e 253.319 preferenze alle regionali), il tracollo è evidente.
Su un dato si possono giustificare i grillini: nelle periferie romane, roccaforte dei voti a 5 stelle, l’affluenza alle europee è stata molto bassa. Questo è vero, certo. Come è vero che il PD è primo partito a Roma per lo stesso motivo, e che gli stessi dem hanno fatto man bassa di voti nei due municipi centrali, dove peraltro l’affluenza è stata la più alta della città (52% nel I municipio e 56% nel II municipio). La frattura tra centro e periferia nella Capitale è evidente, lo era stata già nelle scorse tornate elettorali, prima fra tutte le amministrative del 2016 quando gli unici municipi conquistati dal PD furono proprio i due centrali. Il “nuovo” corso di Zingaretti rappresenta l’alternativa solo per le classi ricche, questo lo sapevamo già.
Tutto vero, ma solo in parte. Perchè, in realtà, alle scorse europee i pentastellati presero percentuali molto più alte nei municipi periferici. Prendiamo ad esempio il Municipio VI, al centro delle cronache degli ultimi mesi per i fatti di Torre Maura. Storica raccaforte pentastellata, nel Municipio delle “Torri” i voti M5S nel 2014 furono 28.869, mentre oggi 19.293. La Lega balza da 1.516 voti a 28.539, mentre il PD crolla da 29.919 preferenze a 13.575. Il VI è il Municipio degli estremi: astensione più alta (solo 42% di affluenza), più alta percentuale di voti alla Lega (36,8%), più bassa al PD (17,4%) e, nonostante tutto, la più alta in città per il M5S (24,9%). Ma quel quadrante è in testa alle classifiche cittadine anche per altri motivi, come il tasso di dispersione scolastica sopra il 7%, la disoccupazione giovanile intorno al 32%, la composizione migrante tra il 12 e il 15% con un’aumento, in alcune aree, del 1000% di presenze solo negli ultimi 10 anni. Fino ad arrivare all’enorme disagio sociale esploso in tutta la sua violenza ad aprile contro il centro di via dei Codirossoni.
L’analisi ci restituisce alcuni spunti di riflessione. Anzitutto: la retorica delle periferie come covi di fascisti, violenti e retrogradi, feticcio agitato da Repubblica e sodali per rimpolpare le fila del PD come unica alternativa al fascismo, è smentita una volta di più. Il travaso diretto di voti dal M5S alla Lega, e prima ancora da Renzi ai pentastellati, lo dimostra chiaramente: non è fascismo, è bisogno di risposte alla crisi, di cambiamento, di protezione. Che assume anche toni duri, reazionari. Ma stiamo parlando di un’altra cosa. Lontano da logiche di opinione o di collocazione sociale, valide semmai per lo zoccolo duro degli elettorati dei partiti tradizionali come il PD o Forza Italia, il voto è ormai estremamente volatile, facilmente modificabile anche in maniera drastica rispetto alla “pancia” del momento. C’è una grossa forchetta di persone che fluttua spesso da un partito all’altro, incapace di immaginare un cambiamento che non passi per l’elezione dell’illusionista del momento. I partiti ora emergenti, e in questo, con sfumature differenti, Lega e M5S sono identici, viaggiano sul modello del cartel-party, con scarsa o svenduta base ideologica, che parlano per slogan e tendono a costruire consenso su politiche di parziale redistribuzione del reddito (lodevoli, per carità, rispetto alle nefandezze della pseudo-sinistra) o sulla logica della paura senza affrontare le questioni centrali: casa, lavoro, servizi, ambiente, patrimonio pubblico. Spendere e spandere senza toccare i nodi profondi della politica, magari lasciando a qualche governo tecnico l’impopolare compito di rientrare nel budget con provvedimenti lacrime e sangue. I pentastellati nascono con questa impronta, la Lega la assume dopo il maquillage di Salvini che la trasforma in un partito nazionale. E probabilmente sarà proprio quest’identità ibrida, finita l’ubriacatura dei picchi elettorali, a creare più di un grattacapo al Capitano, che al Sud si affaccia ma non sfonda, mentre al Nord la solida base storica, quando si parla di Meridione, rumoreggia non poco.
La seconda considerazione riguarda l’inesorabile declino dell’illusione grillina. A Roma, come avevamo già detto qui, la fallacità delle promesse pentastellate si è palesata già molto prima del livello nazionale con Virginia Raggi. La sindaca è rimasta incastrata tra i poteri forti, le inchieste della magistratura e i pesanti attacchi delle opposizioni, persino dall’alleato politico del suo partito al Governo. Roma è al collasso, i pentastellati hanno perso di recente un altro municipio (l’XI) oltre ai due già persi lo scorso anno (III e VIII) e in più di qualcuno ci sono profondi mal di pancia, soprattutto il IX per la questione stadio della Roma. Una situazione difficile, proprio ora che inizia una stagione complicata, la cui onda lunga porterà alle elezioni comunali nel 2021 (a meno di possibili cadute), non solo per la questione stadio, ma anche per i rifiuti, di cui a breve dovrà sciogliere le riserve sugli impianti da utilizzare, la nomina dell’assessore all’ambiente, il rinnovo del CdA e l’approvazione del bilancio 2017 di AMA.
Un’altra considerazione si può fare relativamente al dato generazionale e alla composizione sociale del voto. Nel primo caso si possono analizzare le elezioni attraverso quelli che l’accademia chiama “effetto generazione”, ovvero l’influenza del periodo di politicizzazione dell’elettore sul proprio voto, e “effetto ciclo di vita”, per cui si è più propensi ad un voto radicale negli anni di gioventù e ad un voto più moderato nell’età adulta. La tornata europea ci dice che la Lega sfonda un po’ in tutte le fasce di età, ma il picco massimo è nei Millennials: per i nati dal 1997 in poi, la percentuale di voti leghisti è oltre il 38%. Così come sfonda tra gli operai (48%), mentre nel ceto impiegatizio le differenze con gli altri partiti si assottigliano. Proprio in questi due segmenti, i più delusi e disillusi dalle politiche dei partiti tradizionali, fino alle politiche del 2018 era il M5S ad avere le stesse percentuali plebiscitarie che oggi osserviamo per la Lega.
Come non citare, infine, il dato sull’astensione. Che non può essere una giustificazione perenne, ma può fornire alcuni dati incontrovertibili, soprattutto perché le formazioni di governo hanno trasformato le europee in un referendum sul proprio operato. Nella Capitale, come in tutto il Meridione, l’affluenza è stata ben al di sotto della media nazionale. Una larga fetta di popolazione che subisce quotidianamente gli effetti della crisi strutturale, e che non a caso aveva votato in massa (più al Sud che a Roma) per i pentastellati alle politiche, non ha premiato Di Maio & co. dopo un anno di governo. La fotografia su Roma è l’ennesimo segnale di insofferenza verso una giunta che continua a non rispondere alle periferie romane. Il voto alle europee non ha portato conforto alla sindaca: la forte astensione nei quartieri lontani dal centro è anche frutto di una sfiducia nei suoi confronti. La Raggi vuole ripartire dalle periferie, ma le periferie non ripartono dalla Raggi.
Tu quoque, Roma, hai messo la freccia verso la Lega? Probabilmente si. Ma in maniera transitoria. A Roma come in tutto il Paese assisteremo ancora a tornate elettorali decisamente curvate a destra, ma non per questo siamo di fronte a un Paese o a una città di fascisti. Il voto e l’astensione di domenica scorsa sono gli ennesimi segnali di protesta, anti-UE e contro l’establishment tradizionale. Salvini risponde in maniera veloce ed efficace a tutte le esigenze, così come lo faceva il Movimento fino a un anno fa. O, nel caso di Roma e Torino, come facevano Raggi e Appendino fino a due anni fa. Poi la realtà è “tutto un altro paio di maniche”, come si dice da queste parti. Prima si prende coscienza della fenomenologia del politico, prima si esce dall’inutile dicotomia tra chi pensa che l’espatrio sia l’unica soluzione e chi dice che Salvini è un problema da affrontare con i relitti della sinistra istituzionale. Ieri il tappo al conflitto verticale per le diseguaglianze erano i 5 Stelle, oggi è la Lega, domani ne esisterà un altro? Costruire dal basso una risposta negativa a questa domanda significa dare un immaginario a chi crede di non avere alternative alla pantomima elettorale. Significa parlare direttamente ai milioni di astenuti, ai disillusi, al soggetto giovanile, agli operai. Significa praticare l’obiettivo, per un cambiamento reale.
Fonti:
-Dati elettorali : Comune di Roma e Ministero dell’Interno
-Dati composizione voto: analisi flussi SWG
-Dati sociali VI Municipio: mapparoma.blogspot.com
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